Il Vangelo del Buddha 4

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Il Vangelo del Buddha 4

Paul Carus
IL VANGELO DEL BUDDHA

Estratto da INTERNET- www.sacred-texts.com/
A cura del CENTRO NIRVANA – Roma

“IL VANGELO” del BUDDHA
di Paul Carus (The Open Court Publishing Company, Chicago) [1894] (Tratto da INTERNET – www.sacred-texts.com/bud/index.htm)

LO SCIOCCO DISATTENTO

C’era un ricco Brahmano, ben avanti negli anni che, immemore
dell’impermanenza delle cose terrene e prospettando una vita lunga, si era
costruito una gran casa. Il Buddha si chiedeva perché un uomo così prossimo
alla morte aveva costruito una magione con così tanti appartamenti, e inviò
Ananda dal ricco Brahmano affinché gli predicasse le Quattro Nobili Verità e
l’Ottuplice Sentiero della salvezza. Ivi giunto, il Brahmano mostrò ad
Ananda la sua casa e gli spiegò lo scopo delle sue numerose camere, ma lui
non prestò attenzione all’istruzione degli insegnamenti del Buddha. Ananda
disse: “Gli sciocchi hanno l’abitudine di dire, ‘io ho ricchezza e figli’.
Colui che dice così non è padrone neanche di se-stesso; come può dire di
aver il possesso di figli, ricchezza, case e servitù? Le preoccupazioni dei
mondani sono invero molte, ma essi non sanno niente dei cambiamenti del
futuro.”

Ananda era appena andato via, quando il vecchio uomo fu colpito da
apoplessia e morì. Saputo ciò, il Buddha disse, per l’istruzione di coloro
che erano pronti: “Uno sciocco, anche se vive in compagnia del saggio, non
comprende niente della vera dottrina, come un cucchiaio che non sente il
sapore della zuppa. Egli pensa solo a se-stesso, ed immemore del consiglio
di buoni consiglieri, non è per nulla in grado di potersi liberare.

SALVATAGGIO NEL DESERTO

C’era un discepolo del Beato, pieno di energia e di zelo per la verità che,
avendo fatto un voto per completare una meditazione in solitudine, cadde in
un momento di debolezza. Egli pensò: “Il Maestro ha detto che vi sono
diversi tipi di uomini; Io devo appartenere alla classe più bassa e temo che
per me in questa rinascita non ci sarà né sentiero né risultato. Che scopo
ha una vita da eremita se neanche con uno sforzo continuo posso ottenere
l’insight meditativo a cui mi sono dedicato?”. E così egli lasciò la
solitudine e ritornò al Jetavana.

Quando i fratelli lo videro, gli dissero: “Tu hai sbagliato, O fratello, nel
rinunciare, dopo aver fatto un voto, al tentativo di eseguirlo”; e essi lo
portarono dal Maestro. Quando il Beato li vide, disse: “Vedo, O mendicanti,
che avete portato qui questo fratello contro la sua volontà. Cosa ha fatto?”

“Signore, questo fratello aveva fatto i voti di santificare la fede, ma poi
ha abban-donato lo sforzo di voler portare a termine lo scopo come membro
dell’ordine, ed è ritornato da noi.” Allora il Maestro disse a lui: “È vero
che tu hai rinunciato al tentativo?” – “È vero, O Beato!” fu la replica.

Il Maestro disse: “Questa tua vita attuale è un tempo della grazia. Se tu
ora non riesci a giungere allo stato di felicità tu dovrai soffrire per il
rimorso nelle esistenze future. Com’è, fratello, che ti sei dimostrato così
irresoluto? Poiché, nei primi stati dell’esistenza tu eri pieno di
determinazione. Con la tua sola energia, uomini e buoi con cinquecento carri
trovarono l’acqua nel deserto sabbioso, e furono salvi. Com’è che tu ora
rinunci?”. Con queste poche parole il confratello riattivò la sua decisione.
Ma gli altri implorarono il Beato, dicendo: “Signore! Dicci come questo
avvenne”.

“Ascoltate, allora, O mendicanti!” disse il Beato; ed avendo eccitato così
la loro attenzione, egli rese manifesta una cosa celata fin dalla nascita.

“Una volta, mentre Brahmadatta stava regnando in Kasi, il Bodhisattva nacque
nella famiglia di un mercante; e quando lui crebbe, andò per affari con un
seguito di cinquecento carri. Un giorno, egli giunse ad un deserto sabbioso
che era vasto molte leghe. La sabbia in quel deserto era così fina che
quando veniva presa nel pugno chiuso non poteva essere trattenuta nella
mano. Dopo che il sole fu sorto, essa divenne calda come un mucchio di
tizzoni ardenti, così che nessun uomo poteva camminarci sopra. Perciò,
quelli che dovevano viaggiarci sopra presero su legname, acqua, olio, e riso
nei loro carri, e viaggiarono di notte. Ed allo spuntar del giorno essi
formarono un accampamento e montarono un tendone aldisopra di esso e,
prendendo presto i loro pasti, passarono il giorno giacendo all’ombra. Al
tramonto essi cenarono, e quando la terra diventò fresca aggiogarono i loro
buoi e ripartirono. Il tragitto era come un viaggio per mare: dovette esser
scelta una guida nel deserto, che portò la carovana all’altro lato grazie
alla sua conoscenza delle stelle.

“Così il mercante della nostra storia attraversò il deserto. E quando ebbe
superato cinquantanove leghe lui pensò, ‘Ora, in non più d’una notte
usciremo dal deserto’, e dopo la cena egli diresse i carri al giogo, e così
li sciolse. La guida, che aveva sistemato i cuscini sul primo carro, scese
giù per guardare le stelle e orizzontarsi dove guidare gli uomini. Ma,
esausto dalla mancanza di riposo durante la lunga marcia, egli si addormentò
e non si accorse che i buoi erano tornati indietro ed avevano preso la
stessa strada da cui erano venuti. I buoi andarono avanti per tutta la
notte. Verso l’alba la guida si svegliò e, osservando le stelle, esclamò:
“Fermate i carri, fermate i carri!”. Il giorno stava giungendo alla fine
quando essi si fermarono e misero i carri in fila. Allora qualcuno gridò:
“Ma questo è proprio l’accampamento che abbiamo lasciato ieri! Non abbiamo
più che poca legna e la nostra acqua è finita! Siamo persi!” E slegando i
buoi e mettendoli al riparo essi si sdraiarono scoraggiati, ognuno sotto il
suo carro.

Ma il Bodhisattva pensò, “Se mi scoraggio anch’io, periranno tutti, e
camminò all’intorno mentre il giorno era ancora fresco. Vedendo un ciuffo di
erba kusha, lui pensò: “Questo sarebbe potuto crescere solo stando a bagno
nell’acqua, che deve stare al di sotto”. E così fece portare una vanga e
fece scavare in quella macchia. Essi scavarono sessanta cubiti di
profondità. Quando, arrivati così in fondo, la vanga degli sterratori colpì
una pietra; appena colpita, tutti si abbandonarono alla disperazione. Ma il
Bodhisattva pensò, “deve esservi acqua sotto quella pietra”, e scendendo nel
pozzo egli raggiunse la pietra, e chinandosi vi applicò sopra il suo
orecchio esaminandone il suono. Egli sentì il suono di acqua che
gorgogliava, e quando risalì chiamò il suo attendente. “Caro il mio giovane,
se tu ora ci deludi, noi siamo tutti perduti. Non ti scoraggiare. Prendi
questo martello di ferro, vai giù nella buca, e dai alla pietra un buon
colpo.”

Il giovane obbedì, e benché tutti fossero nella disperazione, egli andò giù
pieno di determinazione e colpì la pietra. La pietra si divise in due e
precipitò sotto, così che liberò la via verso il torrente, e l’acqua che
sgorgò dalle profondità fino all’orlo del pozzo era uguale in altezza ad un
albero di palma. E tutti bevvero l’acqua, e si bagnarono in essa. Poi
cucinarono il riso e lo mangiarono, ed alimentarono i loro buoi. E quando il
sole calò, loro misero una bandiera nel pozzo, ed andarono verso il luogo
destinato. Là loro vendettero la loro merce ad un buon profitto e poi fecero
ritorno alla loro casa, e quando morirono essi trapassarono in accordo ai
loro atti. Ed il Bodhisattva fece offerte e altri atti virtuosi, ed anche
lui trapassò via in conformità dei suoi atti”.

Dopo che il Maestro ebbe raccontato la storia, la ricollegò dicendo in
conclusione, “Nella carovana, il Bodhisattva era il futuro Buddha; mentre l’attendente
che in quel momento non si disperò, ma ruppe la pietra e diede l’acqua a
tutti, era questo nostro confratello senza perseveranza; e gli altri uomini
erano tutti gli attuali compagni del Buddha.”

IL SEMINATORE

Bharadvaja, un ricco coltivatore Brahmano, stava celebrando il suo
ringraziamento per il raccolto, quando arrivò il Beato con la sua ciotola
per l’elemosina, cercando il cibo. Alcune delle persone gli prestarono
riverenza, ma il Brahmano era adirato e disse: “O Samana, sarebbe stato
meglio per te andare a lavorare, piuttosto che implorare. Io aro e semino,
ed avendo arato e seminato, io mangio. Se tu facessi lo stesso, anche tu
potresti avere qualcosa da mangiare!”
Il Tathagata gli rispose dicendo: “O Brahmano, anch’io aro e semino, ed
avendo arato e seminato, io mangio”. “Tu dichiari di essere un agricoltore?”
ribattè il Brahmano. “E allora, dove sono i tuoi buoi? Dove sono i semi e
l’aratro?”

Il Beato disse: “La fede è il seme che io semino: le opere buone sono la
pioggia che lo fertilizza; la saggezza e la modestia sono l’aratro; la mia
mente è la guida per le redini; Io tengo il manico della buona-legge; la
serietà è il pungolo che io uso, e l’applicazione è il mio tiro di buoi.
Questa aratura è fatta per distruggere le erbacce dell’illusione. Il
raccolto che produce è l’immortale frutto del Nirvana, e così tutte le
sofferenze finiscono”. Allora il Brahmano versò del latte di riso in una
ciotola dorata e l’offrì al Beato, dicendo: “Che il Maestro dell’umanità
condivida il latte di riso, perché il venerabile Gotama sta arando ciò che
porta a noi il frutto dell’immortalità.”

L’ESULE

Quando il Beato dimorava nel Jetavana a Savatthi, andò fuori con la sua
ciotola per elemosinare il cibo e si avvicinò alla casa di un prete
Brahmano, mentre il fuoco di un’offerta stava ardendo sull’altare. E il
prete disse rudemente: “Stai indietro, o sbarbatello; stai indietro, O
samana disgraziato; tu sei un esule.”

Il Beato rispose: “Chi è un esule? Un esule è l’uomo che è adirato e porta
odio; l’uomo che è malvagio ed ipocrita, che abbraccia l’errore ed è pieno
di falsità. Colui che è un provocatore ed è avido, abbia cattivi desideri, è
invidioso, maligno, spudorato, e senza tema di commettere il male, costui
può essere noto come un esule. Non la nascita rende uno un esule, non la
nascita rende uno un Brahmano; ma con le azioni uno diviene un esule, e con
le azioni uno diviene un Brahmano.”

LA DONNA AL POZZO

Ananda, il discepolo favorito del Buddha, essendo stato mandato dal Signore
per una missione, passò da un pozzo vicino ad un villaggio, e vedendo
Pakati, una ragazza della casta Matanga, le chiese un po’ d’acqua da bere.
Pakati disse: “O Brahmano, io sono troppo umile e misera per darti da bere,
non chiedermi alcun servizio affinché la tua santità non sia contaminata,
perchè io sono di bassa casta” Ed Ananda rispose: “Io non cerco una casta,
ma solo acqua”; ed il cuore della ragazza Matanga sussultò gioiosamente e
lei diede da bere ad Ananda.

Ananda la ringraziò ed andò via; ma lei lo seguì a distanza. Avendo sentito
che Ananda era un discepolo di Gotama Sakyamuni, la ragazza si rivolse al
Beato e disse piangendo: “O Signore, aiutami e permettimi di vivere nel
luogo dove il tuo discepolo Ananda dimora, così che io possa vederlo ed
essere da lui ammaestrata, perché io amo Ananda.” Il Beato comprese le
emozioni del suo cuore e le disse: “Pakati, il tuo cuore è pieno di amore,
ma tu non comprendi i tuoi propri senti-menti. Non è Ananda che tu ami, ma
la sua gentilezza. Accetta, quindi, questa gentilezza che tu hai visto
praticare verso di te, e nell’umiltà della tua situazione praticala verso
gli altri. Invero, vi è un grande merito nella generosità di un re quando
lui è gentile verso un schiavo; ma vi è un più grande merito nello schiavo
quando ignora le ingiustizie che egli soffre e mantiene la gentilezza e
benevolenza verso tutta l’umanità. Egli cesserà di odiare i suoi oppressori,
ed anche quando non avrà il potere di resistere alla loro usurpazione,
guarderà con compassione la loro arroganza e il loro portamento altezzoso.

“Tu, Pakati, sei benedetta perché sebbene sei una Matanga tu sarai un
modello per uomini e donne nobili. Tu sei di bassa casta, ma un Brahmano può
imparare una lezione da te. Non deviare dal sentiero della giustizia e
rettitudine, e tu potrai offuscare la gloria reale di una regina sul trono.”

IL CONCILIATORE

Si narra che due regni erano in procinto di farsi guerra per il possesso di
un certo argine che era disputato tra di loro. Ed il Buddha, vedendo i re ed
i loro eserciti pronti a lottare, chiese loro di dirgli la causa delle loro
dispute. Avendo sentito le rimostranze di entrambi, egli disse:

“Capisco che l’argine ha un suo valore per alcuni della vostra gente; ma
avrebbe un qualche valore intrinseco, a parte il suo servire ai vostri
uomini?”
“Non ha alcun valore intrinseco” fu la replica.

Il Tathagata continuò: “Ora, quando voi andrete a combattervi, non è sicuro
che molti dei vostri uomini saranno uccisi e che anche voi stessi, o re,
siete a rischio di perdere le vostre vite?” E loro dissero: “Si, è sicuro
che molti saranno uccisi e le nostre proprie vite saranno messe in
pericolo.”

Il Buddha disse: “Il sangue degli uomini, tuttavia, ha meno valore
intrinseco di un tumulo di terra?” “No”, dissero i re, “Le vite degli uomini
e soprattutto le vite dei re, non ha prezzo!” Allora il Beato concluse: “E
voi le curate andando a rischiare ciò che non ha prezzo contro ciò che non
ha alcun valore intrinseco? “-
La collera dei due monarchi diminuì, e loro vennero ad un accordo pacifico.

IL CANE AFFAMATO
C’era un grande re che opprimeva la sua gente ed era odiato dai suoi
sudditi; eppure quando il Tathagata arrivò nel suo regno, il re ebbe un gran
desiderio di vederlo. Quindi lui andò nel luogo in cui stava il Beato e gli
chiese: “O Sakyamuni, potresti insegnare una lezione al re che possa
divertire la sua mente e allo stesso tempo essergli di utilità?”

Ed il Beato disse: “Ti racconterò la parabola del cane affamato: ‘C’era un
tiranno malvagio; ed il Dio Indra, assumendo la forma di un cacciatore,
venne sulla terra insieme al demone Matali, quest’ultimo in forma di un cane
di taglia enorme. Cacciatore e cane entrarono nel palazzo, ed il cane
ululava così fortemente che gli edifici reali erano scossi dal suono fino
alle fondamenta. Il tiranno ebbe un certo timore riverenziale e fece portare
il cacciatore davanti al suo trono chiedendogli la causa del terribile
abbaiare del cane. Il cacciatore disse, “Il cane ha fame”, ed allora il re
spaventato ordinò cibo per lui. Tutto il cibo preparato per il banchetto
reale scomparve rapidamente nelle mascelle del cane, ed ancora lui ululava
con un funesto significato. Gli fu dato più cibo, e tutte le case e i negozi
reali furono svuotati, ma invano. Allora il tiranno disperato chiese: ‘Ma c’è
nulla che soddisfi la fame di quella enorme bestia?’ ‘Nulla’, rispose il
cacciatore, ‘nulla salvo la carne di tutti i suoi nemici’. ‘E quali sono i
suoi nemici?’ chiese ansiosamente il tiranno. Il cacciatore rispose: ‘Il
cane ululerà finché nel regno c’è gente che ha fame, i suoi nemici sono
quelli che praticano l’ingiustizia ed opprimono i poveri”. L’oppressore
della gente, ricordando i suoi cattivi atti, fu preso dal rimorso, e per la
prima volta in vita sua cominciò ad ascoltare gli insegnamenti sulle virtù
del Dharma”.

Avendo finito la sua storia, il Beato si rivolse al re che era impallidito,
e gli disse: “Il Tathagata può far sviluppare gli orecchi spirituali dei
potenti, e quando tu, o gran re, udrai un cane abbaiare, penserai agli
insegnamenti del Buddha e potrai ancora imparare a pacificare il mostro.”

IL DESPOTA GUARITO
Al re Brahmadatta accadde di vedere una bella donna, moglie di un mercante
Brahmano e, concependo una passione per lei, ordinò che un prezioso gioiello
fosse lasciato segretamente cadere nella carrozza del mercante. Il gioiello
fu dato per perso, fu cercato, e fu trovato. Il mercante fu arrestato con l’accusa
di rubare, ed il re finse di ascoltare con grande attenzione la difesa, e
con un rammarico apparente ordinò che il mercante fosse condannato a morte,
mentre sua moglie fu consegnata all’ harem reale.

Brahmadatta assistette di persona all’esecuzione, perchè egli era avvezzo a
tali spettacoli che gli davano piacere, ma quando il condannato guardò con
profonda compassione il suo infame giudice, un bagliore della saggezza del
Buddha accese la mente del re oscurata di passione; e mentre il carnefice
sollevò la spada per il colpo fatale, Brahmadatta sentì l’effetto nella sua
propria mente, e immaginò di vedere se stesso sul blocco. “Fermati,
carnefice!” gridò Brahmadatta, “tu stai ucci-dendo il re!”. Ma era tardi! Il
carnefice aveva già fatto l’azione sanguinaria. Il re cadde in un deliquio,
e quando si svegliò su di se era avvenuto un cambiamento. Lui aveva cessato
di essere il despota crudele e d’ora innanzi avrebbe condotto una vita di
santità e rettitudine. La gente disse che il carattere del Brahmano era
stato impresso nella sua mente.

O voi che commettete assassini e furti! L’errore dell’auto-inganno copre i
vostri occhi. Se poteste vedere le cose così come esse sono, e non come
appaiono, voi non infliggereste più danni e dolori al vostro proprio vero
‘Sé’. Non vedete che voi dovrete fare ammenda per i vostri cattivi atti,
perchè quello che voi seminate voi dovrete raccogliere.

VASAVADATTA, LA CORTIGIANA

C’era in Mathura una cortigiana chiamata Vasavadatta. A lei accadde di
vedere Upagutta, uno dei discepoli del Buddha, un giovane alto e bello e lei
si innamorò disperatamente di lui. Così inviò un invito al giovane, ma lui
rispose: “Non è ancora arrivato il momento perché Upagutta visiti
Vasavadatta”. La cortigiana fu stupita della replica, e lei gli rispedì un
altro invito, dicendo: “Vasavadatta, da Upagutta desidera amore, non oro”.
Ma Upagutta fece la stessa enigmatica replica e non venne.

Alcuni mesi più tardi Vasavadatta stava avendo un intrigo amoroso col capo
degli artigiani. Ma nel frattempo un ricco mercante arrivò a Mathura, e si
innamorò di Vasavadatta. Vedendo la sua ricchezza, e temendo la gelosia del
suo innamorato attuale, lei ne escogitò la morte, e fece nascondere il suo
corpo in una discarica. Dopo che il capo degli artigiani fu scomparso, i
suoi parenti ed amici lo cercarono e trovarono il suo corpo. Vasavadatta fu
trascinata da un giudice, e condannata ad avere tagliati orecchi, naso, mani
e piedi, e poi abbandonata in un cimitero. Vasavadatta era stata una ragazza
appassionata, ma gentile con i suoi servitori, ed uno dei suoi domestici la
seguì, e preso d’amore per la sua padrona la soccorse nella sua agonia, e
scacciò via i corvi.

Ora era arrivato il tempo in cui Upagutta decise di visitare Vasavadatta.
Quando lui venne, la povera donna ordinò al suo domestico di raccogliere una
stoffa per nascondervi sotto i suoi arti troncati; lui la salutò
gentilmente, ma lei disse con irritazione: “Una volta questo corpo era
fragrante come il loto, ed io ti offrii il mio amore. In quei giorni io ero
ricoperta di perle e eccellente mussola. Ora io sono stata lacerata dal
carnefice e ricoperta di lordura e sangue e tu vieni!”.

“Sorella”, disse il giovane, “non è per il mio piacere che io mi avvicino a
te. È per ripristinarti una bellezza più nobile del fascino che tu hai
perso. Io ho visto con i miei occhi il Tathagata camminare su questa terra
ed insegnare agli uomini la sua dottrina meravigliosa. Ma tu non avresti
potuto ascoltare le parole della rettitudine mentre eri circondata dalle
tentazioni e mentre eri sotto l’incantesimo di passioni e desideri per i
piaceri mondani. Tu non avresti potuto ascoltare gli insegnamenti del
Tathagata, perché il tuo cuore era caparbio, e riponevi la tua fiducia
soltanto sull’adesione al tuo fascino transitorio. Il fascino di una bella
forma è infido, e porta rapidamente in tentazioni che si sono dimostrate
troppo forti per te. Ma c’è una bellezza che non si affievolisce, e se tu
volessi ascoltare la dottrina del nostro Signore, il Buddha, scoprirai
quella pace che tu avresti voluto trovare in un mondo di piaceri peccaminosi
senza tregua.”

Vasavadatta si calmò ed una felicità spirituale placò le torture del suo
dolore fisico; perché dove c’è molta sofferenza c’è anche una grande
beatitudine. Avendo preso rifugio nel Buddha, Dharma, e Sangha, lei morì in
pia sottomissione alla punizione del suo crimine.

LA FESTA DI MATRIMONIO IN JAMBUNADA

C’era un uomo in Jambunada che si doveva sposare il giorno seguente, e che
pensò, “Vorrei che il Buddha, il Beato, fosse presente al matrimonio”. Ed il
Beato, passando presso casa sua lo incontrò, e quando lesse il silenzioso
desiderio nel cuore dello sposo, acconsentì ad entrare. Quando il Beato
apparve col seguito dei suoi molti bhikkhu, l’ospite i cui mezzi erano
limitati, li ricevette come meglio poté, dicendo: “Mangia, mio Signore, tu e
tutta la tua congrega, a tuo piacimento”.
Mentre i santi uomini mangiavano, i cibi e le bevande non diminuivano, e
l’ospite pensò: “Come è meraviglioso ciò! Io avrei voluto avere questa
abbondanza per tutti i miei parenti ed amici. Così li avrei invitati tutti”.
Allorché questo pensiero fu nella mente dell’oste, tutti i suoi parenti ed
amici entrarono nella casa; e benché la sala nella casa fosse piccola c’era
in essa posto per tutti. Essi si sedettero in tavola e mangiarono, e ce
n’era abbastanza per tutti. Il Beato fu lieto di vedere così tanti ospiti
pieni di buon umore e lui li stimolò e li allietò con parole di verità,
proclamando la beatitudine della rettitudine:

“La più grande felicità che un uomo mortale può immaginare è il legame del
matrimonio, che allaccia insieme due cuori amorosi. Ma c’è una felicità
ancora più grande: è l’abbraccio con la verità. La morte separerà marito e
moglie, ma la morte non colpirà mai chi ha sposato la verità. Perciò ci si
sposi alla verità e si viva in santo matrimonio con la verità. Il marito che
ama la moglie e desidera una unione che sia eterna deve essere a lei fedele
così come se fosse la verità stessa, e lei potrà contare su di lui e lo
riverirà e lo consolerà. E la moglie che ama suo marito e desidera un’unione
che sia eterna, deve essere a lui fedele come se fosse la verità stessa; e
lui riporrà la sua fiducia in lei, e provvederà a lei. Invero, io vi dico, i
loro figli diverranno come i genitori e saranno testimoni della loro
felicità. Che nessun uomo resti single, che ognuno sia sposato alla verità
in santo amore. E quando Mara, il distruttore, verrà a separare le forme
visibili del vostro essere, voi continuerete a vivere nella verità, e
parteciperete della vita eterna, perché la verità è immortale.”

Non vi fu nessuno fra gli ospiti che non fu rafforzato nello spirito e non
riconobbe la bellezza di una vita di rettitudine; e tutti presero rifugio
nel Buddha, Dharma, e Sangha.

ALLA RICERCA DI UN LADRO

Avendo mandato in giro i suoi discepoli, il Beato vagò di paese in paese
finché lui giunse ad Uruvela. Sul cammino, si sedette in un boschetto a
riposare, e avvenne che in quello stesso boschetto c’era una festa di trenta
amici che si divertivano con le loro mogli; e mentre loro stavano
divertendosi, alcuni dei loro beni furono rubati. Allora l’intera comitiva
andò alla ricerca del ladro e, incontrando il Beato seduto sotto un albero,
lo salutarono e dissero: “Prego, Signore, hai visto per caso il ladro
passare da qui coi nostri beni?”

E il Beato disse: “Cos’è meglio per voi, andare alla ricerca del ladro o
cercare voi stessi?” E i giovani commossi dissero: “In cerca di noi stessi!”
“Bene, allora” disse il Beato, “sedetevi qui ed io vi predicherò la verità”.
E tutta la comitiva si sedette e con impazienza ascoltò le parole del Beato.
Avendo capito la verità, essi lasciarono andare la ricerca del ladro,
lodarono la dottrina e presero rifugio nel Buddha.

NEL REAME DI YAMARAJA

C’era un Brahmano, uomo religioso ma basato sui suoi attaccamenti e senza la
saggezza profonda. Egli aveva un figlio di grandi speranze che, a sette
anni, fu colpito da una fatale malattia e morì. Lo sfortunato padre non era
capace di con-trollarsi; si gettò sul cadavere e se ne stette là come un
morto. Vennero i parenti e seppellirono il bambino morto e quando il padre
si riprese, era così smodato nel suo dolore che si comportò da persona
alienata. Egli non lasciò più spazio alle lacrime, ma andò alla ricerca
della residenza di Yamaraja, il re della morte, per implorarlo umilmente che
al suo bambino fosse permesso di ritornare alla vita.
Essendo arrivato ad un grande tempio Brahmano il triste padre officiò a
certi riti religiosi e poi cadde addormentato. Mentre vagava nel suo sogno,
arrivò ad un profondo valico di montagna ove incontrò numerosi samana che
avevano ottenuto la saggezza suprema. “Gentili signori” lui disse, “chi può
dirmi dove è la residenza di Yamaraja?” E loro chiesero a lui, “Buon amico,
perché lo vorresti sapere?”. Ed allora lui raccontò loro la sua triste
storia e spiegò le sue intenzioni. Compatendo la sua auto-illusione, i
samana dissero: “Nessun uomo mortale può arrivare al luogo dove regna Yama,
ma a circa quattrocento miglia ad ovest c’è una grande città dove vivono
molti spiriti buoni; ogni ottavo giorno del mese Yama visita il luogo, e là
tu potresti vedere chi è il Re della Morte e chiedergli un bonus”.

Il Brahmano si rallegrò alla notizia, e andò alla città e la trovò come gli
avevano detto i samana. Egli fu ammesso alla temuta presenza di Yama, il Re
della Morte che, sentendo la sua richiesta, gli disse: “Tuo figlio ora vive
nel giardino orientale dove sta giocando; vai là e chiedigli di seguirti”.
Il padre felice, disse: “Com’e che mio figlio, pur senza aver compiuto opere
buone, ora sta vivendo in paradiso?” Yamaraja rispose: “Lui ha ottenuto la
felicità celestiale, non per aver compiuto buone azioni, ma perché lui morì
nella fede e in amore al Signore, e Maestro, il Buddha più glorioso. Il
Buddha ha detto, ‘Il cuore di amore e fede è vasto come un’ombra benefica
che si diffonde dal mondo degli uomini al mondo degli dèi’. Questa gloriosa
espressione è come il sigillo di un re su un editto reale.”

Il padre felice si affrettò verso il luogo e vide il suo adorato bambino che
giocava con altri bambini, tutti trasfigurati nella pace dell’esistenza
felice di una vita para-disiaca. Lui corse dal suo ragazzo e pianse con
lacrime che scorrevano giù dalle sue guance: “Figlio mio, figlio mio, non ti
ricordi di tuo padre, che ti proteggeva con amorosa cura e ti badava durante
la tua malattia? Ritorna a casa con me nella terra dei viventi”. Ma il
ragazzo, lottando per ritornare dai suoi compagni di gioco, lo rimproverò
per usare espressioni così strane, come padre e figlio. “Nella mia attuale
condizione” lui disse, “io non conosco tali parole, perché io sono libero
dalla illusione”.

Quindi, il Brahmano ripartì, e quando si svegliò dal suo sogno, lui pensò al
Beato, Maestro dell’umanità, il grande Buddha, e decise di andare da lui,
mettere a nudo il suo dolore, e cercare consolazione. Essendo arrivato al
Jetavana, il Brahmano raccontò la sua storia e di come il suo ragazzo aveva
rifiutato di riconoscerlo e di ritornare a casa con lui.

E l’Onorato nel Mondo disse: “Veramente, tu sei illuso. Quando un uomo
muore, il corpo è dissolto nei suoi elementi, ma lo spirito non viene messo
nella tomba. Esso raggiunge uno stato più alto di vita in cui tutti i
termini relativi come ‘padre, figlio, moglie, madre’ sono senza scopo, come
se fossero una cosa del passato, proprio come un ospite che lascia il suo
vecchio alloggio. La maggior parte degli uomini si preoccupa di ciò che
passa via; ma la fine della vita viene rapidamente come un torrente di fuoco
che in un momento spazza via il transitorio. Essi sono come un uomo cieco
messo a guardare una lampada che brucia. Un uomo saggio, capendo la fugacità
delle relazioni mondane, distrugge la causa della sofferenza, e scappa dal
bollente vortice del dolore. La saggezza religiosa eleva l’uomo al di sopra
dei piaceri e dei dolori del mondo e gli dà la pace eterna”.

Il Brahmano chiese il permesso del Beato per entrare nella comunità dei suoi
bhikkhu, come pure per acquisire quella saggezza paradisiaca, che solo può
dare conforto ad un cuore afflitto.

IL SEME DI SENAPE

C’era una volta un uomo ricco che improvvisamente trovò il suo oro
trasformato in cenere; così egli si ammalò e rifiutò completamente di
mangiare. Un suo amico, sentendo della malattia, andò a trovare l’uomo ricco
e seppe la causa del suo dolore. E l’amico disse: “Tu non hai fatto buon uso
della tua ricchezza. Poiché quando l’hai accumulata essa non era certo
migliore della cenere. Ora ascolta il mio consiglio. Metti per terra delle
stuoie; accatastaci su queste ceneri, e fingi di voler commerciare con
esse”. L’uomo ricco fece come gli aveva detto il suo amico, e quando i suoi
vicini di casa gli chiesero, “Perché vendi le ceneri?” lui disse: “Io offro
in vendita i miei beni”.

Dopo qualche tempo una giovane ragazza, di nome Kisa Gotami, orfana e molto
povera, passò di lì, e vedendo l’uomo ricco nel bazar, disse: “Mio signore,
perché hai ammucchiato così oro ed argento, forse per venderli?” E l’uomo
ricco disse: “Per favore, puoi darmi quell’oro ed argento?” E Kisa Gotami
prese una manciata di ceneri, ed ecco! Esse si trasformarono di nuovo in
oro. Considerando che Kisa Gotami aveva l’occhio mentale della conoscenza
spirituale e vedeva il vero valore delle cose, l’uomo ricco la diede in
matrimonio a suo figlio, il quale disse: “Per tanti altri, l’oro non è
migliore delle ceneri, ma per Kisa Gotami le ceneri divennero oro puro.”

Poi, Kisa Gotami ebbe un unico figlio, che morì. Nel suo dolore, lei portò
il bimbo morto da tutti i suoi vicini, chiedendo loro delle medicine, e le
persone dissero: “Lei è impazzita. Il ragazzo è morto”. In seguito, Kisa
Gotami incontrò un uomo che alla sua richiesta rispose: “Io non posso darti
medicine per il tuo bambino, ma conosco un medico che può.” La ragazza
disse: “Prego, signore, dimmi, chi è?” E l’uomo rispose: “Vai da Sakyamuni,
il Buddha.”

Kisa Gotami andò dal Buddha e pianse: “Signore, e Maestro, dammi la medicina
che guarirà il mio ragazzo.” Il Buddha rispose: “Si, però prima devi
portarmi una manciata di semi di senape”. E quando la ragazza promise di
procurarglieli con gioia, il Buddha aggiunse: “I semi di senape devono
essere presi da una casa dove nessuno abbia perso un figlio, un marito,
genitore, o amico”. Allora la povera Kisa Gotami andò di casa in casa, e le
persone la compatirono e dissero: “Ecco il seme di senape; prendilo!” Ma
quando lei chiese: “Vi è morto un figlio o figlia, un padre o madre, nella
vostra famiglia?” Loro risposero: “Ahimè i viventi sono pochi, ma i morti ce
ne sono stati molti. Tu ci fai ricordare il nostro più profondo dolore.” E
non c’era casa in cui non vi fosse morta una persona cara.

Kisa Gotami divenne stanca e senza speranza, e si sedette al margine,
guardando le luci della città, come esse scintillavano e poi di nuovo si
spegnevano. Alla fine, l’oscurità della notte regnò dappertutto. E lei
considerò il destino degli uomini, in cui le loro vite scintillano e poi si
estinguono. E pensò: “Come sono stata egoista nel mio dolore! La morte è
comune per tutti; in questa valle di lacrime però c’è un sentiero che
conduce all’immortalità chi ha eliminato ogni egoismo.”
Mettendo da parte l’egoismo del suo attaccamento per il suo bimbo, Kisa
Gotami aveva seppellito il corpo morto nella foresta. Ritornando dal Buddha,
prese rifugio in lui e trovò conforto nel Dharma, che è un balsamo che placa
tutti i dolori dei nostri cuori agitati.

Il Buddha le disse: “In questo mondo, la vita dei mortali è breve, agitata e
congiunta con il dolore. Perché qui non vi è alcun modo per cui quelli che
sono nati possano evitare di morire; dopo essere giunti alla vecchiaia c’è
la morte; di tale natura sono gli esseri viventi. Come i frutti maturi che
presto sono in procinto di cadere, così i mortali allorché nascono sono
sempre in pericolo di morte. Come tutti i vasi di terra fatti dal vasaio
finiscono con l’essere rotti, così è la vita dei mortali. Giovani ed adulti,
sia coloro che sono sciocchi sia coloro che sono saggi, tutti ricadono nel
potere della morte; tutti sono soggetti alla morte.

“Di coloro che sono catturati dalla morte e dipartono dalla vita, un padre
non può mai salvare suo figlio, né i parenti i loro congiunti. Mentre i
parenti sono in attesa e stanno profondamente lamentandosi, uno alla volta i
mortali vengono portati via, come buoi che sono condotti al macello. Così,
mentre il mondo è afflitto con morte e decadimento, i saggi non si
addolorano, conoscendo i termini del mondo. In ogni modo, le persone pensano
che una cosa passerà, e spesso essa è diversa quando accade, e grande è la
delusione; vedi, tali sono le regole del mondo.

“Non con il piangere né con l’addolorarsi, uno potrà ottenere la pace della
mente; al contrario, il suo dolore sarà più grande ed il suo corpo soffrirà.
Egli si ammalerà e diventerà pallido, però chi è morto non sarà salvato dai
suoi lamenti. Le persone passano via, ed il loro destino dopo la morte sarà
in conformità dei loro atti. Se un uomo vive cent’anni, o anche di più, alla
fine lui sarà comunque diviso dall’unione con i suoi parenti, e lascerà la
vita di questo mondo. Colui che cerca la pace, non deve estrarre la freccia
dei lamenti, lagnanze, e dolore. Colui che ha rinfoderato la freccia ed è
stato composto otterrà la pace della mente; colui che ha superato ogni
dolore diverrà libero dal dolore, e sarà Beato.”

CAMMINANDO SULL’ACQUA

A sud di Savatthi vi è un grande fiume, sulle cui rive c’è un piccolo
villaggio di cinquecento case. Così, pensando alla salvezza delle persone, l’onorato
dal Mondo decise di andare al villaggio e predicare la dottrina. Essendo
arrivato alla sponda, si sedette sotto un albero, e gli abitanti del
villaggio vedendo la gloria del suo aspetto, si avvicinarono con riverenza;
ma quando lui cominciò a predicare, essi dubitarono e non lo credettero.

Quando il Buddha onorato dal mondo aveva lasciato Savatthi, Sariputta sentì
il desiderio di vedere il Signore, e sentirlo predicare. Venendo al fiume
dove l’acqua era profonda e la corrente forte, egli pensò: “Questa corrente
non mi impedirà. Io andrò e vedrò il Beato”, e avanzò sull’acqua che sotto i
suoi piedi era ferma come una lastra di granito. Quando arrivò a metà del
fiume, in cui le onde erano alte, il cuore di Sariputta si perse, e lui
cominciò ad affondare. Ma ritrovando la sua fede e rinnovando il suo sforzo
mentale, lui procedè come prima ed arrivò all’altra riva.

Le persone del villaggio furono stupite nel vedere Sariputta, e chiesero
come lui poteva aver attraversato il fiume, in un punto in cui non c’erano
né un ponte né un traghetto. Sariputta rispose: “Io ho vissuto nell’ignoranza
finché non ho sentito la voce del Buddha. Siccome io ero ansioso di sentire
la dottrina della salvezza, io attraversai il fiume e camminai sulle sue
acque agitate, perché io avevo la fede. La fede, null’altro, mi permise di
fare così, ed ora io sono qui nella beatitudine della presenza del mio
Maestro”.

L’Onorato dal Mondo soggiunse: “Sariputta, tu hai parlato bene. Solo una
fede come la tua può salvare il mondo dalla voragine della migrazione e può
abilitare gli uomini per arrivare sani e salvi all’altra sponda.” Ed il
Beato esortò gli abitanti del villaggio alla necessità di andare sempre
avanti nel superamento del dolore e di eliminare tutti gli impedimenti come
pure di andar oltre il fiume della mondanità e di raggiungere la liberazione
dalla morte. Ascoltando le parole del Tathagata, gli abitanti del villaggio
furono riempiti di gioia e, adesso sì, credendo nella dottrina del Beato,
abbracciarono le cinque regole e presero rifugio nel suo nome.

IL BHIKKHU AMMALATO

Un vecchio bhikkhu di arcigna tendenza era afflitto da una malattia
disgustosa, la cui vista ed odore erano nausebondi, così che nessuno voleva
venirgli vicino, né lo aiutava nella sua angoscia. E accadde che l’Onorato
nel Mondo arrivò al vihara in cui stava lo sfortunato uomo; sapendo il
fatto, egli ordinò di preparare dell’acqua calda ed andò nella stanza
dell’ammalato per mitigare le piaghe del paziente con le sue proprie mani,
dicendo ai suoi discepoli:

“Il Tathagata è entrato nel mondo per aiutare i poveri, soccorrere gli
indifesi, curare coloro che sono nell’afflizione fisica, sia seguaci del
Dharma che increduli, dare la vista ai ciechi ed illuminare le menti degli
illusi, difendere i diritti degli orfani come pure degli anziani, e nel far
così dare un esempio agli altri. Questo è il completamento del suo lavoro, e
così egli raggiunge il grande scopo della vita, come i fiumi che si
annullano nell’oceano.”

L’Onorato nel Mondo ogni giorno presenziò al bhikkhu ammalato finché egli
stette in quel luogo. Ed il governatore della città venne dal Buddha a
fargli riverenza ed avendo sentito del servizio che il Signore faceva nel
vihara, chiese al Beato notizie sull’esistenza precedente del monaco
ammalato, e il Buddha disse:

“In tempi passati vi era un malvagio re che estorceva ai suoi sudditi tutto
ciò che poteva trovare; e lui ordinò ad uno dei suoi ufficiali di colpire
con frusta un uomo eminente. L’ufficiale, che non pensava al dolore che
infliggeva agli altri, obbedì; ma quando la vittima della collera del re lo
implorò di aver misericordia, lui sentì compassione e lo colpì con
delicatezza usando leggermente la frusta su di lui. Ora, il re rinacque come
Devadatta, che fu abbandonato da tutti i suoi seguaci perché loro non erano
più disposti a sostenere la sua cattiveria, mentre lui morì misero e pieno
di pentimento. L’ufficiale è questo bhikkhu ammalato che avendo spesso
offeso i suoi confratelli nel vihara, è stato lasciato senza assistenza
nella sua angoscia. Comunque, l’uomo eminente che fu colpito ingiustamente e
che implorò la sua misericordia era il Bodhisattva; lui è rinato come
Tathagata. Ora è la volta del Tathagata di aiutare l’ufficiale disgraziato
che ebbe misericordia di lui.”
E l’Onorato nel Mondo ripetè questi versi: “Colui che infligge il dolore sul
gentile, o falsamente accusa l’innocente, erediterà una delle dieci grandi
calamità. Ma colui che ha imparato a soffrire con pazienza sarà purificato e
sarà lo strumento eletto per il sollievo dalla sofferenza.”

Il bhikkhu ammalato nel sentire queste parole si girò verso il Buddha,
confessò il suo cattivo temperamento naturale e si pentì, e con il cuore
purificato dall’errore riverì il Signore.

L’ELEFANTE PAZIENTE

Mentre il Beato risiedeva nel Jetavana, c’era un capofamiglia che viveva a
Savatthi conosciuto da tutti i suoi vicini come paziente e gentile, ma i
suoi parenti erano malvagi e tramavano di derubarlo. Un giorno essi vennero
dal parente benestante e con delle minacce si portarono via una parte
cospicua della sua proprietà. Egli non li denunciò, né si lamentò, ma
tollerò con grande pazienza il male che aveva sofferto. I vicini
meravigliati cominciarono a parlare di questo caso, e le dicerie giunsero
alle orecchie dei confratelli nel monastero Jetavana. Mentre questi
discutevano l’avvenimento nella sala di riunione, arrivò il Beato il quale
chiese quale fosse il tema della conversazione. E loro glielo dissero.

Allora il Beato disse: “Verrà il tempo quando i malvagi parenti troveranno
la loro punizione. O Fratelli, questa non è la prima volta che questo
avvenimento ebbe luogo; è già accaduto prima”, e raccontò loro una storia
vecchia come il mondo: “Una volta, quando Brahmadatta era Re di Benares, il
Bodhisattva nacque come elefante nella regione dell’Himalaya. Lui crebbe
forte e grande, e vagò sulle colline e montagne, le vette e le caverne delle
tortuose foreste nelle valli. Una volta che lui vagava vide un piacevole
albero, e standovi sotto, prese il suo cibo. Allora delle scimmie
impertinenti scesero giù dall’albero, e saltando sull’elefante, l’insultarono
e lo tormentano grandemente; provocandolo gli presero le zanne, gli tirarono
la coda divertendosi, procurandogli molto fastidio. Il Bodhisattva, essendo
pieno di pazienza, gentilezza e misericordia, non dava conto di tutta questa
loro cattiva condotta, e le scimmie la ripetevano ancora e ancora.

“Un giorno, lo spirito che viveva proprio lì, stando nel tronco dell’albero,
volle dire all’elefante, ‘Mio caro elefante, perché sopporti l’impudenza di
queste scimmie?’ E gli pose la domanda in un distico, come segue:

“‘Perché pazientemente tu sopporti ogni capriccio
“Che queste scimmie dannose ed egoiste sfogano?’

“Il Bodhisattva rispose, ‘O Spirito dell’albero, se io non fossi capace di
sopportare il cattivo trattamento di queste scimmie senza offendere la loro
nascita, lignaggio e persone, come potrei percorrere l’Ottuplice Nobile
Sentiero? Queste scimmie farebbero le stesse cose ad altri, ritenendoli come
me. Se lo fanno a qualche altro elefante vagabondo, quello le castigherebbe
davvero, ed io sarei liberato sia dalla loro seccatura che dalla colpa di
aver fatto danno ad altri’. Questo egli lo disse ripetendo un’altra strofa:

“Se esse tratteranno qualcun altro come me,
“Costui le distruggerà; ed io sarò libero.’

“Alcuni giorni dopo, il Bodhisattva andò altrove, ed un altro elefante, una
bestia selvaggia, arrivò e se ne stette in quel luogo. Le scimmie malvagie
pensando che lui fosse come il vecchio elefante, salirono sulla sua schiena
e fecero come prima. L’elefante vagabondo afferrò le scimmie con la
proboscide, le gettò a terra, le azzannò con le zanne e le calpestò come
carne tritata sotto i suoi piedi.”

Quando il Maestro ebbe finito questo insegnamento, dichiarò il vero,
identificando le nascite, dicendo: “A quel tempo, le dannose scimmie erano i
parenti malvagi del buon uomo, l’elefante vagabondo era quello che poi li
castigherà, ma l’elefante nobile e virtuoso era il Tathagata stesso in una
sua incarnazione precedente”.

Dopo questo discorso uno dei confratelli si alzò e chiese il permesso di
fare una domanda e quando il permesso fu accordato, lui disse: “Io ho
sentito la dottrina che il male verrebbe ripagato con il male, e chi fa il
male, dovendo poi soffrire, dovrebbe controllarsi, perché se ciò non fosse
fatto il male aumenterebbe ed il bene scomparirebbe. Cosa dobbiamo fare?” Il
Beato disse: “Nulla, io vi dirò che voi lascerete il mondo e adotterete
questa gloriosa fede di accantonare l’egoismo, voi non ripagherete il male
con il male, né l’odio con l’odio. Non dovete pensare che si possa
distruggere il male ripagando il male con il male, perché così il male
aumenterà. Lasciate i malvagi al loro destino ed i loro cattivi atti prima o
poi, in un modo o nell’altro, procureranno la loro stessa punizione!”.

Ed il Tathagata ripetè queste strofe:
“Chi danneggia l’uomo che non fa danno,
“O colpisce colui che non lo colpisce,
“Prima o poi incorrerà in una punizione
“Che la sua propria cattiveria generò, –
“Uno dei malanni più gravi nella vita,
“O una malattia temuta e disgustosa,
“O una vecchiaia triste, o perdita di memoria,
“O un dolore disgraziato che non cesserà,
“O una guerra, un disastro, perdita di ricchezza;
“O nella sua propria famiglia, egli potrà
“Veder morire una persona che gli è cara,
“E poi, alla fine, egli rinascerà negli inferni!.”

DISCORSI DEGLI ULTIMI GIORNI

Una volta, quando il Beato si trovava su un monte chiamato Picco
dell’Avvoltoio, vicino Rajagraha, Ajatasattu re di Magadha, che regnava al
posto di Bimbisara, progettò un attacco contro i Vajji, e lui disse a
Vassakara, il suo primo ministro: “Io sradicherò i Vajji, per quanto essi
siano potenti. Io distruggerò i Vajji; Io li porterò alla rovina! Ora vieni,
O Brahmano, e va dal Beato; a mio nome chiedigli della sua salute, e digli
il mio scopo. Tieni presente con molta attenzione ciò che il Beato dirà, e
ripetimelo, perché il Buddha non dice niente che sia falso.”

Quando Vassakara, il primo ministro, ebbe salutato il Beato e consegnato la
sua comunicazione, il Venerabile Ananda stava dietro al Beato e gli faceva
vento, ed il Beato gli disse: “Hai mai sentito, Ananda, che i Vajji tengano
frequenti e affollate assemblee pubbliche?” Egli rispose, “Si, Signore, io
così ho sentito.”

Il Beato disse, “Ananda, finché i Vajji tengono queste affollate e frequenti
riunioni pubbliche, essi potrebbero aspettarsi non di decadere, ma semmai di
prosperare. Finché essi si incontrano insieme in concordia, finché essi
onorano i loro anziani, finché essi rispettano le donne, finché essi restano
religiosi, compiendo tutti i riti corretti, finché essi mantengono una
giusta protezione, difesa e sostegno ai santi, i Vajjis possono aspettarsi
non di declinare, ma di prosperare!”. Allora il Beato si rivolse a Vassakara
e disse: “O Brahmano, quando stavo a Vesali, io ho insegnato ai Vajji queste
regole di buon comportamento, i quali finché resteranno così ben istruiti,
finché si manterranno nel sentiero corretto, finché essi vivranno secondo i
precetti della rettitudine, noi potremmo aspettarci che essi non degenerino,
ma prosperino”.

Appena il messaggero del re se ne fu andato, il Beato radunò nella sala dei
servizi tutti i confratelli che erano nei dintorni di Rajagraha, e si
rivolse loro dicendo: “Io vi insegnerò, O bhikkhu, le regole di buon
comportamento di una comunità. Ascoltatemi bene, ed io parlerò.

“Finché, O bhikkhu, i fratelli tengono frequenti e affollate riunioni,
incontrandosi in concordia, alzandosi in concordia, e in concordia facendo
attenzione agli affari del Sangha; finchè, O bhikkhu, essi non rifiutano ciò
che l’esperienza ha provato che sia bene, e non fanno niente che non sia
stato attentamente esaminato prima; finché gli anziani praticano la
giustizia; finché i fratelli li stimano, li riveriscono, e li sostengono, e
credono alle loro parole; finché i fratelli non sono sotto l’influenza della
bramosia, ma si dilettano nelle opere religiose, così che uomini buoni e
santi verranno da loro e dimoreranno in quiete fra di loro; finchè i
fratelli non saranno nauseati dell’accidia e dell’ozio; finché i fratelli
eserciteranno loro nella settuplice suprema saggezza delle attività mentali,
che sono ricerca della verità, energia, autocontrollo, gioia, modestia,
seria contemplazione, ed equanimità di mente, così a lungo il Sangha si può
aspettare di prosperare. Perciò, O bhikkhu, siate pieni di fede, modesti nel
cuore, impauriti dal peccato, ansiosi di imparare, forti nella energia,
attivi nella mente, e colmi di saggezza.

LA FEDE DI SARIPUTTA

Il Beato procedeva verso Nalanda in compagnia di molti confratelli; e lì
giunto, si fermò in un boschetto di manghi. Ora il Venerabile Sariputta
venne dove stava il Beato, e avendolo salutato, si sedette rispettosamente
al suo lato, e disse: “O mio Signore! tale è la fede che io ho nel Beato,
che io credo non ci sia mai stato, né mai ci sarà, qualcun altro che sia più
grande o più saggio del Beato, il che è come dire che egli è la suprema
saggezza!”

Il Beato rispose: “Grandi e balde sono le parole uscite dalla tua bocca,
Sariputta: invero, tu sei andato in estasi! Di certo, poi, tu sapevi di
tutti i Beati che nei lunghi secoli del passato sono stati santi Buddha?”
“Ma non come te, O Signore!”, disse ancora Sariputta.

Ed il Signore continuò: “Allora tu hai percepito anche tutti i Beati che nei
lunghi secoli futuri saranno santi Buddha?” “Si, ma non come te, O Signore!”

“Ma poi almeno, O Sariputta, tu mi conosci come il santo Buddha che vive
ora, e hai penetrato la mia mente!” “No, questo no, O Signore!”

“E allora, Sariputta, vedi che tu non conosci i cuori dei santi Buddha del
passato, né di quelli del futuro. Perché, dunque, le tue parole sono così
grandi e balde? Perché sei andato così in estasi?”

“O Signore! Io non ho la conoscenza dei cuori di tutti i Buddha che vi sono
stati, vi sono ora, e sono da venire. Io conosco solamente il lignaggio
della fede. Proprio come un re, Signore, che ha una città di confine, forte
nelle sue fondamenta, forte nei suoi bastioni, e con una sola porta; e il re
può avere là un sorvegliante, intelligente, esperto e saggio, per fermare
tutti gli estranei ed ammettere solo gli amici. E controllando chiunque si
avvicini alla città, egli può non essere capace di conoscere tutte le
giunture e le crepe che vi sono nei bastioni di quella città, come pure
sapere dove una creatura piccola come un gatto potrebbe uscire. Va bene.
Però, tutti gli esseri viventi di taglia più grande che entrano o escono
dalla città, devono passare attraverso quella porta. E’ solo così, O
Signore, che io conosco il lignaggio della fede. Io so che i santi Buddha
del passato, eliminando ogni brama e concupiscenza, malevolenza, accidia,
orgoglio, e dubbi, ben conoscendo tutti i difetti mentali che rendono deboli
gli uomini, ben addestrando le loro menti nei quattro tipi di attività
mentale, esercitandosi totalmente nella settuplice suprema saggezza,
ottennero la piena fruizione dell’Illuminazione. Ed anche so che i santi
Buddha del futuro faranno lo stesso. Ed io so che il Beato, il santo Buddha
di oggi, ora così ha fatto”.

“Grande è la tua fede, O Sariputta” rispose il Beato, “ma stai attento che
sia ben radicata!”.

LA VISITA A PATALIPUTTA

Quando il Beato si trovava a Nalanda, decise con comodo di andare a
Pataliputta, la città di frontiera di Magadha; e quando i discepoli
sentirono del suo arrivo a Pataliputta, essi lo invitarono al loro rifugio
nel villaggio. Ed il Beato si vestì, prese la sua ciotola ed andò con i
fratelli nella loro casa. Là lui si lavò i piedi, entrò nella sala, e si
sedette contro il pilastro centrale, con il viso verso l’est. Anche i
fratelli si lavarono i piedi, entrarono nella sala, e presero posto tutt’intorno
al Beato, contro il muro occidentale difronte all’est. E i devoti laici di
Pataliputta, avendo anch’essi lavato i loro piedi, entrarono nella sala, e
si sedettero di fronte al Beato contro il muro orientale, rivolti verso
ovest.

Poi il Beato si rivolse verso i discepoli laici di Pataliputta, e disse: “O
capifamiglia, cinque sono le punizioni del peccatore, a causa della sua
mancanza di rettitudine. In primis, il peccatore privo di rettitudine
precipita in una grande povertà per colpa dell’accidia; secondo, la sua
cattiva reputazione è divulgata all’esterno; in terzo luogo, qualunque
compagnia frequenti, sia di Brahmani, nobili, samana o capifamiglia, egli vi
entra timidamente e confusamente; quarto, è pieno di ansia e paure quando
lui muore; e in ultimo, alla dissoluzione del corpo dopo la morte, la sua
mente rimane in uno stato di infelicità. Dovunque il suo karma prosegua, là
egli avrà sofferenze e dolore. Questa, o capifamiglia, è la quintuplice
perdita di chi fa il male!

“E cinque, O capifamiglia, sono i vantaggi di chi fa il bene attraverso la
sua pratica della rettitudine. In primo luogo, chi fa il bene, forte nella
rettitudine, acquisisce proprietà attraverso il suo darsi da fare; secondo,
i suoi buoni rapporti sono estesi all’esterno; in terzo luogo, qualunque
compagnia frequenti, sia Brahmani, nobili, capifamiglia o membri
dell’ordine, egli vi entra con fiducia e padronanza di sé; quarto, egli
muore senza ansia e paure; e infine, nella dissoluzione del corpo dopo la
morte, la sua mente rimane in un stato felice. Dovunque il suo karma
continui, ci saranno beatitudine paradisiaca e pace. Questo, o capifamiglia,
è il quintuplice guadagno di chi fa il bene”.

Quando il Beato durante la notte ebbe dato questi insegnamenti ai discepoli,
avendoli incitati, stimolati, e allietati con esempi religiosi, lui li
congedò, dicendo, “La notte è ormai passata, O capifamiglia. È ora per voi
di fare ciò che ritenete il più adatto.”

“Sia fatta la tua volontà, Signore!” risposero i discepoli di Pataliputta, e
alzandosi dai loro posti, si inchinarono al Beato, e dandogli la mano destra
nel passargli accanto, essi partirono da lì.

Mentre il Beato stava a Pataliputta, il re di Magadha inviò un messaggero al
governatore di Pataliputta per elevare fortificazioni per la sicurezza della
città. Il Beato, nel vedere coloro che lavoravano, predisse la futura
grandezza del luogo, dicendo: “Gli uomini che costruiscono la fortezza
agiscono come se loro avessero consultato i poteri più alti. Perché questa
città di Pataliputta sarà un luogo di dimora di uomini interessanti ed un
centro per lo scambio di qualsiasi tipo di beni. Ma tre pericoli pendono su
Pataliputta, quello del fuoco, quello dell’acqua, e quello del dissenso.”

Quando il governatore seppe della profezia sul futuro di Pataliputta, si
allietò molto e chiamò la porta della città, che il Buddha aveva superato
verso il fiume Gange, “La Porta di Gotama”. Nel frattempo le persone che
vivevano sulle rive del Gange arrivarono in gran quantità per riverire il
Signore del mondo; e molta gente gli chiese di farle l’onore di salire sulle
loro barche. Ma il Beato in considerazione del numero di barche e della loro
bellezza non volle mostrare alcuna parzialità, con l’accettare l’invito di
uno per offendere tutti gli altri. Egli attraversò perciò il fiume senza
nessuna barca, significando con ciò che le zattere dell’ascetismo e le
gondole fastose delle cerimonie religiose non erano abbastanza affidabili
per superare le tempeste del samsara, mentre il Tathagata può camminare a
piedi asciutti sull’oceano della mondanità. E come la Porta della città era
stata chiamata con il nome del Tathagata, così questo guado del fiume fu
chiamato dalla gente “Il Passaggio Gotama”.

LO SPECCHIO DELLA VERITÀ

Il Beato procedeva verso il villaggio Nadika con un gran seguito di
confratelli e là giunto, egli si fermò nella Sala di Mattoni. E il
Venerabile Ananda andò dal Beato e menzionandogli i nomi dei fratelli e
sorelle che erano morti, chiese ansiosamente del loro destino dopo la morte,
se loro erano rinati come animali o negli inferni, o come fantasmi, o in un
qualche luogo di dolore.

Il Beato rispose ad Ananda dicendo: “Coloro che sono morti dopo aver
completa-mente distrutto i tre vincoli di concupiscenza, bramosia e
egoistico attaccamento all’esistenza, non avranno bisogno di temere lo stato
dopo la morte. Per essi non vi sarà rinascita in uno stato di sofferenza; la
loro mente non avrà un continuum di karma come cattive azioni o peccati, ma
sarà sicura della salvezza finale.

“Quando essi muoiono, nulla rimarrà di loro se non i loro buoni pensieri, le
loro rette azioni, e la beatitudine che proviene dalla verità e dalla
rettitudine. Come i fiumi emissari che alla fine devono confluire nel
distante fiume principale, così le loro menti rinasceranno in più alti stati
di esistenza e continueranno ad essere spinte verso la loro ultima mèta, che
è l’oceano della verità, la pace eterna del Nirvana. Gli uomini, o Ananda,
sono ansiosi e preoccupati per la loro morte ed il loro destino dopo la
morte; ma considera che non è del tutto strano che un essere umano debba
morire. Tuttavia, che tu voglia sapere di essi, e avendo sentito la verità,
essere ancora ansioso riguardo ai morti, questo è faticoso per il Beato. Io,
perciò, voglio insegnarti lo specchio della verità e lasciare che il
discepolo fedele la ripeta:
“Per me, l’inferno è distrutto, ed anche la rinascita come animale, o un
fantasma, o in qualsiasi luogo di dolore. Io sono convertito; Io non sono
più responsabile per rinascere in uno stato di sofferenza, e sono sicuro
della salvezza finale.’

“Cos’è, allora, questo specchio della verità, o Ananda? Esso è la coscienza,
che in questo mondo il discepolo eletto possiede con la fede nel Buddha,
credendo che il Beato sia il Santo, Colui che è Pienamente-Illuminato,
saggio, onesto, felice, il supremo Conoscitore del mondo, Colui che tiene a
freno i caparbi cuori degli uomini, l’Insegnante di dèi ed uomini, il Buddha
Beato. Inoltre, esso è la coscienza che il discepolo possiede con la fede
nella verità del Dharma, credendo che la verità sia stata proclamata dal
Beato, per il beneficio del mondo, che non passa mai via, con un benvenuto a
tutti, che conduce alla salvezza che il saggio otterrà attraverso la verità,
ognuno con i suoi propri sforzi.

“E, infine, esso è la coscienza che il discepolo possiede con la fede
nell’ordine del Sangha, credendo nell’efficacia di un’unione fra quegli
uomini e donne che sono ansiosi di percorrere l’Ottuplice Nobile Sentiero;
credendo in questa chiesa retta, onesta e giusta del Buddha, dimorando nella
legge, essendo degno di onore, di ospitalità, di doni e di riverenza; di
essere il supremo terreno di merito per il mondo; amante del bene, di essere
in possesso delle virtù, di virtù immacolate, incorrotte, intatte, e senza
macchia, virtù che fanno gli uomini veramente liberi, virtù che sono lodate
dai saggi e non sono macchiate da desideri di scopi egoisti, sia ora che in
una vita futura, o dalla credenza nell’efficacia di atti esterni, e che
portano ad un elevato e santo pensiero. Questo è lo specchio della verità
che insegna il modo più diretto per l’Illuminazione, che è la mèta comune di
tutte le creature viventi. Colui che possiede lo specchio della verità è
libero da paura; egli troverà conforto nelle tribolazioni della vita, e la
sua vita sarà una benedizione per tutte le creature individuali”.

LA CORTIGIANA AMBAPALI

Dopodiché il Beato si diresse a Vesali con un gran seguito di confratelli, e
si fermò nel boschetto della cortigiana Ambapali. Egli disse ai fratelli: “O
bhikkhu, che ogni fratello, mentre è nel mondo, sia attento e riflessivo.
Che sia capace di superare il dolore che sorge dai desideri del corpo, dalla
brama delle sensazioni e dagli errori dei ragionamenti errati. Qualunque
cosa facciate, agite sempre in piena presenza mentale. Siate riflessivi nel
mangiare e nel bere, camminando o stando in piedi, dormendo o essendo
svegli, parlando o stando in silenzio”.

Quando la cortigiana Ambapali seppe che il Beato stava nel suo bosco di
manghi, fu molto contenta ed volle andare da lui in carrozza, almeno finché
la strada era praticabile. Quindi, scese e a piedi procedette verso il luogo
dove era il Beato. Poi si sedette rispettosamente su un lato ai suoi piedi.
Ella appariva come una donna prudente che sapeva compiere i suoi doveri
religiosi, in un vestito semplice senza ornamenti, seppur bello da vedere.
Il Beato pensò: “Questa donna si muove in ambienti mondani ed è una favorita
di re e principi; eppure è calma e composta di cuore. Anche se giovane,
ricca e circondata da piaceri, lei è riflessiva e costante. Ciò, è davvero
raro nel mondo. Le donne, come regola, non sono molto sagge e sono
profondamente immerse nella vanità; ma lei, anche se vive nel lusso, ha
acquisito la saggezza di un maestro, sente compassione e pietà, ed è in
grado di conoscere la verità nella sua interezza.”

Quando lei si fu seduta, il Beato la istruì, la stimolò e l’allietò con il
Dharma. Come lei ascoltò la legge, il suo volto si illuminò di delizia. Poi
lei si alzò e disse al Beato: “Il Beato mi farà l’onore di prendere il suo
pasto, insieme con i fratelli, a casa mia domani?” Ed il Beato, con il
silenzio, diede il suo beneplacito.
Ora, i Licchavi, una ricca famiglia di rango principesco, che avevano saputo
che il Beato era a Vesali e stava nel boschetto di Ambapali, montarono sulle
loro magni-fiche carrozze, e arrivarono col loro seguito al luogo dove era
il Beato. I Licchavi erano vestiti splendidamente con brillanti colori e
decorati con preziosi gioielli. Ed Ambapali guidò la sua carrozza contro il
giovane Licchavi, asse contro asse, ruota contro ruota, ed il Licchavi disse
ad Ambapali, la cortigiana: “Come mai, Ambapali, stai venendo così contro di
noi?”

“Signori miei” disse lei, “io ho appena invitato il Beato ed i suoi fratelli
per il loro pasto di domani”. Ed i principi replicarono: “Ambapali! Dai la
possibilità di questo pasto a noi per centomila monete”

“Signori miei, anche se mi offriste tutta Vesali col territorio, io non
perderei mai un così grande onore!”

Allora i Licchavi proseguirono fino al boschetto di Ambapali. Quando il
Beato vide in distanza i Licchavi che si avvicinavano, si rivolse ai
fratelli, e disse: “O Fratelli, coloro di voi che non hanno mai visto gli
dèi, osservino la carovana dei Licchavi, perché essi sono vestiti
splendidamente, come immortali.”

E quando questi giunsero nel punto in cui la strada non era più praticabile
per i carri, i Licchavi smontarono ed andarono a piedi verso il luogo dove
era il Beato, sedendosi poi rispettosamente al suo fianco. E quando si
furono seduti, il Beato li istruì, li stimolò e li allietò con il Dharma.
Poi essi si rivolsero al Beato e dissero: “Il Beato ci farà l’onore di
prendere domani il suo pasto, insieme con i suoi fratelli, al nostro
palazzo?”

“O Licchavi”, disse il Beato, “io ho già promesso di cenare domani con
Ambapali, la cortigiana”. Allora i Licchavi, esprimendo la loro approvazione
per le parole del Beato, si alzarono dai loro posti e si prostrarono di
fronte al Beato e, dandogli la loro mano destra nel passare, partirono da
lì; ma quando essi arrivarono a casa, alzarono le mani, dicendo: “Una donna
mondana ci ha superati; noi siamo stati scalzati da una frivola ragazza!”

Durante la notte, la cortigiana Ambapali, fece preparare in casa sua riso
dolce e torte, e il giorno dopo mandò un messaggero dal Beato, a dirgli,
“Signore, l’ora è venuta, ed il pasto è pronto!” Ed il Beato di mattina
presto si vestì, prese la sua ciotola, ed andò con i fratelli al luogo dove
era l’abitazione di Ambapali; e quando vi giunsero furono fatti sedere sui
posti preparati per loro. Ambapali, la cortigiana, sistemò in ordine il riso
dolce e torte, col Buddha in testa, ed aspettò finché essi non rifiutarono
di prenderne più.

Quando il Beato ebbe finito il pasto, la cortigiana fece portare un basso
sgabello, si sedette al suo fianco e, rivolgendosi al Beato, disse:
“Signore, io offro questa casa all’ordine di bhikkhu di cui il Buddha è il
capo.” Ed il Beato accettò il dono; e dopo averla istruita, risvegliata, e
allietata con il Dharma, lui si alzò dal suo posto e partì da lì.

L’ADDIO DEL BUDDHA

Il Beato era rimasto nel boschetto di Ambapali finché ne ebbe desiderio,
allorché lui andò poi a Beluva, vicino Vesali. Là, il Beato si rivolse ai
fratelli, e disse: “O Mendicanti, prendete dimora qui intorno a Vesali per
la stagione piovosa, ognuno nel luogo dove i suoi amici e compagni possano
vivere vicini. Io nella stagione piovosa starò qui a Beluva.”

Quando il Beato se ne stava là nella stagione piovosa, su di lui arrivò una
malattia atroce e gli vennero acuti dolori fin quasi a morirne. Ma il Beato,
attento e calmo, sopportò le sue indisposizioni senza lamentarsi. Poi, al
Beato arrivò questo pensiero: “Non sarebbe giusto andarmene dalla vita senza
rivolgermi ai miei discepoli, senza prendere commiato dall’ordine. Con un
grande sforzo di volontà, ora soggiogherò questa malattia, e mi manterrò in
vita finché arriverà il tempo assegnato”. Ed il Beato, con un grande sforzo
di volontà, soggiogò la malattia, e si mantenne in vita fino a momento in
cui egli aveva deciso che sarebbe venuto. E la malattia diminuì.

E così il Beato cominciò a recuperare; e quando lui si fu completamente
rimesso dalla malattia, uscì dal monastero, e si sedette su una sedia fuori
all’aria aperta. E il Venerabile Ananda, accompagnato da molti altri
discepoli, si avvicinò dove era il Beato, lo salutò, e sedendosi
rispettosamente su un lato, disse: “Signore, io ho visto come il Beato fosse
in salute, ed ho visto come il Beato dovette poi soffrire. E sebbene alla
vista della malattia del Beato il mio corpo divenisse debole come un verme,
e per me l’orizzonte divenisse fioco, e le mie facoltà non fossero più
chiare, tuttavia io ebbi un po’ di conforto pensando che il Beato non
avrebbe potuto lasciare l’esistenza, almeno finché non avesse lasciato
istruzioni su come mantenere l’ordine.”

Il Beato, riguardo all’ordine, si rivolse ad Ananda dicendo: “Cosa, poi
Ananda, l’ordine si aspetta da me? Io ho predicato la verità senza fare
alcuna distinzione tra dottrina nascosta o rivelata; perché il Tathagata,
nel rispetto della verità, non ha il pugno chiuso di un maestro che tiene
delle cose nascoste.

“Di sicuro, Ananda, ci sarà qualcuno che alimenta il pensiero, “Sarò io
colui che condurrà il Sangha’, o, ‘L’ordine dipenderà da me!’, e costui
dovrebbe depositare le istruzioni senza questioni riguardo all’ordine. Ora,
Ananda, il Tathagata non pensa chi possa essere colui che dovrebbe condurre
la fratellanza, o se c’è chi crede che l’ordine debba dipendere da lui.
Perché, poi, i Tathagata dovrebbero lasciare istruzioni di qualche genere
riguardo all’ordine?

“Io ora sono diventato vecchio, O Ananda, e pieno di anni; il mio viaggio
sta per finire, io sono giunto alla fine dei miei giorni, e sto arrivando
agli ottanta anni. Proprio come un carro disfatto non può essere mosso per
fare lunghi viaggi senza difficoltà, così il corpo del Tathagata può
continuare ad andare soltanto con molte cure supplementari. O Ananda, è solo
quando il Tathagata, cessando di prestare attenzione a qualunque cosa
esterna, si immerge in quella debita meditazione di cuore in cui non è
interessato ad alcun oggetto fisico, è solo allora che il corpo del
Tathagata si trova a suo agio.

“Perciò, O Ananda, siate luci a voi stessi. Contate su di voi stessi, e non
fate alcun affidamento sull’aiuto esterno. Tenete stretta la verità come una
lampada. Cercate la salvezza solo nella verità. Non cercate appoggio in
nessuno se non in voi stessi.

“E come, Ananda, un fratello può essere una lampada per sé, contare
solamente su se-stesso e non su alcun aiuto esterno, tenendo stretta la
verità come la sua propria lampada e cercando la salvezza solo nella verità,
non cercando appoggio in nessun altro se non in se-stesso? Ecco, O Ananda,
quando un fratello indulge nel corpo, osserva il corpo così che lui, essendo
strenuo, riflessivo, ed attento, possa, stando nel mondo, superare il dolore
che sorge dall’attaccamento al corpo. Mentre è soggetto alle sensazioni
dovrà continuare a osservare le sensazioni, così che lui, essendo strenuo,
riflessivo, ed attento, stando nel mondo, superi il dolore che sorge dalle
sensazioni. E cosippure, quando lui pensa o ragiona, o sente, ben osservi i
suoi pensieri, così che essendo strenuo, riflessivo ed attento, lui può,
stando nel mondo, superare il dolore che sorge dall’attaccamento al
pensiero, alle idee, ai ragionamenti, o alle sensazioni.

“Quelli che, sia ora che dopo la mia morte, saranno luci per se-stessi,
contando solo su se-stessi e non facendo affidamento su alcun aiuto esterno,
ma tenendo stretta la verità come loro lampada, e cercando la loro salvezza
solo nella verità, e non cercando appoggio in nessun altro se non in
loro-stessi, sono essi, Ananda, tra i miei bhikkhu, quelli che
raggiungeranno la suprema altezza! Ma essi devono essere ansiosi di
imparare.”

IL BUDDHA ANNUNCIA LA SUA MORTE

Il Tathagata disse ad Ananda: “O Ananda, in passato Mara il Maligno si
avvicinò tre volte al santo Buddha per tentarlo. Ed oggi, Ananda, egli è
venuto di nuovo nel luogo dove stavo, e, standomi davanti, mi apostrofò con
le stesse parole come fece quando io stavo sotto l’albero del pastore di
Nigrodha sulla riva del Fiume di Neranjara: ‘Salute a te, o Santo. Tu hai
raggiunto la suprema beatitudine ed è ora per te di entrare nel Nirvana
finale’. – E quando Mara ebbe così parlato, Ananda, io gli risposi e dissi:
‘Sta tranquillo, O malvagio; l’estinzione finale del Tathagata avverrà fra
non molto”.

Il venerabile Ananda si rivolse al Beato e disse: “O Signore Benedetto,
degnati di rimanere con noi, per il bene e la felicità delle masse, per
compassione verso il mondo, per il benessere di tutta l’umanità!” Il Beato
replicò: “Basta ora, Ananda, non implorare il Tathagata!”

E ancora, una seconda volta, il venerabile Ananda implorò il Beato con le
stesse parole. E ricevette dal Beato la stessa replica. E di nuovo, una
terza volta, Ananda implorò il Beato per continuare a vivere; ed il Beato
disse: “Hai fede, Ananda?” Ananda disse: “Certo che ce l’ho, mio Signore!”

Il Beato, vedendo le palpebre tremanti di Ananda, lesse il profondo dolore
nel cuore del suo adorato discepolo, e di nuovo gli chiese: “Hai davvero
fede, tu, o Ananda?” E Ananda disse: “Io ho fede, o mio Signore.”

Allora il Beato continuò: “Se tu, Ananda, hai fede nella saggezza del
Tathagata perché, allora, Ananda, hai insistito con il Tathagata fino a tre
volte? Non ti ho io dichiarato in precedenza che è nella vera natura di
tutte le cose composte che esse devono dissolversi ancora? Noi dobbiamo
separarci da tutte le cose prossime e a noi care, e dobbiamo lasciarle.
Allora, Ananda, come può essere possibile per me rimanere, se tutto quello
che è nato, o entrato in essere, ed organizzato, contiene dentro di sé l’obbligo
inerente della dissoluzione? Dunque, come può essere possibile poi che
questo mio corpo non dovrebbe dissolversi? Una simile condizione non può
sussistere! Questa esistenza mortale, O Ananda, a cui bisogna rinunciare, è
stata lasciata andare, gettata via, rifiutata, ed abbandonata anche dal
Tathagata.”

E il Beato disse inoltre ad Ananda: “Ora vai, Ananda, e fai radunare nella
Sala di Servizio quei fratelli che risiedono nei dintorni di Vesali.”

Poi il Beato si diresse verso la Sala di Servizio, e si sedette sul cuscino
di stuoia approntato per lui. E quando si fu seduto, il Beato si rivolse ai
confratelli, e disse:

“O Fratelli, coloro ai quali la verità è stata resa nota, essendo voi
stessi diventati totalmente maestri di verità, praticatela, meditate su di
essa, e diffondetela tutto intorno, così che il puro Dharma possa durare
molto e perpetuarsi, perché possa continuare per il bene e la felicità delle
masse, per pietà verso il mondo, e per il benessere di tutti gli esseri
viventi! L’astrologia e lo studio delle stelle, il prevedere eventi
fortunati o sfortunati in base a dei segnali, il pronosticare il bene o il
male, tutte queste cose sono vietate. Colui che lascia che il suo cuore
cerchi di sfogarsi senza limiti, non raggiungerà il Nirvana; perciò, noi
dobbiamo tenere il cuore sotto controllo, evitare eccitamenti mondani e
cercare la tranquillità di mente. Mangiate il vostro cibo per soddisfare la
fame, e bevete per soddisfare la sete. Si soddisfino le necessità della
vita, come la farfalla che centellina il fiore, senza distruggere la sua
fragranza o la sua struttura. Non è attraverso la comprensione delle quattro
nobili verità, O fratelli, che noi per così tanto tempo eravamo andati fuori
strada e vagando in questo triste sentiero di trasmigrazioni, voi ed io,
finché non abbiamo trovato la verità. Praticate le meditazioni serie che io
vi ho insegnato. Continuate la grande lotta contro il peccato. Camminate
stabilmente nelle vie della santità. Siate forti nei poteri morali. Lasciate
che gli organi del vostro senso spirituale siano rapidi e diretti. Quando le
sette modalità della saggezza illumineranno la vostra mente, voi troverete l’Ottuplice
Nobile Sentiero che conduce al Nirvana.

“Vedete, O fratelli, l’estinzione finale del Tathagata avrà luogo fra non
molto. Ora io vi esorto, dicendo: ‘Tutte le cose composte devono invecchiare
e poi dissolversi di nuovo. Cercate dunque Ciò che è permanente, e lavorate
per la vostra salvezza con molta diligenza.”

CHUNDA, IL FABBRO

Il Beato andò a Pava. Quando Chunda, il fabbro, sentì che il Beato era
venuto a Pava e stava nel boschetto di manghi, egli andò dal Buddha e
rispettosamente lo invitò con i suoi confratelli a prendere il loro pasto a
casa sua. E Chunda preparò torte di riso ed un piatto di carne di verro
essiccato.

Quando il Beato ebbe mangiato il cibo preparato da Chunda, gli venne un
acuto dolore, finché non giunse anche un’atroce malattia mortale. Ma il
Beato, attento, consapevole e calmo, la sopportò senza lamentarsene. Ed il
Beato si rivolse al Venerabile l’Ananda, dicendo: “Vieni, Ananda, andiamo
insieme a Kusinara.”

Durante il cammino, il Beato si stancò, e mettendosi da un lato della strada
ai piedi di un albero, disse: “Ti prego, Ananda, piegami il manto e stendilo
fuori per me. Io sono stanco, Ananda, e devo riposare un pò!” “Sarà fatto,
Signore!” disse il venerabile Ananda; e stese fuori il mantello piegato in
quattro. Il Beato si sedette, e quando si fu seduto apostrofò così il
venerabile Ananda: “Portami dell’acqua, ti prego, Ananda. Io ho sete,
Ananda, e berrei volentieri.”

Dopo che egli ebbe così detto, il venerabile Ananda disse al Beato: “Ma,
Signore, proprio ora cinquecento carri sono passati attraverso il ruscello e
hanno mescolato l’acqua; ma Signore, c’è un fiume non lontano da qui. La sua
acqua è chiara e piacevole, fresca e trasparente, ed è facile arrivare fin
lì. il Beato potrà bere acqua e rinfrescare le sue membra”.

Il Beato apostrofò una seconda volta il venerabile Ananda, dicendo: “Portami
dell’acqua, ti prego, Ananda. Io ho sete, Ananda, e berrei volentieri.”

Ed una seconda volta il venerabile Ananda rtispose: “Su, andiamo al fiume!”

Allora il Beato si rivolse al venerabile Ananda per la terza volta, e disse:
“Portami dell’acqua, ti prego, Ananda. Io ho sete, Ananda, e berrei
volentieri.” “Sarà fatto, Signore!” disse Ananda obbedendo al Beato; e,
prendendo una ciotola, andò giù verso il ruscello. Ed ecco! Le acque del
ruscelletto che, scombussolate dalle ruote, erano diventate fangose, quando
il venerabile Ananda arrivò ad esse, fluivano in modo chiaro e brillante, e
libere da ogni torbidezza. E egli pensò: “Che meraviglia! Com’è meraviglioso
e grande il potere del Tathagata!”

Ananda portò l’acqua nella ciotola al Signore, dicendo: “Che il Beato prenda
la ciotola e beva felice l’acqua. Che il Maestro di uomini e dèi estingua la
sua sete”. Allora il Beato bevve l’acqua.

Ora, in quel momento, un uomo di bassa casta, un giovane Malla discepolo di
Alara Kalama, chiamato Pukkusa, stava passando lungo la strada alta da
Kusinara a Pava. Pukkusa, il giovane Malla, vide il Beato seduto ai piedi di
un albero. Nel vederlo, egli salì sul luogo dove era il Beato, e quando fu
ivi giunto, salutò il Beato e si sedette rispettosamente al suo lato. Allora
il Beato istruì, stimolò ed allietò Pukkusa, il giovane Malla, con un
discorso religioso.

Risvegliato ed allietato dalle parole del Beato, Pukkusa, il giovane Malla,
si rivolse ad un uomo che stava casualmente passando di là, e disse: “Buon
uomo, ti prego, procurami due mantelli di stoffa di oro brunito e pronti per
l’uso.”

“Così sia, signore!” disse quell’uomo obbedendo a Pukkusa, il giovane Malla;
e lui portò due mantelli di stoffa di oro brunito e pronti per l’uso.

Pukkusa, il giovane Malla, presentò al Beato i due mantelli di stoffa di oro
brunito e pronti per l’uso, dicendo: “Signore, questi due mantelli di stoffa
di oro brunito sono pronti per l’uso. Che il Beato mi mostri il favore di
accettarli dalle mie mani!”

Il Beato disse: “Pukkusa, vesti me con uno, ed Ananda con l’altro”. Ed il
corpo del Tathagata apparve risplendere come una fiamma, ed era bello oltre
ogni dire.

Il venerabile Ananda disse al Beato: “Com’è meravigliosa questa cosa,
Signore, e com’è sorprendente che il colore della pelle del Beato possa
essere così chiara, così brillante! Quando io misi questo mantello di stoffa
di oro brunito sul corpo del Beato, ecco! sembrò come se esso avesse perso
il suo splendore!”

Il Beato disse: “Vi sono due occasioni in cui l’aspetto di un Tathagata
diventa in modo sorprendente chiaro e brillante. La notte in cui il
Tathagata raggiunge il supremo e perfetto ‘insight’, Ananda, e quando alla
fine egli trapasserà nel finale assoluto trapasso che non lascia rimanere
nulla della sua esistenza terrena”.

Ed il Beato si rivolse al venerabile Ananda, e disse: “Ora, Ananda, può
accadere che qualcuno potrebbe riversare del rimorso a Chunda, il fabbro,
dicendo: ‘È colpa tua, Chunda, ed è male per te, che il Tathagata è morto,
dopo aver mangiato il suo ultimo pasto da te!’. Un tale rimorso gettato in
Chunda il fabbro, dovrebbe essere controllato, Ananda, dicendo: ‘È buon per
te, Chunda, e guadagno per te, che il Tathagata sia morto, dopo aver
mangiato il suo ultimo pasto da te. Dalla stessa bocca del Beato, O Chunda,
io ho sentito, dalla sua propria bocca, io ho sentito dire, “Queste due
offerte di cibo sono di ugual frutto e di profitto assai più grande di
qualunque altro: le offerte di cibo che un Tathagata accetta quando egli ha
raggiunto la perfetta Illuminazione e quando egli trapassa nell’assoluto e
finale passaggio in cui nulla resta della sua esistenza terrena – queste due
offerte di cibo sono di uguale frutto e di uguale profitto, e di assai più
grande frutto e assai più grande profitto che qualunque altro. Su Chunda, il
fabbro, è stato posto un karma che ridonda di lunghezza della vita, ridonda
di una buona nascita, ridonda di una buona fortuna, ridonda di una buona
fama e ridonda di una eredità celeste e di un grande potere”. “Proprio così,
Ananda, si dovrebbe controllare di non far avere alcun rimorso in Chunda, il
fabbro.”

Poi il Beato, percependo che la sua morte era vicina, emise queste parole:
“Colui che dona avrà il vero guadagno. Colui che si sottomette sarà libero,
perché egli cesserà di essere schiavo delle passioni. L’uomo retto elimina
il male; e con lo sradicare concupiscenza, amarezza, ed illusione, si giunge
al Nirvana.”

METTEYYA (MAITREYA)

Il Beato, con una gran seguito di confratelli, si diresse nella sala del
boschetto di Malla, l’Upavattana di Kusinara, sull’altro lato del fiume
Hirannavati, e quando vi fu giunto, egli si rivolse al venerabile Ananda, e
disse: “Ti prego, o Ananda, tieni pronto per me il divano con la testa a
nord, tra gli alberi gemelli di sala. Io sono stanco, Ananda, e desidero
giacere giù.”

“Sarà fatto così, Signore!” disse il venerabile Ananda, e quindi posò giù un
divano con la testa verso nord, tra gli alberi gemelli di sala. Ed il Beato
vi si distese, ed egli era attento e calmo.

Ora, in quella stagione, gli alberi gemelli di sala erano pieni di fiori; e
dai cieli si diffusero canzoni paradisiache, come forma di riverenza verso
il successore degli antichi Buddha. Ed Ananda era pieno di meraviglia che il
Beato fosse onorato così. Ma il Beato disse: “Non da tali eventi, Ananda, il
Tathagata è rettamente onorato, ritenuto sacro, o riverito. Ma chi onora,
sacralizza, e riverisce il Tathagata con il più degno omaggio è esattamente
l’uomo devoto che sempre adempie i maggiori e minori doveri camminando
secondo i precetti. Perciò, O Ananda, siate costanti nell’adempimento dei
doveri maggiori e minori, e camminate secondo i precetti; così, Ananda, voi
onorerete il Maestro!”

Allora il venerabile Ananda stette nel vihara, e appoggiandosi contro il
montante della porta, pianse al pensiero: “Ahimè! Io resto nient’altro che
uno studente, uno che deve ancora lavorare per la sua propria perfezione. Ed
il Maestro sta quasi per andarsene da me – chi mai sarà più così gentile!”

Ora, il Beato chiamò i fratelli, e disse: “Dov’è Ananda, O fratelli?” Uno
dei fratelli andò a chiamare Ananda. E Ananda venne e disse al Beato: “La
profonda oscurità regnava per mancanza di saggezza; tutto il mondo delle
creature senzienti stava brancolando a causa della mancanza di luce; poi il
Tathagata accese la lampada della saggezza, ed ora essa sarà di nuovo
estinta, prima che egli l’abbia rivelata”.

Il Beato disse al venerabile Ananda, appena egli si fu seduto al suo fianco:
“Basta, Ananda! Non essere tu stesso agitato; non piangere! In precedenti
occasioni, non ti avevo già detto che è nella stessa natura di tutte le cose
a noi care, il doverle lasciare e che noi dobbiamo separarci da esse? L’uomo
sciocco concepisce l’idea di un ‘sé’, l’uomo saggio vede che non c’è alcuna
base su cui costruire l’idea di un ‘sé’, così egli ha una concezione
corretta del mondo e giustamente conclude che tutte le cose composte,
ammassate con sofferenza, saranno di nuovo dissolte, ma solo la verità
rimarrà. Perché dovrei preservare questo corpo di carne, quando solo l’eccellente
corpo della legge resterà? Io ho risolto; avendo concluso il mio scopo e
atteso al lavoro stabilito, io cerco il riposo! Per molto tempo, Ananda, tu
mi sei stato molto vicino con pensieri ed atti di tale amore oltre ogni
misura. Tu hai agito bene, Ananda! Sii serio nello sforzo ed anche tu presto
sarai libero dal male, dalla sensualità, dall’egoismo, dall’illusione e
dall’ignoranza!”

Ananda, frenando le sue lacrime, disse al Beato: “Chi c’insegnerà quando tu
sarai andato?”

Ed il Beato rispose: “Io non sono il primo Buddha che venne sulla terra, né
io sarò l’ultimo. Nel tempo dovuto, un altro Buddha sorgerà nel mondo, un
Santo, Uno estremamente Illuminato, dotato di saggia condotta, di lieto
auspicio, che conosce l’universo, un incomparabile leader di uomini, un
Maestro di angeli e mortali. Lui vi rivelerà le stesse verità eterne che vi
ho insegnato io. Lui predicherà la religione, nello spirito e nella lettera
gloriosa nella sua origine, gloriosa nel punto più alto, e gloriosa alla
mèta. Lui proclamerà una vita religiosa, totalmente pura e perfetta; come io
ora proclamo!”

Ananda disse: “Come lo sapremo?” Il Beato disse: “Lui sarà noto come
Metteyya (Maitreya) che vuol dire ‘Colui il cui nome è gentilezza’.”

L’ENTRATA NEL NIRVANA

Allora tutti i Malla, coi loro giovani ragazzi e fanciulle e le loro mogli,
essendosi addolorati, tristi e con il cuore afflitto, andarono
all’Upavattana, il boschetto dei Malla, e vollero vedere il Beato per
partecipare della beatitudine che invade quelli che sono in presenza del
Santo.

Il Beato si rivolse loro e disse: “Cercando la Via, dovrete esercitarvi e
sforzarvi con diligenza. Non è sufficiente aver visto Me procedere come io
vi ho ordinato; liberatevi voi stessi dall’aggrovigliata rete del dolore.
Procedete nel sentiero con un costante scopo. Un uomo ammalato può essere
guarito dal salutare potere di una medicina, e si sarà sbarazzato di tutte
le sue indisposizioni senza vedere il medico. Colui che non fa ciò che io ho
comandato, mi vede invano. Di per sé, ciò non porta profitto; mentre colui
che vive lontano da dove sono io e però procede rettamente nel sentiero mi è
sempre vicino. Un uomo può vivermi accanto, ma se è disobbediente, è come se
fosse lontanissimo da me. Coloro che però rispettano il Dharma godranno
sempre la beatitudine della presenza del Tathagata”.

Quindi, il mendicante Subhadda andò al boschetto dei Malla e disse al
venerabile Ananda: “Io ho udito da alcuni miei amici mendicanti che negli
anni furono colpiti profondamente da insegnanti di grande esperienza:
‘Talvolta, e assai raramente, un Tathagata appare nel mondo, il Buddha
santo.’ Ora si dice che oggi nell’ultimo quarto della notte, avverrà il
trapasso finale del samana Gotama. La mia mente è piena di incertezza,
eppure io ho fede e fiducia nel samana Gotama che egli è capace di
presentare la verità, così che io possa sbarazzarmi dei miei dubbi. Mi sia
dunque permesso di vedere il samana Gotama!”

Allorché ebbe così sentito, il venerabile Ananda rispose al mendicante
Subhadda: “Basta! amico Subhadda. Non agitare il Tathagata. Il Beato è
stanco”. Ora il Beato per caso udì questa conversazione tra il venerabile
Ananda ed il mendicante Subhadda. Ed il Beato chiamò il venerabile Ananda, e
gli disse: “Ananda! Non devi tener fuori Subhadda. A Subhadda può essere
permesso di vedere il Tathagata. Qualsiasi cosa Subhadda mi chieda, lo
chiederà per un desiderio di conoscenza, e non per importunarmi, e qualsiasi
cosa io possa dire in risposta alle sue domande egli rapidamente capirà”.

Allora il venerabile Ananda disse: “Vieni avanti, amico Subhadda; poiché il
Beato ti dà il permesso”.

Quando il Beato ebbe istruito Subhadda, egli lo risvegliò e l’allietò con
parole di conforto e saggezza, e Subhadda disse al Beato: “O mio Signore
glorioso, Signore glorioso! Come sono eccellenti le tue parole, molto
eccellenti! Esse rimettono a posto ciò che era rovesciato, esse rivelano ciò
che era nascosto. Esse indicano la corretta via al vagabondo che si era
disperso. Esse portano una luce nell’oscurità così che quelli che hanno
occhi per vedere possano vedere. Quindi, Signore, la verità è stata resa
nota a me dal Beato ed io prendo il mio rifugio nel Beato (il Buddha), nella
Verità (il Dharma) e nell’Ordine (il Sangha). Che il Beato possa accettarmi
come discepolo e vero credente, d’ora in avanti finché la vita dura”.

E Subhadda, il mendicante disse al venerabile Ananda: “Grande è il tuo
vantaggio, amico Ananda, grande è la tua buona sorte di cui per così molti
anni tu sei stato irrorato come discepolo in questa fratellanza, nelle mani
dello stesso Maestro!”

Ora il Beato si rivolse al venerabile Ananda, e disse: “Potrebbe essere,
Ananda, che in alcuni di voi possa sorgere il pensiero ‘La parola del
Maestro è finita, noi non abbiamo più l’insegnante!’. Ma non è così, che voi
dovreste considerarlo. È vero, Ananda, che io non potrò più ottenere un
corpo, perché ogni dolore futuro ora è finito per sempre. Ma benché questo
corpo sarà dissolto, il Tathagata resta. La verità e le regole dell’ordine
che io ho esposto e ho stabilito per voi tutti, dopo che io sarò andato via,
siano esse di maestro a voi. Quando me ne sarò andato, Ananda, fai in modo
che, casomai, l’ordine abolisca tutti i precetti minori.”
Poi il Beato si rivolse ai confratelli, e disse: “Nella mente di un fratello
potrebbero esservi dei dubbi o incertezze sul Buddha, la verità, o il
sentiero. Però, non dovete rimproverarvi col pensiero, ‘Noi non lo chiedemmo
al Beato, allorché eravamo davanti a lui.’ Perciò ora chiedete, o fratelli,
chiedete liberamente.”
I fratelli rimasero silenziosi. Allora il venerabile Ananda disse al Beato:
“Invero, io credo che in tutta questa assemblea dei fratelli, non vi sia
fratello che abbia alcun dubbio o incertezza riguardo al Buddha, alla
verità, o al sentiero!”

Ed il Beato disse: “È grazie alla tua pienezza di fede che tu hai parlato,
Ananda! Ma, Ananda, il Tathagata sa per certo che in tutta questa assemblea
dei fratelli non c’è un fratello che abbia alcun dubbio o incertezza
riguardo al Buddha, alla verità, o al sentiero! Perché, Ananda, anche il più
ritardato di tutti questi fratelli è stato convertito, e si è assicurato la
salvezza finale.”

Poi il Beato si rivolse ai confratelli, e disse: “Se voi ora conoscete il
Dharma come la causa di ogni sofferenza ed il sentiero della salvezza, O
discepoli, allora potrete dire: ‘Noi rispettiamo il Maestro, e parliamo così
per riverenza verso il Maestro?’.” I fratelli risposero: “Noi non potremmo,
O Signore!”.

Ed il Santo continuò: “Di quegli esseri che vivono nell’ignoranza, muti e
confinati in un guscio, io ho prima rotto il guscio dell’ignoranza e, solo
nell’universo, ho ottenuto il supremo Stato di Buddha universale. Così, O
discepoli, io sono il più vecchio, il più nobile degli esseri. Ma ciò di cui
voi parlate, O discepoli, è o non è ciò che voi stessi avete visto, voi
stessi conosciuto, voi stessi compreso?”. Ananda ed i fratelli dissero: “Si,
Signore, lo è!”.

Ancora una volta il Beato cominciò a parlare: “Ora vedete, fratelli” egli
disse, “Io vi esorto, mentre dico, ‘Il decadimento è inerente in tutte le
cose composte, ma la verità rimarrà per sempre. Operate per la vostra
salvezza con diligenza!”. Questa fu l’ultima parola del Tathagata. Poi il
Tathagata precipitò in una meditazione profonda, ed essendo passato
attraverso i quattro jhana, entrò nel Nirvana.

Quando il Beato entrò nel Nirvana, nel momento del suo trapasso dall’esistenza,
si sentì un terremoto possente, terribile e ispiratore di un timore
reverenziale: con lampi e tuoni che balenarono nel cielo, e quei confratelli
che non erano ancora liberi dalle passioni protesero le braccia e piansero,
altri caddero precipitosamente a terra, angosciati dal pensiero: “Il Beato è
morto troppo presto! Troppo presto ha abbandonato l’esistenza! Troppo presto
la Luce del mondo è scomparsa!”.
Poi il venerabile Anuruddha esortò i fratelli e disse: “Basta, fratelli
miei! Non piangete, né dovete lamentarvi! Non ci ha il Beato in precedenza
dichiarato che è nella vera natura di tutte le cose, a noi vicine e care,
che noi dobbiamo separarci da esse e lasciarle, poiché tutto ciò che è nato,
portato in essere, ed organizzato, contiene dentro di sé l’inerente
necessità della dissoluzione? Come può essere poi possibile che il corpo del
Tathagata non si dovrebbe dissolvere? Tale condizione non può esistere!
Coloro che sono liberi dalle passioni sopporteranno la perdita, calmi e
responsabili, consapevoli della verità che Lui ci ha insegnato!”
Il venerabile Anuruddha e il venerabile Ananda passarono il resto della
notte in religiosa compostezza. Poi il venerabile Anuruddha disse al
venerabile Ananda: “Ora vai, fratello Ananda, ed informa i Malla di Kusinara
dicendo loro, ‘Il Beato è deceduto: quindi fate qualunque cosa vi sembri
adatta!’.” E quando i Malla ebbero sentito queste parole si addolorarono, e
furono tristi ed afflitti nel cuore.

Poi i Malla di Kusinara diedero ordini ai loro attendenti, dicendo,
“Radunate tutti insieme in Kusinara profumi e ghirlande, e tutta la musica!”
Ed i Malla di Kusinara presero profumi e ghirlande, tutti gli strumenti
musicali, e cinquecento indumenti, ed andarono nel boschetto dove era
disteso il corpo del Beato. Là essi passarono il giorno nel rendere onore e
riverenza ai resti del Beato, con ghirlande e profumi, e con inni e musica,
e facendo canopi con gli indumenti, e preparando ghirlande decorative da
appendervi sopra. Poi bruciarono i resti del Beato, così come essi avrebbero
fatto con il corpo di un Re dei re.

Quando la pira funebre fu accesa, il sole e la luna cessarono di splendere e
si ritrassero, i pacifici ruscelli si gonfiarono come torrenti impetuosi,
la terra tremò, e le robuste foreste furono scosse come foglie tremolanti,
mentre fiori e foglie caddero fuori tempo sulla terra, come pioggia, così
che ogni abitante di Kusinara fu coperto fino ai ginocchi con fiori di
mandara che piovevano in giù dal cielo.

Quando le cerimonie funebri furono terminate, Devaputta disse alle
moltitudini che si erano assemblate intorno alla pira: “Vedete, fratelli, i
resti terreni del Beato sono stati dissolti, ma la verità che lui ci ha
insegnato vive nelle nostre menti e ci purifica da tutti gli errori. Perciò,
andate nel mondo, compassionevoli e pieni di misericordia come il nostro
grande Maestro e predicate a tutti gli esseri viventi le quattro nobili
verità e l’Ottuplice sentiero della rettitudine, così che ogni essere umano
possa ottenere la salvezza finale, prendendo rifugio nel Buddha, Dharma, e
Sangha.”

Quando il Beato fu entrato nel Nirvana ed i Malla ne ebbero bruciato il
corpo con cerimonie che indicavano come egli fosse il più grande Re dei re,
ambasciatori vennero da tutti quegli imperi che al tempo avevano abbracciato
la sua dottrina, per chiedere una parte delle reliquie; e le reliquie furono
divise in otto parti, ed otto dagoba (o stupa) furono eretti per la loro
conservazione. Un dagoba fu eretto dai Malla, e altri sette dai sette Re di
quei paesi i cui abitanti avevano preso rifugio nel Buddha.

CONCLUSIONE

Quando il Beato fu trapassato nel Nirvana, i discepoli vennero e si
consultarono su cosa fare per mantenere il Dharma puro ed incorrotto da
eresie.

Upali si alzò, dicendo: “Il nostro gran Maestro era solito dire ai fratelli:
‘O bhikkhu! dopo il mio ingresso finale nel Nirvana voi dovrete riverire e
rispettare la Legge. Considerate la Legge (il Dharma) come vostro Maestro.
La Legge è come una luce che risplende nell’oscurità, e che indica la Via;
essa è anche simile ad un gioiello prezioso, per guadagnare il quale voi
dovrete evitare qualunque problema, ed esser pronti a sopportare qualunque
sacrificio; inoltre, dovreste averne bisogno per le vostre stesse vite.
Rispettate il Dharma che io vi ho rivelato; seguitelo attentamente e fate
come se fosse in nessun modo diverso da me.’ Tali erano le parole del Beato.
Di conseguenza, la Legge che il Buddha ci ha lasciato come una preziosa
eredità, ora è divenuta il corpo visibile del Tathagata. Quindi, riveriamola
e ritieniamola sacra. Perciò, a che serve erigere dagoba per le reliquie, se
poi noi trascuriamo lo spirito degli insegnamenti del Maestro?”

Allora Anuruddha si alzò e disse: “Teniamo presente che Gotama Siddhartha ha
rivelato a noi la verità. Egli era il Santo, il Perfetto ed il Beato, perché
la verità eterna era dentro di lui. Il Tathagata ci ha insegnato che la
verità esisteva prima ancora che lui nacque in questo mondo, ed esisterà
anche dopo che lui è entrato nel Nirvana. Il Tathagata disse: ‘La verità è
onnipresente ed eterna, dotata di innumerevoli eccellenze, oltre la natura
umana, ed è ineffabile nella sua santità.’
“Ora, teniamo presente che il Buddha non è questa o quella legge che ci sono
state rivelate nel Dharma, ma la intera verità, la verità che è eterna,
onnipresente, immutabile, e più eccellente. Molte regolamentazioni del
Sangha sono provvisorie; esse furono prescritte perché erano adatte per
l’occasione ed erano necessarie per la transitoria emergenza. Tuttavia, la
verità non è provvisoria. La verità non è arbitraria né è una questione di
opinione, ma può essere investigata, e coloro che sinceramente ricercheranno
la verità, la troveranno. La verità è nascosta al cieco, ma colui che ha
l’occhio mentale vede la verità. La verità è l’essenza del Buddha, e la
verità rimarrà l’ultima essenza. Ossequiamo perciò la verità; indaghiamo
nella verità, affermiamola, e infine rispettiamola! Perché la verità è il
Buddha, il nostro Maestro, il nostro Insegnante.”

Poi si alzò Kassapa e disse: “Invero, tu hai parlato bene, O fratello
Anuruddha. Non c’è alcun conflitto di opinione sul significato della nostra
religione. Perchè il Beato possiede le tre personalità e ognuna di esse è di
uguale importanza per noi. C’è il Dharma-Kaya. C’è il Nirmana-Kaya. C’è il
Sambhoga-Kaya. Il Buddha è la verità eccellente, eterna, onnipresente, ed
immutabile: questo è il Sambhoga-Kaya che è uno stato di beatitudine
perfetta. Il Buddha è l’insegnante amorevole che assume la forma degli
esseri a cui egli insegna: questo è il Nirmana-Kaya, il suo corpo di
apparizione. Il Buddha è il benedetto dispensatore del Dharma; Egli è lo
spirito del Sangha e ci lasciò il significato degli ordini nella sua sacra
parola, il Dharma: questo è il Dharma-Kaya, il corpo più eccellente della
Legge.

“Se il Buddha a noi non fosse apparso come Gotama Sakyamuni, come avremmo
potuto ricevere le sacre tradizioni della Sua dottrina? E se le generazioni
future non ne preservassero le sacre tradizioni nel Sangha, come potrebbero
conoscere qualcosa del grande Sakyamuni? Né noi né altri potrebbero
conoscere qualcosa della verità più eccellente, che è eterna, onnipresente,
ed immutabile. Dunque, la si mantenga sacra e si riveriscano le tradizioni;
manteniamo sacra la memoria di Gotama Sakyamuni, così che tutte le persone
possano trovare la verità!”

Poi i fratelli decisero di convenire ad un sinodo per istituire le dottrine
del Beato, inserirvi le sacre scritture e stabilire un canone che doveva
servire come una fonte di istruzione per le generazioni future.

F I N E

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