I vivaci ricordi diretti che Swami Kriyananda ha di Yoganandaji

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I vivaci ricordi diretti che Swami Kriyananda ha di Yoganandaji

di Swami Kriyananda

Tratto da:
(Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA
“IL SENTIERO”
Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda
Traduzione di MAURO MERCI
EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA

Quasi tutti i giorni, dopo che avevamo lavorato al manoscritto, Yogananda si sedeva in posizione
comoda e rimaneva a conversare a lungo con me del più e del meno. A volte anche la signora Nealey si
tratteneva nella stanza con noi e si univa alla discussione. Come d’abitudine in simili occasioni,
l’insegnamento del Maestro assumeva spesso la forma di storielle istruttive.

“Ben di rado Dio gradisce che i miracoli siano ostentati pubblicamente”, cominciò un giorno e
continuò narrandoci le vicende di Sadhu Haridas, un famoso taumaturgo dell’India del diciottesimo
secolo che, ci raccontò, “rimase sepolto sotterra per quaranta giorni. Quando il suo corpo venne
finalmente esumato, un gruppo di medici francesi lo esaminò, dichiarandone la morte, ma, con loro
immensa meraviglia però, egli “ritornò in vita!”.

“Un giorno era seduto in una barchetta a remi assieme a un missionario che stava cercando di
convincerlo a convertirsi al cristianesimo. “Perché mai dovrei farmi seguace del vostro Gesù
Cristo?”, chiese Sadhu Haridas. “Cosa sapeva fare che anch’io non faccia?”.

“Manifestava poteri divini”, ribatté prontamente il missionario e, volgendo lo sguardo all’acqua che
si stendeva tutt’intorno, continuò: “camminava sulle acque!”.
“Cosa c’è di tanto speciale in questo?”, fu la risposta di Haridas, pronunciata in tono di scherno.
Con un balzo fu fuori dalla barca e cominciò a camminare sull’acqua e dove andava, la barca lo
seguiva. Come è ovvio, il missionario rimase senza parole!”.

“Ma il maharaja di quello stato era un’anima evoluta. Scorto un giorno in lontananza Sadhu Haridas
disse ai cortigiani: “C’è qualcosa in quell’uomo che non mi piace”. Il coro di proteste fu unanime.
“Ma è un grande santo! Pensa a quel che è riuscito a compiere!”. Il maharaja però insistette: “Non
fa niente, c’è lo stesso in lui qualcosa che non mi piace affatto”. Intuiva che, col suo
concentrarsi sui miracoli, Sadhu Haridas si stava allontanando da Dio”.

“Aveva ragione. Non molto tempo dopo, Haridas abbandonò le sue pratiche spirituali, prese moglie e
riprese la vita mondana. Più tardi, capì il suo errore e fece ritorno dai suoi discepoli. “Sono
tornato”, fu tutto quel che disse”.

“Anni dopo dichiarò: “Ho commesso molti errori, ma ora l’Amato mi sta chiamando presso di sé.”
Entrato in samadhi conseguì l’eterna liberazione”.
“Signore”, chiese la signora Nealey quando il racconto fu finito, “come poté risalire la scala
dell’evoluzione tanto rapidamente? La punizione karmica non è più severa per gli errori commessi da
chi aveva raggiunto un alto grado di evoluzione spirituale e meno rigorosa per un neofito?”.

Il Maestro scosse il capo. “Mmmmm. Dio non è un tiranno. Se chi è abituato a bere nettare comincia a
cibarsi di formaggio fermentato, ben presto sarà disgustato dal cambiamento e getterà allora il
formaggio per implorare piangendo che gli sia nuovamente concesso il nettare. Dio in tal caso non
glielo rifiuta, purché egli si sia reso conto del suo errore e desideri di nuovo con sincerità
l’amore divino”.

“Però vedete”, continuò Yogananda, “non si debbono ostentare pubblicamente i propri poteri
spirituali. Non molti anni or sono viveva in India uno yogi che dava spettacolo di fronte a immense
folle della sua capacità di ingoiare letali pozioni velenose senza subirne alcun male. Un giorno
però si dimenticò di preparare in anticipo la sua mente alla prova e il veleno inghiottito cominciò
ad agire. Mentre si contorceva negli spasmi dell’agonia, confessò: “So che questa è la mia punizione
per aver mostrato ad altri i miei poteri”.

“Un maestro può però rivelare i propri poteri divini davanti ai suoi discepoli”. Il Maestro continuò
parlando del suo guru, Sri Yukteswar, e dei miracoli che egli aveva occasionalmente operato.

“C’era sul tetto del suo ashram a Puri una tegola mossa”, ricordò con un sorriso. “Io volevo salire
a fissarla, poiché temevo che potesse cadere da un momento all’altro e far del male a qualcuno. Il
maestro però mostrò scarso interesse per la cosa. “Non te ne preoccupare”, mi disse con tono
noncurante. “Finché sarò in vita, quella tegola rimarrà dove è adesso”. E così fu infatti per quasi
vent’anni, fino alla sua morte. In quel giorno essa cadde!”.

Un giorno si parlava della severità della disciplina che Sri Yukteswar imponeva ai suoi discepoli.
“Egli non desiderava discepoli”, fece osservare il Maestro. “Erano ben pochi coloro che riuscivano a
tollerare, nella loro debolezza, il suo intuito penetrante che egli non esitava mai a rivelare! Ma
io gli rimasi fedele, riuscii a trovare Dio e convertendo me egli convertì migliaia di persone”.

“Maestro”, chiesi allora”, non può darsi che la severità di Sri Yukteswar fosse dovuta alla
previsione che non sarebbe ritornato mai più su questo piano materiale di esistenza? Non è forse
vero che la maggior parte dei suoi discepoli sinceri era già liberata e che egli non voleva
assumersi la responsabilità di istruire nuovi allievi?”.
“Esatto”, confermò il maestro. “Aveva intorno qualche monaco errante a quel tempo, ma è tutto”.

In altre occasioni affermò ripetutamente che anch’egli aveva conseguito la liberazione “molte
incarnazioni prima”.

“Signore”, lo interrogai un giorno, “per quanto tempo sono stato vostro discepolo in passato?”

“Oh, molto a lungo, ma non voglio dirti di più”.

“Si impiega sempre tanto tempo?”.

“Certo”, rispose. “I desideri per le cose del mondo sono sempre in agguato, fino a quando non si
siano apprese tutte le lezioni in questa scuola di vita”.
Nel suo commento alla Gita, tuttavia, il Maestro sottolinea che, quando il devoto aspira
sinceramente alla liberazione, è solo questione di tempo prima che il suo desiderio venga esaudito.
Confrontato con l’enorme numero di incarnazioni attraverso le quali l’anima vaga di illusione in
illusione prima di ritornare alla Sorgente Infinita, il sincero desiderio di liberazione è appena a
un passo dalla libertà stessa.

Un pomeriggio il discorso venne a cadere sul libro di Sri Yukteswar, The Holy Science (La sacra
scienza). “Mi è parso, per la maggior parte astruso”, confessai.
“Davvero?”, intervenne la signora Nealey, atteggiando il volto a sorpresa. “Ma se l’ho trovato tanto
semplice?”.

Quando, dopo pochi minuti, la signora lasciò la stanza, il maestro commentò sorridendo: “Anch’io
quando ho letto quel libro, sono stato costretto a indugiare su alcuni passaggi per riflettere!”.

Nel corso della conversazione che seguì, parlammo occasionalmente del comportamento dei maestri. “La
gente comune sollecita da loro continuamente dei miracoli”, osservò Yogananda. “Non si accorge che
il maggiore “miracolo” di un maestro sta nella sua umiltà”. E aggiunse: “Le azioni di un vero
maestro che vive nel mondo, sono sempre dettate dalla saggezza, mai dal capriccio”.

“Alcuni anni or sono un cosiddetto “maestro” indiano aveva progettato di visitare questo paese e mi
scrisse, chiedendomi se poteva andare a Mount Washington durante il suo viaggio nel Middle West per
un congresso religioso. Bene, preparammo un sontuoso banchetto per lui e quindici dei suoi
discepoli. Stavamo attendendo da un momento all’altro il suo arrivo, quando giunse un telegramma da
Honolulu. Era già arrivato fin là, ma d’improvviso aveva ricevuto l'”ispirazione” di fare
dietrofront e tornarsene a casa”. Yogananda rise: “Nessun maestro si sarebbe mai comportato in
questo modo!”.

Continuò analizzando varie altre eminenti figure religiose, alcune realmente grandi, altre forse
meno edificanti che istruttive per gli esempi proposti. “Durante il mio viaggio in India nel 1935”,
narrò, “incontrai un grande santo, discepolo di Ramana Maharshi. Il suo nome è Yogi Ramiah.
Camminammo tenendoci per mano nei giardini del Ramanashram, ebbri di Dio. Oh! Se fossi rimasto
un’altra mezz’ora in sua compagnia non avrei più lasciato l’India!”.

(Nel 1960 anch’io ebbi modo di trascorrere quattro giorni in compagni di Yogi Ramiah, Sri Rama Yogi
com’era conosciuto allora, e quella visita costituì un punto di alta elevazione spirituale nella mia
vita).

Il Maestro parlò poi della sua opera in India e in modo particolare della sua scuola di Ranchi.

“Il guaio quando si educano ragazzi”, disse, “è che la maggior parte di essi, una volta cresciuti,
fanno ritorno alla vita temporale. Si opera però del bene a lunga scadenza, perché la società
necessita dell’influenza edificante di un’educazione spirituale, ma quando si inizia un’opera come
questa, essa ha bisogno di chi se ne occupi. Da questo punto di vista, le cose qui in America, vanno
molto meglio. Chi viene da noi chiedendo di essere istruito, desidera veramente dedicare a Dio tutta
la sua vita. Perciò è più facile la diffusione di questi insegnamenti”.

Di tanto in tanto mi parlava di uno o di un altro discepolo, sempre con l’intento di istruirmi
mediante il loro esempio, sul corretto atteggiamento da assumere e da far assumere educando gli
altri.

“Stavo avvezzando *** alla disciplina”, raccontò un pomeriggio il Maestro riferendosi a uno dei miei
confratelli, “e una cera signora qui fu mossa a compassione per lui. Le sembrava che lo stessi
trattando troppo duramente. Il giovane, toccato dalle sue manifestazioni di simpatia, cominciò a
compiangersi. Allora gli dissi: “Sai ***, c’è un detto in India che afferma: Chi ti ama più di tua
madre è una strega. Io sono tua madre. Vuoi che non sappia cos’è meglio per mio figlio?”. Dopo
d’allora egli non mi creò più alcun problema”.

Riferendosi alla stessa signora, anche lei una discepola, il Maestro continuò: “E’ stata sempre una
persona compiacente per natura. Sarebbe disposta a dichiararsi d’accordo quasi con tutti su
qualsiasi cosa, semplicemente per non creare contrasti. Un giorno le dissi: “Se qualcuno venisse da
te e ti raccontasse di avermi visto ubriaco fradicio percorrere barcollando Main Street, tu
sbarreresti gli occhi e diresti: ‘Davvero?’. So che non ci crederesti, ma il problema non è questo.
Non capisci che devi avere il coraggio delle tue convinzioni? Difendere quello in cui si crede è un
segno di lealtà”.

Un altro giorno, trattando ancora della necessità di sostenere con coraggio le proprie convinzioni,
il maestro narrò: “Il mio padre terreno, mosso da una punta di gelosia un giorno criticò il mio
Maestro (Sri Yukteswar) sulla base di alcuni pettegolezzi raccolti in giro. Lo affrontai
immediatamente: “Cosa ti salta in mente!”, gridai. “La vita fisica che tu mi desti è qualcosa, ma la
vita spirituale che m’ha dato il mio guru è infinitamente più preziosa! Se ti sentirò dire ancora
una sola parola contro di lui, ti ripudierò come padre!”. Da allora in poi parlò sempre con molto
rispetto del Maestro”.

A proposito della necessità di sintonizzarsi con il proprio guru, il Maestro mi disse: “Guarda *** e
guarda invece San Lynn. Chiesi a entrambi di venire a far visita alle nostre colonie tutte le volte
che era loro possibile per mantenere vivo il contatto spirituale. San Lynn ha sempre approfittato di
ogni occasione per venire ed è rimasto ore e ore in meditazione sui prati di Encinitas. *** invece
non s’è mai fatto vedere. Non avrebbe avuto alcuna difficoltà a farlo se soltanto l’avesse voluto,
ma pensa di farcela da solo. Scoprirà la verità a sue spese. E’ molto evoluto spiritualmente, ma sta
affondando nel pantano del dubbio. Si rende conto che c’è qualcosa che non va, ma non sa cosa. La
sintonia con il guru, vedi, deve attuarsi a ogni livello”.

Con un sorriso il maestro raccontò poi di una discepola che, come ebbi modo di capire, non era mai
stata in perfetta sintonia con lui a nessun livello. “Ogni volta che le dicevo qualcosa, non
passavano che pochi giorni ed ecco una lettera in risposta – pagine e pagine – per spiegarmi quanto
mi fossi sbagliato nel giudicarla!”.
Per il fine settimana e a volte per soggiorni più lunghi giungevano a Twenty-Nine Palms anche altri
monaci. Un giorno il Maestro ci narrò un divertente episodio avvenuto durante i mesi della dettatura
del libro. Jerry s’era messo in testa di ricoprire di calcestruzzo il tetto dell’abitazione del
Maestro. Era un’idea balorda, ma Jerry, noncurante delle obiezioni di Yogananda, aveva insistito per
mettere in esecuzione il suo progetto. Un tetto così costruito, asseriva, sarebbe durato per sempre.
“Gli dissi allora di sbrigarsi”, continuò il Maestro, “ma Jerry mi rispose: ‘Andrà tutto bene, so
quello che faccio'”. Il Maestro rise: “Cominciò con lo stendere sul tetto della carta catramata
sulla quale inchiodò della rete metallica da pollaio. A questo punto il tetto era ridotto a un
colabrodo dalle centinaia di chiodi che Jerry vi aveva piantato. “Fai in fretta” lo esortai, ma egli
non mi fece caso”.

“All’improvviso scoppiò un violento temporale. Secchi e casseruoli furono collocati freneticamente
in ogni stanza. L’acqua entrava dappertutto e la casa pareva essere diventata una doccia!”

“Soltanto in due stanze non piovve: nella sala dove dettavo e nella mia camera da letto. Il tetto
era ridotto a un setaccio sopra queste due stanze come sopra il resto della casa, ma la Madre
divina impedì che fossi costretto a interrompere il mio lavoro. Soltanto alla fine dello scroscio
una goccia cadde in un secchio dello studio e un’altra sul mio stomaco nudo in camera da letto,
mentre giacevo a rilassarmi. Fu questo il modo scelto dalla Madre Divina per prendersi un po’ gioco
di me!”.
Jerry, che era presente intervenne. “Mi spiace di essere tanto testardo, signore”.

“Oh, ma va benissimo!”, ribatté il Maestro con tono consolatorio. “Io attiro la gente testarda!”.

“Sa amare intensamente, disse in seguito di Jerry. “E questo sentimento può cambiare una persona”.

Vedendo Henry, un giorno, il Maestro disse: “Fu Henry a scavare il pozzo nero accanto a questa casa.
Continuò a scavare e scavare per tutto il giorno senza mai fermarsi per vedere a che punto era il
lavoro. A sera, con sua grande sorpresa, scoprì di avere scavato una buca abbastanza profonda”. E il
Maestro continuò in tono di approvazione: “E’ questo il modo di cercare Dio, scavare, scavare
continuamente senza mai fermarsi per vedere a che punto si è giunti. Poi, d’improvviso, la scoperta:

“Eccomi, ci sono”.

Per un fine settimana venne a trovare il Maestro, senza essere stata invitata, la signora Harriet
Grove, la direttrice del nostro centro di Gardena in California. L’accompagnava James Coller. Pur
non conoscendo dov’era situato l’eremo, riuscì a trovarlo ugualmente per pura intuizione. (“Curva a
sinistra”, disse a James, che era al volante. “Adesso a destra”. Poi tutt’a un tratto: “Ferma! E’
qui”. E così era).

“Questo è il pomeriggio in cui di solito esco per un giro in macchina”, la accolse il Maestro. “Oggi
però sapevo che sareste venuti e allora sono rimasto a casa”.

“Maestro”, ebbe a dire James in quei giorni. “Ho un desiderio ardente di Dio. Perché impiega tanto a
venire?”.

“Ah!”, replicò il Maestro con un sorriso radioso, “ciò fa più dolce la Sua venuta. Tale è l’idillio
di Dio con il devoto.”

“Signore”, lo implorò Debi, ansioso di provare anche lui un anelito tanto intenso, “concedetemi la
grazia della devozione”,

“Tu mi dici: ‘Dammi il denaro, così potrò comprarmi quanto voglio?’. Ebbene, io ti rispondo di no.
Prima dovrai guadagnartelo. Soltanto allora io te lo darò e potrai comprarti tutto ciò che vorrai”.

Tutte le sere il Maestro si manteneva in esercizio percorrendo lentamente il perimetro della
proprietà e, di solito, mi chiedeva di accompagnarlo. In tali occasioni era talmente staccato dal
piano fisico da non aver quasi coscienza del proprio corpo, tanto che a volte doveva cercar sostegno
appoggiandosi al mio braccio. Si arrestava allora e oscillava un poco avanti e indietro, quasi fosse
sul punto di cadere.

“Sono in tanti corpi”, osservò una sera, mentre riprendeva lentamente coscienza del suo corpo
fisico, “che mi riesce difficile ricordare quale devo tenere in movimento”.
Anche Boone venne a Twenty-Nine Palms e vi si trattenne per un breve periodo. Una sera accompagnò
Yogananda e me nella nostra passeggiata e cominciò a rivolgergli domande di carattere spirituale.

“Non dovresti rivolgermi la parola quando sono in questo stato”, osservò il Maestro. La più profonda
saggezza, sottintendeva, è al di là delle parole, e si deve sperimentare in silenziosa comunione
divina. Quando però parlava, in quei giorni, le sue parole risuonavano di una saggezza quale
raramente ha espresso nei libri. In tali occasioni mi ricordava: “Annotati quello che dico. Non
parlo spesso da questo livello di saggezza impersonale.” Da allora in poi avrebbe parlato sempre più
spesso non come un umile adoratore di Dio, ma come ci ha la coscienza satura dell’ultima e
definitiva realizzazione: “Aham Brahm Asmi, io sono Spirito!”.
Una sera il Maestro stava compiendo gli esercizi di ricarica con Boone e me nel garage e Boone lo
interrogò a proposito di un santo che gli era apparso tempo prima a Encinitas. “Chi era, Maestro?”.

“Non so di chi tu stia parlando”, fu la risposta.

“Accadde nel giardino dietro la casa, signore”.

“Oh, sono venuti in tanti!”, disse il Maestro. “Spesso li vedo. Alcuni sono già morti, altri sono
ancora su questa terra”.

“Che meraviglia signore!”, esclamai.

“Dovunque Dio è presente”, replicò, “là affluiscono i Suoi santi”. Restò in silenzio un paio di
minuti mentre eseguiva alcuni esercizi, poi aggiunse:
“Ieri volevo conoscere qualcosa della vita di Sri Ramakrishna. Stavo meditando sul mio letto, quando
egli si materializzò proprio al mio fianco. Sedemmo uno accanto all’altro, tenendoci per mano, per
lungo tempo”.

“Vi parlò della sua vita?”, chiesi.

“Nello scambio reciproco di vibrazioni ne ebbi il quadro completo”.

Un’altra sera stavamo passeggiando lungo il perimetro della proprietà e il Maestro si sorreggeva
appoggiandosi al braccio di Boone. A un certo punto s’arrestò.

“Ardente!”, osservò, lasciando il braccio di Boone per aggrapparsi al mio.

Il mio confratello stava attraversando in quell’epoca un periodo di gravi tentazioni che avrebbero
finito – ahimé – per indurlo ad abbandonare il sentiero.
In quel periodo il Maestro mi impartì anche molti consigli personali.

“La tua sarà una vita di intensa attività e di meditazione”, mi disse una sera. “Opererai con le
parole e con gli scritti”.

“Ma signore”, protestai, “voi avete già scritto tanto. Vi può essere bisogno di scrivere altro?”.

“Come puoi dire una cosa simile?”. La mia domanda lo colse di sorpresa. “Rimane ancora molto da
scrivere!”.

Alcuni mesi più tardi ritornai con lui sull’argomento. “Maestro”, dissi, “la signora Nealey mi ha
suggerito di scrivere un libro che narri come sono giunto a intraprendere questo cammino spirituale,
qualcosa come La Montagna dalle sette balze di Thomas Merton. Secondo lei un libro del genere
potrebbe essere d’aiuto a molti. Che ne dite?”.

“Non farlo per ora”, fu il parere del Maestro. Però discutendo di ciò in seguito, intuii che egli
desiderava avessi scritto prima o poi un libro simile.

“Ti aspetta una grande opera”, mi disse ponendo l’accento sulle parole durante una breve passeggiata
pomeridiana nel giardino del suo eremo. “Devi essere cosciente dell’influenza delle tue parole e
delle tue azioni sugli altri”. Stava cercando di indurmi a far combinare l’infantile semplicità con
la dignità di chi è costantemente concentrato sul Sé interiore, combinazione difficile per me,
almeno allora. Ero propenso a parlare apertamente dei miei difetti e a minimizzare le mie virtù, e
tutto ciò in nome dell’umiltà. Un simile comportamento, intendeva il Maestro, non era né dignitoso,
né necessario allo sviluppo dell’umiltà. Per raggiungere la perfezione ci si deve soffermare sul
pensiero della perfezione, pur considerandola sempre un dono di Dio e non una conquista personale.
Il Maestro voleva correggere questo mio difetto.
“Signore”, gli chiesi un giorno, “preferite che gli altri monaci mi chiamino Walter?”. Tutti avevano
continuato a chiamarmi Don.

“Ti dovrebbero chiamare reverendo Walter”. I monaci non usavano per nessuno dei nostri ministri
l’appellativo reverendo, per cui sbigottito, cercai velocemente di cambiare discorso, ma Yogananda
insistette: “Non è che un discepolo sia migliore di un altro, ma in un esercito ci devono essere
tanto i capitani quanto i soldati semplici. Devi accettare il rispetto altrui come confacente alla
tua posizione”.

Questo, devo confessarlo, fu un consiglio che trovai difficile da accogliere.

Un giorno ero seduto nello studio dove il Maestro dettava i suoi scritti, attendendo che finisse di
lavorare ad alcune pagine del suo commento alla Gita ancora manoscritto. Lo guardavo mentre
scriveva, con la mente profondamente concentrata sul lavoro, e pensai con il cuore colmo di
gratitudine quanto fosse meraviglioso essere suo discepolo. Quand’ebbe finito, mi chiese di aiutarlo
ad alzarsi. Levandosi in piedi, trattenne la mia mano per un istante e fissò nei miei occhi uno
sguardo gioioso.

“Soltanto un’increspatura sulla superficie dell’oceano!”, mormorò con voce dolcissima.

Nel suo commento alla Gita aveva paragonato Dio all’oceano e le anime individuali alle sue
innumerevoli onde. “Dio”, affermava, “è l’Unica Realtà che si manifesta in tutti gli esseri”. Da
questa affettuosa osservazione compresi quale era il suo desiderio: dovevo espandere il mio amore ed
abbracciare l’Oceano dello Spirito, del quale il suo corpo non era che una minuscola espressione.

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  1. Gianluca
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