LO SVILUPPO DEL POTENZIALE UMANO – 1

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LO SVILUPPO DEL POTENZIALE UMANO – 1

da “Enciclopedia olistica”

di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli

PSICHIATRIA TRANSPERSONALE – LE VIE COMUNI ALL’ESTASI
Sciamanesimo, Religione, Sacralità, Psicoterapie

Atti del Primo Congresso di Psichiatria Transpersonale- Villaggio Globale – 14-17 maggio 1998

Promosso e organizzato da: Il Villaggio Globale, La Scala di Giacobbe, in collaborazione con
Psiconautica e Psichiatria e Territorio”. Con il patrocinio di: Università degli Studi di Siena,
Università degli Studi di Urbino, Società Italiana di Psichiatria.

Introduzione alla Psichiatria Transpersonale
Di Mario Betti

La stagnazione in cui verte la prassi psichiatrica italiana – e non solo italiana – è da ricondurre
essenzialmente al concomitare di diversi eventi.

1) Da una parte abbiamo una visione dell’uomo e della complessità che non sembra uscire da schemi
riduzionistici ormai obsoleti. Al modello biologico, appiattito su una somministrazione
standardizzata e massificante di psicofarmaci o di altri rimedi similari, si contrappone un modello
socio-psichiatrico che vede l’essere umano dileguarsi in un sistema ambientale anonimo e
fagocitante. Anche i vari approcci psicoterapeutici non sembrano al momento attuale elevarsi da un
caleidoscopio di prestazioni tecnicistiche irrigidite e preconfezionate. In fondo il cosiddetto
modello bio-psico-sociale si configura come la giustapposizione di interpretazioni ed interventi
parziali e limitati che non riescono a toccare minimamente quella che è l’essenza dell’uomo, che non
è né “bio” né “psico” né “sociale” ma è qualcosa che va ben al di là di questi aspetti troppo
parziali.

2) Dopo venti anni dalla legge 180, la spinta evolutiva impressa alla prassi psichiatrica sembra
essersi arenata. La scarsità di mezzi e risorse non basta a spiegare la demotivazione, il sentimento
di frustrazione ed impotenza che sempre di più attanaglia gli operatori. Occorre tener presente che
si stanno rincorrendo ideali ormai superati dalla storia. Le conquiste della riforma rappresentano
un fatto importante e ineludibile, ma non potranno consolidarsi ed evolvere se non ci si sforza di
guardare e andare oltre.

E’ crollato il muro di Berlino, si sono dissolte nazioni e ideologie, i continenti hanno mutato il
loro volto. Eppure si continua a ragionare nei termini di una dicotomia da metà Novecento, come se
ancora si contrapponessero i blocchi delle due superpotenze, come se capitalismo e socialismo
fossero ancora i termini di una dialettica attuale, come se il progresso tecnocratico fosse ancora
un mito trainante. Così, anche la cultura psichiatrica continua a restare incagliata in una
contrapposizione anacronistica fra ideologie biologistiche e sociologizzanti.

Intanto si affacciano e si fanno strada nuove concezioni del mondo e dell’esistenza. Al di là di una
sommatività bio-psico-sociale si fa strada una visione olistica dell’uomo e della medicina.

3) A ben guardare, gli approcci che attualmente imperano nel panorama psichiatrico non si discostano
da un intento conformistico e riduzionistico. Con i farmaci si tende a sopprimere i sintomi
psicopatologici ed a promuovere l’integrazione del cittadino nell’ambiente, conformemente agli
schemi mentali ordinari. Similmente, la riabilitazione psicosociale mira anch’essa ad addestrare il
cittadino ed a chiuderlo in un conformismo sicuro e rassicurante.

Ma che cosa sarebbe accaduto se Francesco d’Assisi fosse stato curato con brave somministrazioni di
neurolettici long-acting e sottoposto ad un premuroso trattamento rieducativo presso un centro
riabilitativo?

Questo incontro si propone come il Primo Congresso di Psichiatria Transpersonale. L’approccio
transpersonale, che si può far risalire a studiosi come Roberto Assagioli, Abraham Maslow e Carl
Gustav Jung, si sta ormai affermando nel campo della psicologia e della psicoterapia. Sono sempre
più conosciuti autori come Grof, Wilber, Tart.

L’aggettivo “transpersonale” rimanda al concetto di “persona”, inteso nella sua etimologia latina di
maschera. In questa accezione, il termine “persona” è stato usato da Jung per indicare gli aspetti
esteriori, di facciata, del comportamento umano, quelli che rispondono alle aspettative
socio-ambientali e culturali, secondo una prospettiva adattiva e conformistica. La dimensione
personale è quella connessa con l’esistenza convenzionale e con il comune stato di coscienza. La
dimensione transpersonale riguarda, invece, gli aspetti che stanno dietro ed oltre la facciata e che
sono da ricondurre a stati modificati di coscienza e a forme di esistenza non ordinaria.

La psicoterapia transpersonale consente di accedere agli strati più profondi e sottili dell’essere
umano per attivare un processo di conoscenza interiore e promuovere il potenziale evolutivo del
soggetto. Fino ad oggi questo approccio veniva riservato a soggetti psichicamente “sani” o che
comunque mostrassero una sufficiente integrità dell’Io. Jack Engler, ad esempio, sostiene che nei
disturbi psicotici e borderline le forme di meditazione profonda sono controindicate.

Noi crediamo che questo approccio non soltanto consenta di comprendere in maniera più ampia e
profonda al vissuto psicotico, ma offra gli strumenti per una relazione psicoterapeutica più
efficace. Per questo parliamo di psicopatologia e di psichiatria transpersonale.

Il titolo del Convegno pone l’accento sull’esperienza dell’estasi, intesa come momento comune sul
quale possono convergere gli interessi di discipline differenti. L’estasi va intesa in senso
olistico, non soltanto come uno stato psichico particolare, ma come una forma di esistenza, come un
modo di essere radicalmente diverso, che coinvolge l’uomo nella sua totalità, ivi compresi gli
aspetti corporei, relazionali e spirituali.

L’apertura agli spazi transpersonali dell’esperienza consente di ampliare il campo di indagine alle
altre scienze dello spirito. Accanto alla psichiatria ed alla psicopatologia clinica abbiamo avuto
l’apporto della psichiatria transculturale, della fenomenologia antropoanalitica, delle
neuroscienze, della biofisica, della storia delle religioni, della teologia, dell’antropologia
culturale. Si è trattato di un confronto di ampio respiro culturale che ha visto la partecipazione
di rappresentanti delle principali tradizioni religiose e spirituali accanto ad illustri clinici,
scienziati ed uomini di cultura.

Ma c’è un altro aspetto che è importante sottolineare. Nel suo dispiegarsi il convegno ha assunto
una peculiare fisionomia. Non abbiamo assistito ad una arida presentazione di relazioni
preconfezionate e fra loro slegate, cosa che purtroppo spesso avviene. I temi proposti sono stati
dibattuti, sviluppati ed elaborati in maniera spontanea ed originale, attraverso un confronto
attento e, per molti aspetti, entusiastico. Per questo motivo, nel pubblicare gli atti del convegno,
abbiamo scelto riproporre in maniera fedele quello che è stato detto a viva voce dai partecipanti.
Ne è scaturito un volume che ci sembra stimolante, coerente e vivace.

PARTE PRIMA – LE VIE DELL’ESTASI. UN INCONTRO FRA OCCIDENTE ED ORIENTE

Le vie dell’estasi. Un incontro fra Occidente ed Oriente
Di Mario Betti

Questo è un appuntamento importante per la cultura scientifica e umanistica. Per la prima volta,
nell’ambito della Psichiatria ufficiale vengono presi in esame temi che fino ad oggi erano rimasti
ai margini delle istituzioni accademiche e cliniche.

Gli studi sugli stati alterati di coscienza, le concezioni olistiche e l’approccio transpersonale si
stanno affermando nel campo della Medicina, della Psicologia e della Psichiatria. Si tratta di
prospettive di vasta portata che influenzano la società post-moderna in questo ultimo scorcio di
millennio. E’ importante che esse entrino a pieno titolo nell’ambito della cultura ufficiale e delle
istituzioni scientifiche. Con questo convegno ci proponiamo di portare questi nuovi modelli di
trattamento all’interno delle istituzioni ufficiali.

Avremo la partecipazione non soltanto di illustri clinici e scienziati, ma anche di esponenti delle
principali culture spirituali, religiose ed iniziatiche. Potremo assistere ad un confronto
suggestivo e stimolante.

Il convegno si apre con una serie di importanti patrocini: abbiamo il patrocinio di due università,
quella di Siena e quella di Urbino, abbiamo il patrocinio della Società Italiana di Psichiatria, il
più importante organo della psichiatria italiana, abbiamo il patrocinio della sezione regionale
della Società Italiana di Psichiatria, quello delle province di Lucca e di Rimini, della USL di
Lucca, della Comunità Montana della Valle del Serchio, del Comune e delle Terme di Bagni di Lucca,
dei Comuni di Riccione e di Rimini.

Ringrazio il Sindaco per la collaborazione offerta dalla Amministrazione Comunale e gli passo la
parola per i saluti di benvenuto.

Remigio Raimondi

Prima di presentare il mio intervento vorrei ringraziare, a nome della Scala di Giacobbe, il dott.
Montecucco perché ci ha offerto l’opportunità di organizzare questo convegno che consente di portare
avanti gli argomenti trattati un anno e mezzo fa a Riccione. Nell’Ottobre 1996 avevamo organizzato
un congresso sul tema “Sciamanesimo, religione e sacralità, psicoterapie”. In quella occasione
abbiamo parlato dello sciamanesimo con Claudio Narajo e Nadia Stepanova, abbiamo preso in esame il
fenomeno degli indemoniati, il concetto di sacralità e vari altri temi che, generalmente, restano
fuori dell’orizzonte psichiatrico o che vengono interpretati con connotazioni psicopatologiche.
Questi argomenti consentivano di aprire un confronto ampio con le problematiche della psicoterapia.

Per l’incontro di quest’anno abbiamo voluto scegliere un tema specifico, quello dell’estasi, vista
come il punto di incontro di percorsi diversi. Tutte le principali culture religiose, mediche,
filosofiche e sciamaniche hanno conosciuto l’estasi come momento di realizzazione personale. Per non
parlare delle false estasi indotte da sostanze, che rappresentano oggi un tentativo di fuga dallo
stress e da se stessi.

Partendo da questo punto di riferimento, l’argomento della mia relazione mira alla riscoperta delle
nostre radici culturali. Esse non sono molto distanti da quelle orientali, ma sono in larga parte
dimenticate. Il titolo del mio intervento è “Il trattamento transpersonale nella Practiké di Evagrio
il Monaco”, cioè mi rifaccio a concezioni espresse circa 2000 anni fa. Sono queste le nostre radici,
anche se non sono state ancora acquisite nel patrimonio culturale delle accademie ufficiali.

A proposito di accademie ufficiali, vorrei portarvi il saluto del presidente nazionale della Società
Italiana di Psichiatria, prof. Pierluigi Scapicchio, il quale avrebbe dovuto essere presente fra
noi. Ma proprio in questi giorni è stato nominato commissario ad acta per chiudere una delle
vergogne che ancora abbiamo in Italia, l’Ospedale Psichiatrico di Guidonia. Dovrà stabilire le
procedure per riscattare alcune persone che, a causa delle loro sofferenze, sono rimaste in
cattività per decenni. Sono gli Istriani, quelli che non avevano potuto optare se diventare
cittadini italiani o jugoslavi, per cui vivevano sulla loro pelle l’essere “apolidi” oltre che
l’essere “folli”. Sono finiti tutti a Guidonia perché questa struttura era capace di accogliere
persone e garantire loro una permanenza sine die.

Abbiamo intenzione di fondare una sezione speciale della Società Italiana di Psichiatria, la sezione
di psichiatria transpersonale. Questo convegno riveste quindi una particolare importanza storica e
sono molto contento che si svolga a Bagni di Lucca dove esiste una realtà, voluta da Nitamo
Montecucco, il Villaggio Globale. E’ qui che gettiamo le basi di questa sezione speciale.

Il trattamento transpersonale nella Praktikè di Evagrio il Monaco
Di Remigio Raimondi

Sono stato indotto da accreditati insegnanti, che mi si presentavano nelle loro accademie come
esperti dei comportamenti umani alterati, a considerare l’esistere mio mondano come il prodotto di
un indefinito puzzle fatto di materia organica, di psiche e qualcuno aggiungeva anche un terzo
elemento che chiamava spirito o anima. I più illuminati di questi insegnanti mi hanno introdotto con
pazienza a quella che essi definivano la scienza della conoscenza. Mi sono smarrito così nei loro
modelli di complicata fattura, costruiti con affabulante e ingegnosa architettura, stratificati in
geometrici tòpoi dove le idee e i valori si articolano in un ordine piramidale coerente a principi
cosmologici assiomatici. Mi hanno così fatto credere che il mio cervello “ragiona” per logiche
sovraordinate, poiché i riscontri anatomici e le neuroimmagini dimostrano che le sue funzioni sono
localizzate in aree gerarchicamente organizzate. Mi hanno convinto anche che lo sviluppo del mio
attuale essere umano si sia evoluto per passaggi adattivi da uno stadio inferiore a uno superiore,
con lentezza, gradualità e flessibilità. Mi hanno raccontato che sono stato prima pesce di abissi
oceanici, poi scimmia e infine umano. Qualcuno più audace mi ha fatto intuire che qualche mio
pronipote sarà destinato a evolversi in una nuova specie con possibilità sovrumana.

Sostengono che i segni di questi passaggi li porto dentro il mio corpo. I liquidi che avvolgono le
mie cellule sono tracce antiche dell’oceano che mi vide pesce. La struttura del mio cervello
inferiore, che governa istinti ed emozioni, appartiene all’epoca di quando ero scimmia. Mi dicono
che il mio cervello superiore “ragiona” per topicità scissa tra due emisferi che ricompongono poi la
totalità attraverso connessioni. La mia capacità di ricordare fatti veri e di costruire fatti
inesistenti a cui posso dare lo stesso valore di senso quale evocazione mnesica di una mia personale
sperimentazione sensibile, ma sempre e comunque comparabile al medesimo sperimentare sensibile di un
altro vivente distinto da me ma simile a me, e l’altra capacità di dare un significato a quella
esperienza quale storicizzazione simbolica di attributo a quel fatto, vero o costruito, messo in
relazione ad uno scambio possibile intersoggettivo che lo rende evento attraverso l’uso del
linguaggio, la gestione delle mie emozioni e affetti, e la mia risposta alle pulsioni istintuali
risiedono in sedi diverse, che le registrano separate per poi restituirmele integrate. Il mio
cervello è così raffigurato come la sede delle illusioni. Il mio esistere mondano – insistono con
convinta buona fede – è la risultante di questo intreccio gerarchico, tutto scritto dentro la mia
scatola cranica. La mia natura umana e la mia singolarità è fattualizzata dalla complessità delle
connessioni neuronali.

Questa semplificazione riduttiva mi ha creato più dubbi che certezze. E la mia anima? La mia
interiorità? Ciò che rende la vita vita? È credibile che l’enigma dell’esistenza sia tutto racchiuso
nel dialogo neurochimico tra due o più neuroni?

Nella mia pratica professionale incontro persone con guai, preoccupazioni, dolore morale; persone
capaci di sognare, di amare, di odiare, di sperare e disperarsi. Com’è possibile che due o più
neuroni difettosi siano capaci di rendere la vita non vita? Con lenta progressione mi sono accorto
che le loro costruzioni che chiamano conoscenze scientifiche sono modeste oscillazioni, e precarie
per giunta, tra credenze pregiudiziali autoreferenziali e cataloghi descrittori di apparenza. Quei
loro modelli totipotenti, infarciti di affermazioni tautologiche, si snodano senza evidenze
scientifiche e troppo distanti dalla vita quotidiana. Quei loro modelli artificiosi sono in
contrasto con le conoscenze che mi hanno alimentato fin dall’infanzia. La mia prima maestra è stata
un’analfabeta, mia nonna, che conosceva le virtù medicamentose delle piante, ma non il loro nome né
la loro natura; mia nonna che me le indicava semplicemente mentre pregava. Pregava anche nel sonno.
La spiavo che biascicava ritmicamente, mentre russava, “dolce cuore di Gesù, fa che ti ami sempre
più”. Mi affascinava quella nenia e mi rilasciava. Non sapevo come facesse, ma lo faceva. Pregava
quando taceva e quando parlava, quando cucinava e quando spazzava. La sua corona era lisa e il
pollice della sua mano destra aveva la stessa callosità dell’indice. In seguito ho scoperto che mia
nonna aveva il dono della preghiera interiore perpetua, almeno così credevo. Oggi so che non fu un
dono, ma il risultato di un percorso interiore lungo e doloroso.

Ho avuto poi tanti altri maestri, che mi hanno indicato e testimoniato percorsi profondi e solidi
per significare il mio esistere. Queste persone mi hanno condotto in altre dimensioni della
conoscenza. Al mio esistere, reso frammentato dalla cultura occidentale che ragiona per contrapposti
cartesiani e logiche categoriali aristoteliche-tomiste anche per definire l’interiorità, hanno
offerto vie di elevazione nate da un pensare globale. Grazie a loro ho conosciuto il tormento
interiore di Teresa D’Avila senza il rischio di banalizzarlo con il deformatore categoriale della
psicopatologia. Ho amato la follia della pienezza del vuoto, del vedere senza occhi, del comprendere
senza intelletto, che si radicava nella tradizione apofatica, di Giovanni della Croce, senza
giudicarla alienata. Ho cercato di cogliere il senso dell’insegnamento dei padri del deserto. Ho
scoperto assieme a Evagrio il Monaco il significato della metanoia, la sapienza della trasformazione
interiore, la practiké che scaturisce dalla conoscenza della fragilità, oggi diremmo vulnerabilità,
della persona e che propone rimedi perché tali fragilità non siano di ostacolo (shatan o diabolus)
all’unità dell’uomo, all’unità con gli altri, all’unione con Dio. Giovanni Cassiano mi ha introdotto
all’Esicasmo, al cammino di gioia.

I Racconti di un pellegrino russo mi hanno insegnato che non esistono luoghi fisici che sappiano
accelerare o favorire la costruzione della propria interiorità. Il cammino interiore è il
ritrovamento del raggio di energia, smarrito nei logismòi, che definisce il nostro esistere mondano
come incontro d’amore nella reciprocità con l’altro, nell’unione con Dio. Nel pellegrino russo ho
visto più volte mia nonna, una esicasta senza starets e non confusa dalla logica cartesiana e dalle
categorie aristoteliche-tomiste. Mi sono più volte chiesto perché nel percorso ascetico
l’invocazione ossessivamente ripetuta fosse così utile. Perché i padri del deserto insistessero
sulla postura del corpo immobile, sulla centralità del cuore, sulla dolcezza del respiro, sul
silenzio, sulla solitudine.

Carlo Carretto, che guidava le mie esperienze di eremitaggio a Spello, mi raccomandava le stesse
cose. Così il mio percorso meditativo si è sviluppato per tappe. Ho dovuto imparare a meditare come
una montagna, immobile per essere pesante di presenza; ho dovuto cambiare la mia nozione del tempo,
ho scoperto che la montagna ha un altro tempo, un altro ritmo. Seduto come una montagna avevo
davanti a me, dietro di me e dentro di me l’eternità. Ho imparato semplicemente ad essere prima di
imparare ad esistere, lontano dai pensieri, lontano dalle emozioni e dalle passioni. La tappa
successiva fu quella di imparare a meditare come un papavero. Scoprii la necessità dell’orientamento
verso la luce interiore che si nutriva del buio del mio profondo. Feci i conti con la fragilità e la
fugacità del mio esistere. C’era un tempo per fiorire e un tempo per appassire. Misuravo l’eternità
con la fugacità dell’istante. Poi imparai a meditare come l’oceano. Inspiravo ed espiravo come le
onde; ero inspirato ed espirato dalla profondità immobile della mia interiorità, la verticalità
dell’oceano. Ero una goccia che conservava la sua identità nell’appartenenza alla totalità. La
diacronia dell’esistere si radicava nella sincronia dell’essere. In fondo al mio respiro coglievo la
contiguità del pneuma, la radice della vita di tutti gli esseri animati e inanimati. Mi fu insegnato
allora a meditare come un uccello. Meditare diventava respirare cantando. Ricordai mia nonna e la
sua invocazione evocata con suono roco, respirata ed inspirata come una nenia. Ma era anche il
melodiato AUM dei monaci tibetani. Mi accorgevo che tutto il mio corpo vibrava ora che meditavo con
la gola. Queste tappe meditative mi avevano insegnato a sentirmi natura, a considerare il mio corpo
come parte distinta ma tutt’uno con la totalità dell’Universo. Sapevo di essere ancora distante
dall’illuminazione. Mi sentivo come un atleta in perenne allenamento ma tenuto fuori squadra, in
panchina. Dopo lungo tempo la mia guida mi insegnò a meditare come Abramo. È la tappa più lunga, più
duramente umana. È dimenticare se stesso per scoprirsi se stesso nell’altro, nell’universo abitato
dalla presenza dell’Infinito. È morire all’ego per rinascere Sé. È l’attesa dell’incontro inatteso.
È il donarsi per ritrovarsi. Fu questa ricerca di attesa che mi condusse a lavorare in manicomio. È
questa ricerca di attesa che mi fa dubitare nella scienza che cerca di documentare con strumenti
sensibili l’insondabile. C’è ancora che si illude di trovare tecniche per dividere l’indivisibile,
di costruire macchine capaci di misurare l’immensurabile, di usare un frammento per cogliere la
totalità.

Kierkegaard, di fronte all’enigma dell’esistere, poneva come un percorso possibile alla sua
soluzione la conoscenza della profondità della follia. Restituiva così ai fenomeni inspiegati
dell’agire umano la loro appartenenza alla natura, sottraendoli all’artificio categoriale della
conoscenza umana, resa frammentata da un predeterminismo ineluttabile. Per anni ho creduto di
applicare nella mia pratica clinica tecniche di restituzione, di restauro, di ri-strutturazione e di
ri-gerarchizzazione delle aree neuronali difettose. Ottenevo dei risultati, ero testimone di
cambiamenti ma li attribuivo alla mia bravura operativa. Usavo sul cervello creduto malfunzionante
scalpello e chiave inglese per aggiustare presunti guasti.

Meditavo come Abramo mentre mi illudevo di fare la rivoluzione slegando matti e aprendo reparti.
Usavo allora le conoscenze apprese come strumenti separati ed esterni alla totalità del mio vissuto.
Non vedevo shatan, l’ostacolo. l’io e il tu rappresentavano così l’interfaccia di un noi immaginato,
che rendeva la relazione impossibile secondo i codici che mi descrivevano l’alienus inaccessibile,
anche se la mia relazione era agita quotidianamente sulla reciprocità con l’alter. Ma non capivo.
Avevo confinato il vedere senza occhi, il capire senza intelletto nell’inesplicabile mia privacy.
Avevo fossilizzato nel mio ego le possibili esplicitazioni del mio Sé. Il diabolus, ciò che separa,
mi impediva di vedere la via transpersonale.

Eppure nell’incontro con le persone che curavo avevo la consapevolezza di perdermi per ritrovarmi
come accadeva con le persone che amavo. Esperti di modelli psicoterapici differenti hanno giudicato
questa mia modalità di rapportarmi con l’altro una naturale attitudine psicoterapica. Musatti,
Funari e Zapparoli mi fecero notare che nella mia pratica clinica usavo con corretta procedura le
tecniche psicoanalitiche. Maffei mi chiamò junghiano spontaneo. Sluski e Withaker mi attribuirono
doti relazionali. Qualcuno leggendo i miei lavori mi ha definito un cognitivista senza scuola. Io
fino a qualche anno fa mi presentavo invece come una guida guidata, un consolidatore di percorsi, un
orientatore orientato. Ora so che meditando come Abramo attenuavo la mia paura di vivere nel
riverbero del terrore di una inesistenza, resa esplicita da chi si era smarrito tra le onde
esistenziali, allorché ridefinivo quella sua dolorosa esistenza come un fugace movimento
superficiale del profondo e stabile oceano interiore. Stimolavo ad abbandonare la pesantezza del mio
essere quando assediavo la presenza di chi aveva pietrificato l’ego, identificandosi con la
montagna, nell’eclissi della propria interiorità. Bruciavo la mia fatuità di papavero quando mi
ostinavo nelle relazioni impossibili con chi comunicava disperazione senza linguaggi. Ero alla
ricerca del mio respiro cantato quando interpretavo il mugolio insensato, il brontolio animale di
chi ricercava la radice della propria esistenza solitario e ripiegato sul proprio dolore disperato.

Questo mio agire a contatto con la follia mi confondeva, perché il mio intelletto si era impadronito
come se fosse totalità di questa parzialità della conoscenza; ero costretto a sottoporre alla sua
razionalità, come mi era stato insegnato nelle accademie, le mie funzioni mentali predefinite e
organizzate in categorie. Me le sistematizzavo definite, logiche, concrete attraverso parole
iniziatiche. Io, inconscio, super-io, paranoia, schizofrenia, nevrosi, psicosi… parole
significanti il non senso. Il dubbio mi ha sempre accompagnato mentre mi avventuravo nel deserto
esistenziale di quelle ulteriorità che mi balenavano inconsistenti all’orizzonte dell’essere ma che
tutti gli esperti della mente mi connotavano come miraggio, come deformazione percettiva da
correggere. Ma il dubbio era lacerante, quasi un’ossessione.

In qualche mio lavoro scientifico ho proposto questo mio dubbio addirittura come l’unico metodo
scientifico. Il dubbio su quella razionalità che impediva alla mia interiorità di capire senza
intelletto e di vedere senza occhi.

E se quella particolare condizione di umana sofferenza, che gli esperti, rifacendosi al senso
comune, chiamano malattia mentale, fosse invece l’esito di un ripiegamento sulla totalità dell’ego,
una incapacità / impossibilità a riconoscere il Sé transpersonale che consente di cogliere la Grande
Vita che vive in ciascuno di noi con la sua pienezza, con la sua generosità? Amare per il piacere
dell’amore e non per ottenere amore. Il Sé transpersonale, quello che consente di vivere la vita ma
non di commerciare con la vita. E se la malattia mentale fosse proprio l’eclisse o il mancato
riconoscimento del Sé transpersonale?

Per capirlo ho abbandonato i nuovi maestri sia dell’encefaloiatria che della socioiatria e meditando
come Abramo ho bussato alla porta della tradizione dei padri del deserto e ho chiesto illuminazione
ad Evagrio il Monaco. “La practiké è il metodo spirituale che mira a purificare la parte passionale
dell’anima”, mi ha risposto al cap. 78. Giovanni Damasceno mi ha spiegato che l’apatheia che Evagrio
mi consiglia di conseguire personalmente o di aiutare l’altro a conseguire non è l’indifferenza,
l’imperturbabilità di fronte agli eventi, ma un “ritornare da ciò che è contrario alla natura a ciò
che le è proprio”, cioè ripristinare uno stato non patologico del mio e altrui esistere. E allora ho
rivisitato i suoi otto logismòi che Evagrio identifica come elementi di rischio o vulnerabilità,
capaci di condizionare i nostri comportamenti, imprigionandoli in una dimensione esistenziale
egoica. Questa è la malattia dello spirito o dell’essere, questa è quella condizione che rende non
più visibile il Sé transpersonale e che impedisce all’uomo di realizzare il suo vero essere, di
aderire in pienezza alla sua natura. Ho scoperto così che Evagrio aveva già scritto e definito il
senso e il significato di ciò che la psicopatologia moderna trascrive categoricamente come fenomeno
del non senso.

1) La Gastrimargìa ovvero i disturbi dell’oralità. È il regredire fusionale e innaturale al seno
materno. È desiderio oggettuale di dipendenza da un accudimento perpetuo per sottrarsi al peso della
responsabilità che rende adulti, capaci di perdersi per ritrovarsi. Evagrio riconosce negli eccessi,
ciò che oggi definiamo anoressia e bulimia, le evidenze psicopatologiche da curare con trattamento
transpersonale consentendo alla persona di passare dalla gastrimargia, intesa come “consumazione”,
alla eucarestia intesa come “comunione”. Dallo sprecare la vita divorandola in solitudine a viverla
nella comune unione con gli altri, con l’Universo, con la Fonte della vita stessa.

2) La Philargurìa ovvero la stitichezza dell’essere. Evagrio non si riferisce all’avarizia come la
intendiamo noi, la philarguria è l’attaccamento patologico al possesso. È l’oggettivazione del
controllo non utile né necessario sui valori attribuiti alle cose. È la regressione anale. È
identificare il proprio esistere in ciò che si possiede. L’incapacità alla distinzione. “Io sono ciò
che possiedo” si riverbera come l’illusorio eternizzare del transitorio. Le evidenze
psicopatologiche da trattare per Evagrio sono quelle che noi definiamo ossessioni, rituali,
iteratività, fobie. Il trattamento transpersonale è passare dalla philarguria al distacco dalle
cose. Dall’avarizia alla generosità perché “c’è più gioia a dare che a ricevere”. È il ritornare
alla gratuità della vita.

3) La Pornèia ovvero i disturbi della sessualità. Evagrio intende evidenziare la tendenza a
considerare il proprio corpo o quello dell’altro un oggetto. È la cosificazione della persona resa
appetibile, senza anima, fonte di piacere e non soggetto di amore reciproco. E’ furto alla vita del
suo moltiplicatore di esistenza. Evagrio consiglia di non aver paura di amare fissandosi alla
porneia, ma di amare di più l’alter nel suo carattere transpersonale perché “a immagine e
somiglianza di Dio”. Non si può svilire la sua alterità con desideri carnali. Poiché il cervello è
l’unico organo sessuale, originando logismoi oggettivanti l’altro, bisogna occupare la mente
sostituendo il pensiero ossessivo sessuale con un pensiero di lode. Lavoro manuale, meditazione,
invocazione del Nome o altra preghiera preservano da questa vulnerabilità, che offusca la profondità
dell’oceano dell’interiorità con lo spumeggiare dell’onda sulla risacca.

4) L’Orgè ovvero i disturbi emozionali. Evagrio così definisce l’orgé, la collera: “Nessuna
debolezza rende demoniaco l’intelletto come la collera, a motivo del turbamento della parte
irascibile”; è detto infatti nel salmo: “la loro collera è simile al serpente” (Sal. 58,5); “il
demonio non è diverso dall’uomo turbato dalla collera” (Lettera 56). Continua poi dicendo che la
collera è causa di incubi la notte e turba la serenità del sonno. Questo turbamento nasce dal nostro
ripiegamento egoico che ci impedisce di accettare l’altro in quanto altro. È il disturbo della
reciprocità nella relazione. Il trattamento transpersonale è il passaggio dalla centralità egoica
dell’orgé alla reciprocità relazionale attraverso la dolcezza che è il ritorno all’armonia della
propria interiorità che riflette l’armonia dell’universo. È recuperare lo spessore del tempo della
relazione, dell’attesa dei tempi dell’altro. È l’esercizio della pazienza sapendo che “Dio è
paziente perché si dice che ha grandi narici”.

5) La Lùpe ovvero la tristezza del malesistere. Per Evagrio è il disturbo del rammarico di una
scelta, del ripensamento a ciò che si è rinunciato, dell’eclissi dell’orizzonte trascendentale, è il
fissarsi alla fatuità di un presente senza gioia. È quella che oggi definiamo depressione, distimia.
La perdita dell’orientamento in un deserto pensato oasi e rinvenuto nella sua concreta aridità. È la
rivendicazione ad un diritto di essere amato senza amare, di essere desiderato per se stesso. È il
terrore del vuoto interiore senza attesa di pienezza. Evagrio la descrive come un accartocciamento
sull’ego senza speranza di un incontro. Il trattamento transpersonale per Evagrio è il perdersi per
ritrovarsi nell’Altro senza attendersi un ritorno misurato nei propri tempi. È il resistere nella
speranza che si fa certezza nell’abbandono. L’incontro con l’altro non può servire a riempire i
propri vuoti ma deve trasformarsi nel piacere di entrare in comunione con la vita che li unisce e li
trascende.

6) L’Acèdia ovvero la psicosi melanconica. Per Evagrio è la tristezza vitale. Il desiderio
incoercibile di lasciarsi morire perché si rinuncia alla Grande Vita, ridotta a coincidere nella
quotidianità del deserto interiore con il diacronico del limite umano. Nasce dal disgusto e dalla
stanchezza dei propri atti, vissuti come inutili per la scomparsa improvvisa del senso futuro. È il
“demonio del mezzogiorno” degli antichi Padri. È la crisi del bilancio di vita del quarantenne
descritta da Jung. È la grande crisi di transizione che se ben governata conduce ai valori più alti
come accadde a Teresa D’Avila. È il punto cruciale di passaggio dai valori di “avere” , di possesso,
ai valori di “essere”. Questi nuovi valori orientano la vita dell’uomo non più verso la centralità
dall’ego ma verso la sua relativizzazione e integrazione nell’archetipo della totalità che Jung
definisce il Sé. È la compiutezza del percorso transpersonale. Gli antichi Padri sapevano che, se
questo percorso non si realizzava, il desiderio di morte pervadeva interamente la persona fino al
suicidio. I tempi dell’acedia erano eternizzati dalla persona perciò il trattamento prevedeva tempi
lunghi di ricostruzione della struttura interiore crollata. Non esiste più il proprio desiderio
riflesso dal desiderio dell’Altro. È la dolorosa persistenza della solitudine e del dolore. È
l’anticipazione dell’inferno senza Amore.

7) La Kenodoxìa ovvero la paranoia. Per Evagrio questa è la fragilità umana più insidiosa e
difficile da trattare perché l’io si arroga le prerogative del Sé. È la condizione umana in cui
l’esistere si illude di vivere totalmente calato nell’essere. Persiste solo l’autoreferenzialità
grandiosa di un io che ripudia inconsapevolmente la finitezza della propria condizione umana. È il
ripiegamento sull’immaginario, sul fantastico che rende invisibile il mondo concreto. Evagrio
propone come trattamento la Gnosi, la conoscenza. È consapevole però dei rischi connessi a tale
trattamento: se la conoscenza di sé, di ciò che si è, della propria condizione umana rimette l’uomo
nel suo stato ontologico di creatura, libera dalla kenodoxia, può però far precipitare nella lupé o
nall’acedia perché si raggiunge con improvviso realismo la consapevolezza che non si è ciò che si
credeva di essere.

Ma la persona può anche trovarsi nella uperéphania per resistenza al trattamento e questo è il
rischio più grave, lo smarrirsi più drammatico nella frantumazione dell’ego.

8) L’Uperephanìia ovvero la fatuità psicotica. Evagrio considera questa condizione la “dismisura
spirituale” dell’uomo. È lo smarrirsi dell’io e del Sé nell’illusione di sostituirsi alla vita
credendosi vita. È la creatura che si sostituisce al Creatore. È la goccia dell’oceano che si fa
oceano. Evagrio la definisce come la condizione che porta l’uomo “fuori di sé” in uno smarrimento
estatico senza centro. Una èkstasis senza Dio. Il trattamento previsto è l’eskenosen, la spoliazione
o purificazione dell’ego che consente la spazializzazione interiore perché si renda visibile la
distinzione di tutte le cose. È l’unico trattamento che rende possibile il passaggio dalla globalità
confusa alla complessità ordinata.

La Practiké è un trattato di psicopatologia e di psicoterapia transpersonale che gli esperti della
psiche hanno ignorato per secoli. Le conoscenze in esso custodite hanno influenzato il mio agire
terapeutico più di quanto immaginassi. Riscopro così che nella totalità dell’essere si inscrive la
preghiera perpetua di mia nonna; essa fu la radice del mio percorso interiore che oggi inerisce alla
mia practiké professionale mentre medito come Abramo. Il passaggio transpersonale dal mio io al mio
Sé è un percorso compiuto. Da oggi dovrò imparare a meditare come il figlio di Dio o come Siddharta.
Solo così non avrò timore di smarrirmi in una èkstasis fuori centro e senza Dio.

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