LO SVILUPPO DEL POTENZIALE UMANO – 14

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LO SVILUPPO DEL POTENZIALE UMANO – 14

da “Enciclopedia olistica”

di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli

Sulle orme del III millennio: il battito lampeggiante delle emozioni

Di Ettore Pasculli

Inizierò con un riferimento al linguaggio simbolico e gestuale, quindi non verbale, dei mistici,
come ci è mostrato e raccontato da Padre Mathus. Lo spogliarsi in pubblico di Francesco, il suo
parlare agli uccelli marcava la differenza tra il mondo delle persone comuni e il mondo dei mistici:
erano messaggi che rompevano le regole. Questa differenziazione tra i due mondi ha delle analogie
con il rituale terapeutico, che ha la funzione di stabilire, o meglio ristabilire, una linea di
demarcazione. Questo ristabilire una frontiera spiega come mai in molte culture la follia è la
trasgressione di un tabù e, al tempo stesso, la ritualizzazione permette il riequilibrio e le
pratiche terapeutiche. Questo avviene non solo nelle culture tradizionali, ma anche nella nostra
cultura, solo che spesso non ce ne accorgiamo. I rituali terapeutici enunciano e materializzano una
classificazione che distingue nel mondo due opposte categorie, per esempio il puro e impuro, che in
genere si focalizzano su una frontiera corporea. Questo determina che ogni sostanza organica
trattenuta dal corpo e poi espulsa è al tempo stesso pericolosa, perché impura, ed efficace; ecco
quindi che gli stregoni e i maghi utilizzano sperma, capelli, ciglia, escrementi, eccetera. Ne
emerge quindi che l’efficacia del terapeuta è insita nel controllo di queste sostanze. Tornando alla
relazione di Reda, ecco Santa Caterina che beve il pus, lo beve volontariamente e questo la
autorizza ad assumere il carattere del guaritore; quindi l’assunzione del pus non può essere vista
come la condotta psicopatologica di un’anoressica, ma va inquadrata in un sistema, in un processo
simbolico molto più ampio e pregnante. Il rituale terapeutico incarna e materializza le separazioni
dei due mondi: puro/impuro, uomini/spiriti, vivi/morti, uomo/animale, eccetera. L’effetto
terapeutico è un’altra cosa, è ottenuto dalla dialettica fra la trasgressione continua delle
frontiere appena delimitate e lo specchiarsi ambiguo della linea di demarcazione; in ultima analisi
l’effetto terapeutico è ottenuto tramite un’operazione che trasforma il terapeuta in un
equilibrista. In sintesi, la condizione per lo sviluppo di un processo, l’efficacia terapeutica, è
ottenuta tramite la trasgressione del rituale stesso e si origina con una confusione in tempi
diversificati tra le categorie distinte dal rituale.

Per questo motivo, le tecniche terapeutiche, quando arrivano al limite più estremo, possono essere
viste come un’iridescenza dei limiti, dove le luci, i colori, l’ombra, il buio, passano l’uno
all’altro, come un’aurora boreale. Per esempio lo sciamano è al confine tra due mondi, quello dei
vivi e quello dei morti; scopo del rituale sciamanico è metterli in contatto, rompere queste
frontiere; così si ottiene l’effetto terapeutico. Questo permette di cogliere meglio che cos’è il
sintomo, e di comprenderlo con le tecniche terapeutiche. Il sintomo è confusione selvaggia, non
regolata da categorie; le tecniche terapeutiche organizzano rigorosamente delle discriminazioni,
delle categorie, e ne regolarizzano la confusione. Tornando al conflitto tra anoressiche e sante, è
chiaro che il digiuno nella santa serve a demarcare in un primo tempo lo stato normale da quello che
si dovrà ottenere. La santa ha uno scopo: preparare la venuta di Dio dentro di sé, quindi le
tecniche del digiuno permettono di differenziare lo stato precedente dallo stato successivo, per poi
permettersi di accogliere l’entrata del divino, che è il limite e l’obiettivo di questa pratica. Per
l’anoressica è invece un sintomo, perché il digiuno e il dimagramento sono finia se stessi e non
hanno mai un limite.

Ecco perché, in qualche modo, il digiuno delle sante ha uno scopo terapeutico, che prima distingue
due fasi e poi le confonde con l’estasi, e non un sintomo patologico. Prima si distingue, poi si
confonde. Nella tecnica terapeutica si fa proprio questo; la confusione può sopraggiungere
attraverso il vacillare delle frontiere stabilite, attraverso questa iridescenza dei limiti. Questo
avviene anche nella possessione. In un primo momento il maestro della possessione, attraverso la
conoscenza acquisita o anche la trance, distingue l’identità delle cose: gli uomini da una parte e
il dio dall’altra. In un secondo tempo, con la possessione vera e propria, questo confine viene
annullato, l’uomo diventa dio e il dio diventa uomo. Anche nel mistico, e in questo senso capisco il
discorso di Padre Terenzi su Santa Teresa, si ottiene in una prima fase la separazione tra il mondo
del sacro e il mondo del non sacro, cosa che poi permette l’estasi come momento di iridescenza dei
limiti. Però il fatto che ci sia questo processo in comune, non esclude che ognuna di queste fasi
abbia un suo registro epistemologico, per cui non si può parlare del sacro dal punto di vista dello
psichiatra, altrimenti si rischia come prima di confondere i sintomi con il processo.

Vediamo in sintesi alcuni modelli elementari che utilizzano le stesse sequenze ma in cui categorie
sono totalmente diverse. Lo sciamanesimo opera su categorie spaziali, il mondo degli uomini e il
mondo degli spiriti, basso/alto; la possessione su categorie ontologiche, io/l’altro; il sogno tra
reale e immaginario; le sostanze psichedeliche operano tra la permanenza dell’umore all’interno ed l
controllo motorio e percettivo. Le relazioni fra queste opposte categorie, nella prima fase, sono
diverse; nello sciamanesimo c’è bisogno di un mediatore che è lo sciamano, che appartiene ad
entrambi, ma non è né l’uno né l’altro. Nella possessione c’è bisogno di un terzo termine che deve
controllare tutti e due, il padrone della possessione, il sacerdote o lo stregone. Nel sogno e nelle
sostanze psichedeliche i due poli vengono entrambi dallo stesso soggetto che si sdoppia.

Sarebbe interessante se anche i teologi si servissero di questo modello per spiegare che cosa
succede nella prima fase, quando il mistico col suo linguaggio separa il mondo del sacro da quello
del non sacro, e come avviene l’iridescenza dei limiti, quali sono le categorie. Ma questa non è la
mia materia, mi piacerebbe avere una risposta.

Ho detto che anche l’uso delle sostanze in qualche modo riporta a questi rituali e a questo
confondimento. Oggi le classificazioni delle sostanze si basano per lo più sull’effetto chimico. in
realtà è molto più interessante e più funzionale la definizione che faceva Devereux sulla base degli
effetti, che dipendono anche dal contesto culturale in cui la sostanza viene usata e dall’individuo
stesso. La stessa sostanza può dare effetti diversi. Devereux suddivide le sostanze in quattro
gruppi: quelle che danno l’atarassia, quelle che danno l’euforia, la frenesia e l’allucinazione.
Egli sostiene che dietro ognuna di queste sostanze c’è un modello filosofico, un dato modo di
essere. L’atarassia per certi versi è il desiderio della sanità dell’anima, come avviene anche per
il buddismo; egli diceva che andare al di dentro era una caratteristica delle persone narcisiste
oppure dei neoplatonici. L’euforia appartiene agli dei, che ridono e cantano sotto l’effetto del
“soma”; la frenesia è quella di Dioniso e della possessione; l’allucinazione è quella della Pizia di
Apollo. Queste sostanze possono essere viste come un processo terapeutico che prima distingue, poi
confonde. Ecco che l’uso degli allucinogeni nelle tradizioni andine ha un significato diverso
dall’uso che se ne fa come sintomo nelle nostre società. Ci fu anche chi da noi negli anni ’60 – ’70
cercò di usare le sostanze per ampliare gli stati di coscienza; oggi si usano per altri motivi. Come
diceva un mio amico antropologo americano, “siamo passati dai lovers ai weekenders, nell’uso delle
sostanze”. Ciascuno di questi quattro modelli dell’uso delle sostanze può essere visto come un
sintomo o una sindrome psicopatologica: l’atarassia per certi versi rimanda alla psicosi catatonica;
l’euforia è connessa alla mania; la frenesia è l’eccitamento, l’irrequietezza psicomotoria da
anfetamine; l’allucinazione a sua volta è di per sé un sintomo. Come vedete, anche l’uso delle
sostanze può essere visto o all’interno di un processo, che prima distingue e poi confonde, oppure
come sintomo, quindi come confusione selvaggia. Ecco perché quando si parla di stregoni o di sante
bisogna star attenti a non fare troppo i clinici, perché il rischio è quello di vedere sintomi dove
c’è un processo.

Concludo con l’aspetto dell’emozione: tutta questa separazione, questo confondimento, si ottiene
perché si usano le emozioni, non si usa semplicemente il razionale. Mi ha fatto molto piacere vedere
la passionalità di Padre De Gennaro, così come mi ha fatto piacere che Padre Terenzi abbia detto che
Santa Teresa diceva alle sorelle di cantare e ballare; l’iridescenza dei limiti in fondo è anche il
riso: gli angeli in fondo ridono. Le anoressiche non ci riescono, questa è la vera differenza, si
prendono troppo sul serio. Quindi sono le emozioni che ci permettono tutto questo. C’è un altro
aspetto da considerare. Ricordo quando Padre De Gennaro diceva che non c’è differenza tra l’estasi e
l’instasi, tra l’andare verso i limiti estremi dell’universo e sentire il dio che entra. Nella
nostra cultura Eraclito diceva un cosa bellissima: “il dio disperde e poi raccoglie, il dio si
allontana e si avvicina”.

Per comprendere queste cose bisogna sentire un po’ dal di dentro, sentire queste emozioni, e saperle
vivere, come un dono che ci arriva. Un sociologo si chiedeva qual è la parola che può determinare il
senso della vita di ora? Nel ‘600 era la passione, nel ‘700 il pathos, il sentimento, nella prima
parte di questo secolo era la vita. Secondo lui, quello che caratterizzava quest’ultima parte del
nostro secolo era un “sentire dal di fuori”. Ecco perché i ragazzi vanno nelle discoteche e provano
l’eccitamento, neanche la possessione: eccitamento perché è un sentire dal di fuori, e non c’è
piacere in questo, non ci può essere estasi, né crescita, se non si recupera il piacere interno
delle nostre emozioni. Vi ringrazio per l’ascolto e spero di avervi dato sinteticamente degli
stimoli per prima distinguere poi confondere, ridendoci anche un po’ su.

Discussione ed esperienze a confronto

Vito Valentino

Vorrei portare l’attenzione sulla questione del rapporto terapeuta-paziente. Un buon medico,
qualunque esso sia e di qualsiasi formazione, che abbia rispetto per i pazienti, quale facoltà della
mente deve eliminare per poter stabilire un contatto vero di simpatia con l’altro?

Siccome io, partendo dalla mia esperienza, mi sono dato un risposta, vorrei avere una conferma
oppure una risposta diversa con cui confrontarmi. Mi sono reso conto di una cosa, che vale per le
persone che soffrono di un disturbo mentale, ma anche per quelle che presentano un grave disturbo
fisico come una cardiopatia: se io non giudico assolutamente, non uso la facoltà di giudizio,
l’essere che soffre e che in quel momento è debole e inerme, prima o poi si manifesta, incomincia a
parlare. Nel contatto vero, intimo, è bene non giudicare, perché il giudizio blocca la possibilità
di entrare in contatto. Siccome nella psicoterapia la facoltà pensante, raziocinante del terapeuta è
un’arma che deve usare fino in fondo per poter capire la natura del malessere, se è prevalente, io
credo che alla fine possa bloccare. Faccio un esempio pratico, il rituale di cui parlava Pasculli,
cioè il disperdere per poi riunire, che usano un po’ tutti, non pensate che sia in realtà il segno
di un voler allontanare la parte pensante dell’essere e quindi far emergere la parte naturale,
istintiva, che poi è quella carica di significato, che produce il proprio significato? Se è così,
non pensate che un buon medico dovrebbe essere una persona che in quel momento non esprime un essere
pensante ma un essere senziente?

Mario Betti

Il dottor Valentino ha messo il dito nella piaga della medicina moderna, e della medicina di tutti i
tempi. Sospendere il giudizio per permettere alla componente umana di manifestarsi. Io credo che sia
un elemento fondamentale per entrare in contatto con la persona. Spesso l’etichetta diagnostica,
così come il camice o la scrivania, serve per mettere le distanze, inquadrare e bloccare. Comunque,
sospendere il giudizio non vuol dire eliminarlo del tutto, abolirlo. Va sospeso per permettere la
relazione; poi il giudizio (una diagnosi o un’etichetta nosografica) può essere recuperato,
riacquisito come traccia per un percorso da seguire. Quindi sono d’accordo che la sospensione del
giudizio debba essere una facoltà che acquisiscono tutti i medici, non solo nell’ambito delle
psicoterapie e dei disturbi psichici in genere, ma nel campo di tutti i tipi di sofferenza. Ogni
persona può riuscire, attraverso l’ascolto di alcuni brani musicali, ad entrare sintonia con il
proprio stato d’animo e con lo stato d’animo degli altri. Questa può essere una traccia per
avvicinarsi ad una persona sofferente, l’uso della musica o della meditazione, prescindendo dalle
etichette diagnostiche. Il concetto di “sospensione del giudizio” è uno dei capisaldi della visione
filosofica della fenomenologia, con tutto l’apporto che questa disciplina ha offerto per la
comprensione del disturbo psichiatrico.

Noi siamo allevati in mezzo ai giudizi, addestrati a formulare giudizi su tutto quello che ci accade
intorno, come possiamo esimerci dal giudizio?

L’epoké fenomenologica, cioè la sospensione del giudizio, si riallaccia alle antiche concezioni
della filosofia scettica, in cui il dubbio scettico non era tanto un giudizio in negativo, cioè il
giudizio di non giudicare, ma era veramente un addestramento interiore, emotivo, profondo, per
imparare a sospendere il giudizio. Credo che anche questa sia una forma di ascesi e una via per
acquisire una consapevolezza e un modo di rapportarsi all’altro completamente diverso. Non si
acquisisce in un giorno, forse nemmeno in una vita, ma è una prospettiva a cui tendere.

Giuseppe Spinetti

Vorrei aggiungere qualcosa in merito alla sospensione del giudizio. E’ una meta difficile da
conseguire e comunque è un punto di partenza, che si rifà, in campo psichiatrico, a quell’importante
filone che è l’indirizzo umanistico-esistenziale. Pensiamo al confronto col dispiegarsi dell’umana
presenza, all’osservazione il meno possibile direttiva della persona che abbiamo di fronte, con
tutte le difficoltà che la medicina, e lo psichiatra in quanto medico, si porta dietro. Non
dimentichiamo che agli estremi la medicina nasce anche da due concezioni forti, vale a dire la
concezione sacerdotale e addirittura la concezione luciferina. Anche sui nostri trattati di
psicologia medica troviamo questi due aspetti, queste basi dello status e del ruolo medico. Questo
rimanda poi alla duplicità del curare – prendersi cura che è estremamente importante nel confronto
quotidiano dello psichiatra. Ovviamente il medico in generale, lo psichiatra in particolare,
dovrebbe prendersi cura della persona che è davanti a lui e soffre piuttosto che somministrare cure.
C’è un significato oggettivo ma anche soggettivo completamente diverso. Questo avviene già al
momento del primo colloquio, che può essere direttivo, oppure indiretto, empatico, lasciando
esprimere alla persona che abbiamo davanti quello che deve dirci, che poi spesso è la parte più
importante del colloquio.

Concludo aggiungendo qualcosa; vi ho parlato di ipnosi e spero di avervi comunicato la mia passione
e l’entusiasmo per questa che è una tecnica non soltanto terapeutica, ma anche migliorativa della
qualità della vita. Nuovamente il medico diventa semplicemente un facilitatore, perché l’ipnosi è un
qualcosa che ci appartiene, che non viene indotta dall’alto. La figura del terapeuta dovrebbe essere
al di là di certe mistificazioni, che purtroppo in Italia una certa televisione continua a
perpetuare. Il terapeuta deve avere solo il ruolo di facilitatore verso una condizione psicofisica
che ci appartiene e che può essere un punto di partenza importante per migliorare la nostra qualità
della vita.

Volevo ricordare che ci sarà a settembre un interessante appuntamento dove verranno trattate queste
tematiche; la data è il 25 – 27 al Casinò Municipale di Sanremo, e il titolo è “La psichiatria e la
psicologia verso il III millennio – La prospettiva next age, l’ermeneutica per una miglior qualità
della vita?”

Ettore Pasculli

Rispondo al collega Vito circa il rapporto terapeuta- paziente. Io lo vedrei come “un comunicare tra
di noi”, e la prima regola di una comunicazione efficace è saper ascoltare. Purtroppo l’ascolto è
diventato la Cenerentola della comunicazione, mentre invece è l’aspetto principale, e saper
ascoltare non solo le parole della persona, ma anche il linguaggio del corpo, l’espressione della
parte non verbale. Occorre ricordarsi sempre quello che dicevano gli sciamani nordamericani: “Non è
un caso che Dio ci ha dato due orecchie e una bocca sola.” L’altro aspetto riguarda il giudizio: va
benissimo quello che i colleghi hanno detto, ma se vediamo il giudizio all’interno della
comunicazione, lo si può vedere in una maniera totalmente diversa. Il giudizio, in fondo, non dà una
definizione di chi lo subisce, ma di chi lo pronuncia. Bisogna rovesciare i termini.

Giancarlo Biazzo

Mi ricollego a quello che hanno detto Vito Valentino e Giuseppe Spinetti. Forse per comprendere non
bisogna solo sospendere il giudizio, ma anche la coscienza, cioè la coscienza come finiamo per
intenderla ed utilizzarla, come processo razionalizzante e analitico che usiamo per rapportarci
all’altro, perché probabilmente, se continuiamo ad analizzare, non riusciremo mai ad entrare, a
intuire, a comprendere. Ora, quella che andrebbe sospesa è proprio la coscienza, e verosimilmente lo
facevamo molto di più quando entravamo in rapporto con gli altri e con l’esistenza. Secondo me la
trance di cui parlava Spinetti è una condizione naturale e persistente dell’esistenza stessa, cioè
noi viviamo in trance, l’esistenza è un continuo fluire da uno stato di trance all’altro, è
un’esperienza di trance interrotta da puntualizzazioni, categorizzazioni puntiformi della coscienza.
Di fatto, quando facciamo qualcosa con reale presenza, siamo in trance. Quando mangiamo gustando
profondamente quello che stiamo mangiando, siamo in trance; quando amiamo una persona profondamente
e la stiamo guardando non solo con gli occhi della vista, ma con quelli del cuore, siamo in trance.
Quando evacuiamo, siamo in trance. Quando comunichiamo realmente con l’altro non preoccupandoci di
pontificare, ma occupandoci dell’altro, siamo in trance. Se oggi facciamo questo gran parlare della
trance, dell’ipnosi, di questi stati altri di coscienza, è solo perché il modello al quale ci siamo
evoluti, io direi semplicemente adattati, ci ha portato a sperimentare costantemente dei blocchi,
dei muri, che ci irrigidiscono in questa corazza, che ci impediscono di accedere spontaneamente a
quegli stati altri di coscienza che ci consentirebbero di comprendere. Per concludere vorrei dire,
con le parole di Osho, che “la terapia è di base meditazione e amore, non può esserci altro. Quando
il terapista non è più un terapista, e quando il paziente non è più un paziente, allora può
succedere qualcosa, allora può succedere una trasformazione, allora può succedere la guarigione, non
prima.”

Mario Betti

Il concetto di trance così come quello di estasi possono essere visti sotto prospettive ed
angolazioni diverse. Addirittura si può invertire il concetto ed, assumendo la parola “estasi” nel
suo significato etimologico, come uno “star fuori”, potremmo dire che, in condizioni normali, siamo
quasi sempre fuori di noi, cioè in estasi. Lo scopo sarebbe risvegliarci – è la dottrina del
risveglio – cioè risvegliarci a uno stato non più di estasi ma di presenza e di centratura.

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