Le persone morte, richiamate in vita da Yoganandaji…

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Le persone morte, richiamate in vita da Yoganandaji…

di Swami Kriyananda

Tratto da:
(Donald Walters) Swami Kriyananda
“IL SENTIERO”
(Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda)
Traduzione di Mauro Merci
Edizioni Mediterranee

“Un agente immobiliare di Encinitas, udito parlare di me come un taumaturgo, venne a chiedermi di
guarire sua moglie, che era stata ammalata per novanta giorni. Pregai, ma Dio mi disse di non andare
al suo capezzale. Poco dopo la donna morì e soltanto allora ricevetti il suggerimento divino di
andare da lei”.
“Quando arrivai, nella stanza erano presenti circa trenta persone. Il marito della defunta la stava
scuotendo fra le lacrime, quasi fuor di senno per il dolore. Non voleva ammettere che la moglie
fosse morta. Lo feci allontanare”.

“Misi una mano sulla fronte della morta e l’altra sotto il suo capo e cominciai a invocare il potere
divino. Trascorsero cinque minuti. Dieci. D’improvviso l’intero corpo cominciò a vibrare come un
motore. Dopo poco si calmò. Il battito cardiaco riprese, e ricominciò a respirare. Piano piano i
suoi occhi si aprirono; la loro espressione era sperduta, come di chi è appena ritornato da un lungo
viaggio. Era completamente guarita.”

Un altro episodio del genere avvenne a Dakshineswar, un sobborgo di Calcutta, e il miracolato
stavolta fu un uomo. Udii narrare la storia dal Maestro e poi anni dopo, anche da Sri Tulsi Bose,
suo amico d’infanzia e cugino dell’uomo che era morto. A sentire Sri Bose, il Maestro compì il
miracolo perché l’uomo era suo cugino.

“Stavo passando davanti alla casa”, raccontò il Maestro, “quando udii provenire dall’interno alte
grida. Dio mi ispirò a entrare. Trovai un uomo disteso su un letto. cinque o dieci minuti prima i
medici l’avevano dichiarato morto e i familiari piangevano e si lamentavano.”

“Chiesi loro di lasciare la stanza a rimasi solo con il defunto, pregando per qualche tempo.
Finalmente il respiro tornò in quel corpo ed egli aprì gli occhi, completamente guarito”.

Il Maestro era ugualmente a suo agio ad ogni livello di realtà. Provava compassione per coloro che
si identificavano con questo piano fisico di esistenza e le sue pene. Nel mondo astrale, dove le
sofferenze fisiche sono sconosciute, era come un capitano, che fa ritorno al porto ogni volta che
gli aggrada. Ma la sua vera affinità era con sfere molto più sottili: l’eterna beatitudine
dell’unione con Dio. Era sbalorditivo vedere con quanta facilità entrava in samadhi. La maggior
parte di noi discepoli si sforzava per giungere all’orlo della supercoscienza, ma per lui invece
l’immensità della coscienza cosmica era raggiungibile in un lampo.
Ricordo quando qualcuno una sera chiese il suo permesso per fotografarlo. “Un momento”, rispose il
Maestro, “aspetta che io entri in samadhi.” Due o tre secondi più tardi disse: “Benissimo”.

“A volte, per sfuggire all’incessante pressione alla quale ero sottoposto dalle esigenze
dell’organizzazione andavo al cinema”, ci disse il Maestro, “mi sedevo in platea ed entravo subito
in samadhi. Più tardi, se qualcuno mi chiedeva se mi era piaciuta la proiezione non potevo che
rispondere: “Moltissimo!”. Avevo assistito infatti al “cinema” cosmico, con stelle e pianeti che
roteavano nello spazio infinito!”.

Per lui nessun ambiente era completamente profano, perché vedeva Dio dovunque. “Sapete dove ho
composto il mio poema ‘Samadhi’?, ci chiese un giorno. ‘Nella metropolitana di New York! Mentre
scrivevo, camminavo avanti e indietro da un capo all’altro del treno. Nessuno mi fermò per chiedermi
il biglietto. Penso anzi’, aggiunse ammiccando, ‘che nessuno mi abbia visto!’.

Alcuni visitatori si vantavano di ottenere delle sublimi esperienze in meditazione. La vanagloria
crea dello scetticismo nelle persone dotate di discernimento; una reale esperienza di Dio, infatti,
dovrebbe ispirare umiltà.

Il Maestro però poteva stabilire a prima vista il livello spirituale di una persona.

“La gente ha una nozione davvero distorta del sentiero dell’autorealizzazione”, disse. “Le visioni e
i fenomeni non sono importanti. Ciò che conta è la completa offerta di noi stessi a Dio. Ci si deve
lasciar assorbire dal Suo amore”.

“Ricordo un uomo che si fece avanti dopo una conferenza a New York, affermando che poteva entrare e
uscire a piacimento dallo stato di coscienza cosmica. In realtà, egli voleva dire che poteva
viaggiare in astrale; ma io vidi subito che le sue esperienze erano immaginarie, ed io non volli
farglielo subito notare; non mi avrebbe creduto. Lo invitai nella mia stanza e là gli chiesi il
favore di entrare nella coscienza cosmica”.

“Bene, si sedette eccitato, sbattendo le palpebre, il respiro affannoso, tutti segni di coscienza
corporea, non certo cosmica! Alla fine non riuscì più a trattenersi”.

“Perché non mi chiedete dove sono?”.

“Dove siete?”, chiesi per assecondarlo.

“Sulla cima della cupola del Taj Mahal!”, rispose con voce sonora, quasi stesse gridando da molto
lontano”.

“Deve esserci qualcosa che non va nella vostra cupola!” osservai. “Vi vedo seduto davanti a me”. Fu
colto completamente alla sprovvista”.

“Allora gli feci una proposta. “Se pensate di poter viaggiare fino al Taj Mahal, perché non provate
ad andare in qualche posto più vicino, in modo da poter verificare la validità della vostra
esperienza?”. Gli suggerii quindi che si proiettasse nella sala da pranzo dell’albergo, al piano
terreno, e mi descrivesse cosa vedeva. Acconsentì. Rientrato in stato di “coscienza cosmica”, mi
descrisse la sala da pranzo dell’albergo come la vedeva, poiché egli credeva nelle sue visioni!
Volevo dimostrargli che esse dipendevano soltanto da un intenso potere di visualizzazione. Mi
descrisse numerosi particolari del ristorante, compreso un grande pianoforte in un angolo, a
destra”.

“Gli descrissi poi la scena come la vedevo io. ‘Nell’angolo a destra’, dissi, ‘ci sono due donne
sedute a un tavolo’. Scendemmo subito a controllare e scoprimmo che la sala era come io l’avevo
descritta. Finalmente fu convinto”.

Yogananda ci narrava spesso episodi della sua fanciullezza in India. Anni più tardi ne raccolsi e ne
pubblicai alcuni in un libriccino intitolato ‘Stories of Mukunda’. Ne racconterò ora uno che allora
omisi poiché non si addiceva al tono generale del libro.

“La prima volta che sfamammo i poveri in India”, raccontò il Maestro, “decisi di dar da mangiare a
duecento persone. Ero appena un ragazzo e tutti si chiesero come potevo riuscirci. Un altro ragazzo,
un amico, obiettò: “Non hai una rupia e anch’io non ho nulla. Sarà impossibile sfamare tante
persone”.

“Tutto quello che mi serve”, risposi, “sono venti rupie. E questo denaro mi verrà da te”.

“Impossibile!”, gridò sgomento.

“Accadrà, ma a una sola condizione: stai attento a non disobbedire a tua madre per tutto il giorno”.

“Più tardi, sua madre gli disse di andare fino alla casa di una sua ricca zia per portarle qualcosa.
Era già sul punto di rifiutare – non era affatto un tipo docile – quando ricordò il mio ammonimento;
prese il pacchetto e andò dalla zia senza fiatare”.

“Arrivato dalla zia, questa cominciò a rimproverarlo: “Chi è quel ragazzo che ti ronza attorno?”; si
riferiva a me. Come molti benestanti ella aveva tendenza a sospettare degli sconosciuti. Il mio
amico cominciò ad arrabbiarsi ed era sul punto di andarsene, quando la zia lo richiamò. “Aspetta! Ho
sentito che quel ragazzo sta progettando di compiere un’opera buona. Prendi questo denaro e usalo!”.
E gli consegnò venti rupie”.

“Aveva già cominciato a circolare la voce che progettavamo di sfamare i poveri. Con quelle venti
rupie comprammo una notevole quantità di riso e lenticchie. Quando i vicini videro che i nostri
piani divenivano realtà, si entusiasmarono e cominciò ad affluire denaro da tutte le parti. Alcuni
si offrirono volontari per aiutare a cucinare e a distribuire il cibo. Anziché duecento poveri, quel
giorno ne sfamammo duemila!”.

Una sera il discorso cadde sulle qualità necessarie per il successo. “La forza di volontà”, affermò
il Maestro, “è più importante del sapere, dell’educazione o dell’abilità. Alcune persone, quando le
scuoti, rispondono con un gemito: “Non seccarmi; sto dormendo!”. Altre accennano a svegliarsi, ma se
le lasci sole per qualche minuto ricominciano a sonnecchiare. Vi sono invece degli individui ben
svegli nel momento stesso in cui rivolgi loro la parola e progrediscono senza bisogno di stimoli.
Questa è la gente che mi piace!”.

“Quando ero all’inizio della mia vita spirituale, abitavo in una piccola capanna di fango con altri
due ragazzi. Uno di loro aveva una corporatura come la mia, bassa ed esile; l’altro era invece
grande e robusto. Un giorno dissi loro: “Perché non ricopriamo di cemento il pavimento della stanza
comune?”.

“Impossibile!”, esclamò il compagno più grosso. “Non abbiamo il cemento; ci mancano gli attrezzi;
non sappiamo da che parte cominciare. Un lavoro come questo richiede nozioni tecniche ed
esperienza”.

“Se ci concentriamo su di esso”, obiettai, “possiamo farcela”.

“Lo credi perché desideri farlo!”, disse in tono di scherno e se ne andò per mostrarci cosa pensava
del mio progetto.”

“Nello stesso giorno l’altro ragazzo ed io andammo dai vicini e a poco a poco raccogliemmo il
materiale necessario in dono e gli attrezzi in prestito. Due uomini si prodigarono anche in accurate
istruzioni per impastare e stendere il cemento. Rimanemmo alzati tutta la notte, impastando e
gettando, ed al mattino seguente il lavoro era finito. Il nostro compagno fece ritorno all’eremo a
giorno inoltrato”.

“Penso proprio che avevi ragione”, dissi sospirando per stuzzicarlo.
+
“Ah!”, esclamò. “Vedi? Te l’avevo detto!”.

“Gli chiesi poi di andare per favore a prendermi qualcosa nella camera accanto. Aprì la porta ed
ecco stendersi davanti a lui il nostro nuovo pavimento di cemento! L’avevamo perfino dipinto in
rosso. Restò attonito”.

Il Maestro ci fece rilevare che i miracoli divengono possibili quando l’uomo unisce la sua volontà
con quella di Dio.

“A non molti chilometri dalla nostra scuola di Ranchi c’era un’alta cascata, sormontata da una
sporgenza rocciosa sulla quale era pericoloso transitare. A volte vi conducevo i ragazzi”.

“Credete in Dio”, gridavo a gran voce per superare il rombo della cascata.

“Si”, gridavano tutti in risposta e così, inneggiando al nome di Dio, traversavamo sani e salvi la
cascata.

“Un giorno, alcuni anni dopo la mia venuta in America, un altro insegnante della scuola cercò di
condurre un gruppo di ragazzi per quella via, comportandosi in tutto e per tutto come ero solito
fare io, ma uno dei ragazzi scivolò e cadde, annegando. Quel maestro non possedeva la facoltà del
volere e del potere. La fede deve accompagnarsi alla realizzazione spirituale, altrimenti manca di
forza.”

“Inoltre”, aggiunse il Maestro, “i motivi che si hanno devono essere puri. Pochi anni fa due ragazzi
in India pensavano che, avendo fede in Dio, Egli li avrebbe senz’altro protetti in qualsiasi
circostanza. Per averne la prova presero una spada e si inoltrarono nella vicina foresta. Uno di
essi si inginocchiò e l’altro gli vibrò un gran fendente sul collo con la spada. Ma Dio non
considerò la loro presunzione degna di un miracolo e il ragazzo inginocchiato morì all’istante. Se
la loro fede fosse stata pura, quei ragazzi avrebbero avuto il discernimento sufficiente per non
comportarsi così sconsideratamente. Chi opera con purezza di intenzioni non cerca mai di forzare
Dio. Se la propria volontà è in armonia con la volontà divina, tutto quanto si fa avrà sempre un
buon esito.”

In un’altra occasione il Maestro ci parlò del potere di una fede sincera. “Una sera ero appena
ritornato a Mount Washington quando un vento violento e improvviso investì la costruzione. Era
conseguenza del karma malvagio della guerra. Comunemente non ci si rende conto di quanto gli
elementi siano influenzati dalla coscienza delle masse. Dissi a una delle discepole che vivevano
colà di levarsi una scarpa e di colpire per tre volte con essa il porticato ripetendo alcune
formule. Fece come le dissi. Al terzo colpo il vento si acquietò tanto improvvisamente come si era
levato. Nel giornale si accennò poi al forte vento che si era alzato tutto a un tratto a Los Angeles
per cessare dopo pochi minuti”.

“Il potenziale mentale” aggiunse il Maestro, “è considerevole anche senza l’ausilio del potere
divino. Un giorno stavo viaggiando in treno in questo paese. Era una giornata torrida, il convoglio
non era provvisto di aria condizionata e tutti stavano soffrendo il caldo. Dissi allora a quelli che
erano vicini a me: “Guardate, basta poca concentrazione: ora penserò intensamente a un iceberg”.

“Dopo pochi minuti stesi un braccio affinché lo toccassero. Era freddo”.

Yogananda ci intratteneva spesso con degli aneddoti divertenti dei suoi primi anni in America. “La
mia veste e i miei capelli lunghi lasciavano supporre che io fossi una donna. Una volta ad una
mostra floreale a Boston, avevo bisogno di trovare al più presto il gabinetto. Un inserviente mi
indicò una porta che varcai fiducioso. Bontà divina! Donne a sinistra, donne a destra, donne
dappertutto! Mi precipitai fuori e tornai dal guardiano”.

“Voglio il gabinetto per uomini”, insistetti. Mi rivolse un’occhiata sospettosa, ma poi mi indicò
un’altra porta. Stavolta ero appena entrato che un uomo gridò: “Non qui dentro, signora! non qui
dentro!”.

“Con voce bassa e profonda risposi: “So quel che faccio!”.

“Un’altra volta su un treno il controllore continuava a camminare avanti e indietro per il
corridoio, osservandomi con curiosità. Infine non riuscì più a trattenersi. “Sei un uomo”, mi
chiese, “o sei una donna?”.

“E tu che ne dici?”, domandai in risposta, con voce roboante.

“Un tempo portavo la barba. Sulla nave che veniva dall’India un altro passeggero, un musulmano di
nome Rashid mi persuase a raderla. Gli americani, insisteva, potevano accettare o i capelli lunghi o
la barba, ma ciò diveniva molto improbabile se tenevo entrambi. Poiché il mio maestro desiderava che
io portassi i capelli lunghi, decisi di sacrificare la barba. Rashid si offrì volontario come
barbiere e io mi posi fiducioso nelle sue mani. Insaponò accuratamente il mio volto e procedette con
attenzione alla rasatura. Dopo esser giunto a metà del lavoro, mi abbandonò! Non sapevo come radermi
l’altra metà del volto; ma egli mi lasciò là a preoccuparmi finché, dopo un po’ di tempo, ritornò
ridendo a finire il lavoro”.

“Rashid era un burlone, ma si rivelò anche di grande aiuto quando iniziai il mio primo giro di
conferenze. Noleggiò le sale, si occupò della pubblicità e funzionò come segretario. Continuò,
intanto, imperterrito a giocare scherzi a tutti!”.

“Ma una sera ebbi la meglio. Evitava il lavoro per correre dietro alle ragazze. Non si rendeva conto
che sapevo cosa stava facendo. Nella sera di cui sto parlando mi aveva promesso di venire ad
assistermi nel lavoro. Quando vidi che non arrivava, seppi subito dove trovarlo. Andai al parco
accanto e là, infatti, stava seduto su una panchina con una nuova ragazza (non si poteva certo dire
che non ci sapesse fare!) Mi avvicinai furtivamente alle sue spalle e mi nascosi in un cespuglio.
Cinse le spalle della ragazza con un braccio e si accinse a baciarla. Colsi quell’istante per
chiamarlo con voce profonda e cavernosa: “Raaashiiid!”. Avreste dovuto vedere come sobbalzò! Dopo
quell’episodio non arrivò più tardi in ufficio e lavorò sempre coscienziosamente”.

Risate fragorose accolsero questo racconto del Maestro che egli mimò con buffi gesti ed espressioni
del viso.

“Rashid però”, concluse, “si fece perdonare tutte le sue burle. Quando ritornai in India, anni dopo,
nel 1935, egli, che viveva colà, organizzò per me una solenne accoglienza pubblica a Calcutta. Ne
fui profondamente commosso!”.

Nel 1959 ebbi l’occasione di incontrare Rashid a Calcutta. Era molto più vecchio, ma persino allora,
fu facile immaginarlo come il gaio burlone della sua giovinezza.

“La prima volta che giunsi in America, continuò il Maestro, “mio padre mi inviava regolarmente del
denaro, ma io desideravo affidarmi completamente alla provvidenza divina e glieli rimandavo sempre.
All’inizio Dio mi rese la vita un po’ difficile per mettere alla prova la mia fede in Lui ma questa
rimase sempre salda ed Egli non mi abbandonò mai!”.

Il Maestro continuò a ricordare quei suoi primi anni negli Stati Uniti. “Uno studente a Boston mi
annunciò che voleva diventare un rinunciante. Gli risposi: “La tua via è il matrimonio”.

“Oh no!”, disse in tono solenne di promessa, “non mi sposerò mai!”. Neppure una settimana più tardi
conobbe una splendida ragazza e giurò di esserne profondamente innamorato!”.

“Non è quella che fa per te”, lo avvertii”

“Come non lo è!” sbottò. “E’ la mia anima gemella”.

“Non passò molto tempo che lo vidi ritornare con una espressione imbarazzata. “Voglio farmi monaco”,
annunciò anche questa volta con grande fervore. La ragazza lo aveva lasciato, dopo averlo aiutato a
spendere tutto il suo denaro”.

“Devi ancora trovare quella giusta”, gli dissi.

“Qualche tempo dopo, ridendo, mi parlò di una ragazza grassa, per nulla attraente, che dimostrava
per lui un interesse non desiderato.”
“Ah, ah”, esclamai, “penso sia proprio quella giusta!”.

“No, Swami, no”, gridò inorridito. “Avete avuto ragione l’altra volta, ma, vi prego, cercate di non
aver ragione anche adesso!”.

“Ci volle del tempo, ma a poco a poco egli scoprì che sotto l’aspetto poco attraente della ragazza,
si celava un buon carattere. Finirono per sposarsi”.

“Troppo spesso la gente è accecata dalle apparenze esteriori”, continuò il Maestro. “In questo paese
il matrimonio è sovente l’unione fra una graziosa sfumatura di rossetto per le labbra e una cravatta
alla moda! Ascoltano della musica, diventano romantici e finiscono per impegnare le loro vite”.

“Ricordo una coppia che venne da me a Phoenix e mi chiese di sposarli “immediatamente”. Dissi loro:
“Devo conoscere chi sposo. Voglio meditare sulla vostra richiesta. Vi prego, tornate domani”. A
questo proposta di dilazione, l’uomo si infuriò. Quando ritornarono il giorno seguente, mi mise alle
strette. “Tutto bene?”.

“No” dissi.

“Irritatissimo l’uomo si rivolse alla compagna: “Andiamocene di qui cara! Troveremo qualcun altro
che ci sposi”.

“Erano giunti quasi alla porta, quando li apostrofai: “Ricordate le mie parole: non sarete mai
felici insieme. Ve ne accorgerete quando sarà troppo tardi. Ma vi prego, vi scongiuro, almeno non
ammazzatevi”.

“Si sposarono altrove e subito dopo vennero a Mount Washington per mostrarmi quant’erano felici. Non
dissi nulla ma dentro di me pensai: “Non sapete cosa bolle sotto quel coperchio!”.

“Sei mesi più tardi ritornarono e stavolta si inginocchiarono umilmente davanti a me confessando:
“Non ci eravamo accorti quanto fossimo diversi l’uno dall’altra. Se non ci aveste avvertiti avremmo
certamente finito per ammazzarci”. Sotto l’influenza della loro ebbrezza emotiva non avevano saputo
osservare la violenza esplosiva che nasceva dal loro rapporto”.

“E’ necessario imparare a vedere oltre il velo dell’attrazione superficiale. Senza armonia delle
anime non può esservi vero amore”.

Il Maestro considerava ogni esperienza umana, compreso il matrimonio, come un’opportunità di
evoluzione interiore. La nozione romantica della felicità coniugale era per lui una pura e semplice
illusione. Non che egli negasse le soddisfazioni di un matrimonio armonioso, ma voleva che i devoti
considerassero le esperienze umane come dei trampolini di lancio all’unico autentico modo d’essere
dell’anima: l’unione con Dio. Raccomandava pertanto a chi aspirava al matrimonio di cercare nel
compagno o nella compagna anzitutto la compatibilità spirituale e soltanto in via secondaria quella
mentale, emotiva e fisica. Non considerava il matrimonio soltanto come un compimento, ma come una
opportunità per imparare fondamentali lezioni spirituali: l’altruismo, la fedeltà, la generosità, il
rispetto e la fiducia reciproca. A chi in nome dell’imparzialità considerava superfluo esprimere
esteriormente queste qualità verso i propri figli, diceva: “Non immaginatevi che Dio possa venire a
voi se vi comportate duramente col vostro prossimo. Finché non saprete conquistare l’amore degli
uomini non sarete mai capaci di conquistare l’amore di Dio”.

L’esperienza umana era per lui, in certo senso, parte di un processo divino di guarigione. La più
grave malattia di un uomo, diceva, è l’ignoranza spirituale. La sua stessa vita fu dedicata a curare
la gente a tutti i livelli, in armonia con la sua filosofia che affermava che la religione deve
rispondere a tutti i bisogni dell’umanità: fisici, emotivi e intellettuali, oltre che spirituali.
Per quanto la “cura suprema” che egli offriva fosse la felicità divina, guarì molte persone che
conosco, io incluso, da numerose infermità fisiche.

Ricordo un caso di guarigione che avvenne anni prima ch’io entrassi nell’organizzazione. Fu il
Maestro a riferircelo.

“Durante la Fiera Mondiale di Chicago, nel 1933, il dottor Lewis mi telefonò a Los Angeles
raccontandomi che un suo amico aveva un grumo di sangue nel cuore e stava morendo. Potevo aiutarlo?
Mi sedetti in meditazione e pregai. D’improvviso un grande potere eruppe da me come un’esplosione.
Nello stesso istante l’uomo, che era stato in coma, guarì. Nella stanza con lui c’era anche
un’infermiera, una donna tutt’altro che spirituale. Ella testimoniò più tardi di aver udito nella
stanza un’esplosione e d’aver visto un vivido lampo di luce. L’uomo si alzo di scatto sul letto,
completamente ristabilito.

Il Maestro parlò poi della più importante delle guarigioni, quella che dissipa l’ignoranza. “Questo
è il motivo per cui abbiamo questi ashram” disse, “aperti a tutti coloro che desiderano dedicare le
loro vite a Dio, per essere guariti eternamente da ogni sofferenza”.

E parlò, parlò ancora dei primi anni a Mount Washington.

Guardandoci poi con dolcezza, concluse: “Quanto vorrei che tutti foste stati con me allora! Doveva
passare ancora tanto tempo prima che voi veniste”.

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