Gli ultimi giorni del Maestro Yoganandaji

pubblicato in: AltroBlog 0
Gli ultimi giorni del Maestro Yoganandaji

di Swami Kriyananda

Tratto da:

(Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA

“IL SENTIERO”

Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda

Traduzione di MAURO MERCI

EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA

38. GLI ULTIMI GIORNI DEL MAESTRO

°°°

Oh! Ritornerò più e più volte!
Valicando milioni di rupi della sofferenza,
Con piedi piagati, ritornerò.
Finché io saprò
Che un fratello è rimasto indietro, smarrito.

da “Il barcaiolo divino” di Paramahansa Yogananda

°°°

Le gocce di pioggia cadono a terra, recitano i loro innumerevoli drammi separati ed evaporano, per
cadere nuovamente in un ciclo ripetuto all’infinito. Analoga è la storia di ogni anima. Per
innumerevoli cicli ritorneremo sulla terra raffinando le nostre capacità di comprensione finché non
saremo convinti fino all’ultima delle nostre fibre che il compimento che cerchiamo è già nostro:
nella felicità della nostra stessa esistenza!

Perché una scoperta così semplice richiede tanto tempo? Perché è così difficile rendersi conto che i
piaceri terreni non sono che riflessi della nostra gioia interiore? In una casa di specchi, ahimè,
si è ben poco inclini all’introspezione. Le immagini riflesse sono troppo affascinanti! Se ci
preoccupiamo di noi stessi, è forse soltanto con l’intento di cambiare queste immagini. Per quanto
riguarda la vita dell’uomo il discorso è analogo. I riflessi della nostra gioia interiore che
percepiamo nelle realizzazioni esterne sono semplicemente troppo allettanti! Vite e vite
trascorrono, prima che ci accorgiamo che quanto ci affascinava era solo l’immagine e che abbiamo
fino ad allora vissuto in un mondo irreale.

Quasi sempre, quando un’anima consegue la definitiva emancipazione, concludendo il lungo ciclo di
incarnazioni, la sua gioia per la vittoria conquistata è tanto soverchiante che essa non prova alcun
desiderio di far ritorno alla prigione terrena. Perfino la fame spirituale di altri ricercatori non
è sufficiente per richiamarla. L’anima infatti sente, dopo milioni di anni di schiavitù, di avere il
diritto di reclamare la ricompensa conquistata tanto duramente: la felicità eterna. Soltanto poche
anime straordinarie, una volta guadagnata la propria liberazione, rimandano il perfetto godimento
dei frutti di essa per ritornare a questo oscuro stadio di sviluppo ed essere di guida verso la luce
agli altri. Paramahansa Yogananda è un fulgido esempio di queste anime rare. Anche fra quelle, in
verità, poche debbono essere le eccezioni che promettono di tornare “se occorre, anche un trilione
di volte”. La compassione di Yogananda supera semplicemente l’immaginazione.

I devoti chiedono a volte: “Le anime che sono nate sulla terra si reincarnano sempre su di essa?”.
La risposta del Maestro, quando io stesso, un tempo, gli posi la domanda, fu: “No. Ci sono
innumerevoli pianeti dove si può andare”. E aggiunse: “Se ritornassero sempre sullo stesso pianeta
scoprirebbero la verità troppo rapidamente!”. La percezione divina, in altre parole, va guadagnata.
Non è nella “trama” di questo dramma cosmico che la saggezza venga imposta all’uomo senza che questi
la scelga e la inviti. Egli deve usare la spada della discriminazione; la casa di specchi deve
perdere il suo fascino poiché egli ha scoperto tutti i trucchi e non solo a causa della loro
ripetizione costante, ma perché le immagini riflesse non lo interessano più.

Sotto un solo aspetto, però, l’anima tende a ripetere per incarnazioni e incarnazioni i suoi
rapporti esteriori con altre anime.

Può a questo proposito essere utile un esempio. Nelle nebulose dello spazio infinito, gli atomi
vanno alla deriva, l’uno dall’altro, ad una distanza di parecchie migliaia, troppo lontani per
essere attratti dai rispettivi campi gravitazionali. Se però due atomi si accostano casualmente,
sarà per loro più facile attrarre un terzo atomo. Ai tre si unisce agevolmente un quarto atomo.
L’occasionale globo di materia può così continuare a crescere, finché il suo campo gravitazionale
viene ad esercitare la sua forza per un raggio di milioni e milioni di chilometri. Ad un certo punto
di questo processo avverrà una reazione violenta e rapida e altre nebulose saranno attratte da
grandi distanze, risucchiate. La forza gravitazionale di questa massa enorme diviene infine tanto
grande che la struttura degli atomi che la compongono subisce una trasformazione. E’ nata così una
nuova stella.

In modo del tutto analogo, l’anima, nel suo progresso graduale verso la saggezza divina, sviluppa la
forza “gravitazionale” mediante la quale attrae e trattiene la conoscenza di cui ha bisogno per la
propria illuminazione, finché, nel firmamento degli esseri viventi, diventa una vera e propria
“stella”.

Nello stesso modo, anche l’anima sviluppa la forza gravitazionale per dare origine a relazioni
significative e durature con altre anime. Piano piano, nella sua vita esterna, essa e le altre anime
in sintonia spirituale con lei, formano grandi famiglie di anime che ritornano sulla terra, o su
altri pianeti, per lavorare alla propria salvezza, non più ognuna per sé ma attraverso
un’interazione. Per raggiungere la divina emancipazione è necessario infatti spiritualizzare le
proprie relazioni con il mondo oggettivo e con gli altri esseri umani, oltre che con Dio.

Più forte è la famiglia così creatasi, spiritualmente parlando, maggiore è l’attrazione che essa
esercita su nuove anime che possono stare ancora vagando, alla ricerca della propria identità. Una
famiglia si evolve al ritmo di evoluzione dei suoi membri. Anch’essa diviene una “stella” nel
firmamento dell’umanità, non appena incomincia a produrre grandi anime che hanno conseguito
l’autorealizzazione.

In quanto “stelle” spirituali, tali grandi famiglie sono potenti aiuti per la generale elevazione
dell’umanità. Come le stelle, esse attirano nella loro aura benefica, anche i pianeti” delle
famiglie meno evolute, vitalizzandoli con i raggi della divina verità. Tali famiglie sono come delle
nazioni potenti. Ad esse viene affidato il compito di guidare la razza umana, non nel modo usato dai
governi con leggi e decreti, ma esercitando una più sottile influenza spirituale.

Quella fondata da Yogananda è una di tali famiglie spirituali. Essa fa parte di una più estesa
“nazione” della quale sono anche condottieri Gesù Cristo e Sri Krishna (nella vita presente,
Babaji). Yogananda, come Guglielmo il Conquistatore ad Hastings, venne in America per stabilirvi una
base, non in vista di una conquista materiale, ma di una unione spirituale divina. Molti sono nati e
nascono tuttora in occidente per assisterlo in questa missione. Molti altri sono stati attratti ad
essa per la prima volta dalla influenza magnetica che irradia dal “campo gravitazionale” spirituale
originato.

Durante l’ultimo anno e mezzo della vita del Maestro, tutti coloro che erano suoi discepoli da lungo
tempo si raccolsero intorno a lui, quasi fossero consapevoli che la fine della sua vita terrena si
stava avvicinando. Alcuni che per molte ragioni non l’avevano visitato da anni, arrivarono a Mount
Washington. Altri che non lo conoscevano ancora, ma erano destinati ad incontrarlo in questa vita,
accorsero, quasi affrettandosi per arrivare prima che fosse troppo tardi.
Ricordando che il Maestro ebbe nel 1920 la visione completa dei discepoli che avrebbe avuto in
America, gli chiesi, nel giugno del 1950: “Avete già incontrato la maggior parte delle persone
apparse nella vostra visione a Ranchi?”.

“Praticamente quasi tutti”, rispose. “Ne sto attendendo solo pochi. Ma verranno”.

Fra i discepoli a lui più vicini che lo visitarono durante il suo ultimo anno di vita, ci fu il
signor Cuaròn che venne dal Messico, il signor Black di Detroit nel Michigan e Kamala Silva che
arrivò da Oakland in California.

Dopo la partenza del signor Black, il Maestro mi fece notare, indugiando affettuosamente nel
ricordo: “Hai visto Dio nei suoi occhi?”.

Di Kamala ci disse un giorno: “Guardate quella ragazza. Per ventisette anni ha lavorato in
quest’opera. Essa è molto prossima alla liberazione. Dopo essere stata con me per molto tempo – qui
a Mount Washington – le dissi che doveva prendere marito.

“Oh no, Maestro”, rispose. “Non voglio”. Ma io la esortai a farlo e le promisi che avrebbe ottenuto
la salvezza. Si trattava di una lieve traccia del suo karma passato che ella doveva cancellare.
Scelsi io stesso il suo futuro marito. Che anima splendida! Un vero sannyasi, come uno di voi!”.
Nota: Il marito di Kamala, Edward Silva, era un insegnante di Oakland in California. Fine nota.

Il signor Cuaròn arrivò nel 1950 eppoi ancora nell’anno successivo. Lo incontrai per la prima volta
poco dopo che qualcuno aveva deposto un’enorme valigia sul tappeto presso la porta del corridoio
interno dell’edificio. Stavo sorridendo alla vista di quel bagaglio informe quando una voce,
dall’alto della scala, annunciò: “E’ mia”. Sollevai lo sguardo e vidi, in forma umana, l’esatto
duplicato di quella valigia! Tuttavia non vi era nulla di cui sorridere, se non con amore, nella
natura spirituale del signor Cuaròn. Scoprii ben presto che possedeva un cuore delle stesse
dimensioni del suo corpo.

Il Maestro lo amava moltissimo. “Ho perso contatto con te per alcune incarnazioni”, ebbe a dirgli,
“ma non lo perderò mai più”. Dopo d’allora, di tanto in tanto, l’imponente messicano ricordò al
Maestro la sua promessa. “Mai, mai”, lo rassicurava allora sempre Yogananda.

La signora Galli-Curci, la famosa cantante lirica, abitava nei pressi di Encinitas. “E’ molto
evoluta, spiritualmente?”, chiesi una volta al Guru, che di tanto in tanto discuteva con me il
progresso spirituale dei discepoli. “Si libra in Dio!”, fu la sua risposta felice.

Anche Arthur Cometer, che aveva accompagnato il maestro durante il suo giro di conferenze per tutti
gli Stati Uniti nel 1924 e che con lui aveva ispezionato per la prima volta Mount Washington nel
1925, venne a trovarlo. Yogananda ne parlò con calorosa stima.

Circa nello stesso periodo, Jesse Anderson, un anziano discepolo di San José in California, donò al
Maestro un ritratto di Sri Yukteswar che egli stesso aveva ricamato con del filo a più colori.
Abbandonato il lavoro, il signor Anderson viveva di una piccola rendita e s’era procurato i soldi
per il filo raccogliendo noci dal terreno sul bordo delle strade e vendendole.

Il Maestro fu profondamente commosso dal dono e appese il ritratto in cima alla scalinata che
conduceva al suo appartamento. Sovente, quando gli passava davanti, si arrestava in silenzio, unendo
le palme in segno di solenne saluto al suo grande guru. La venerazione di Yogananda per Sri
Yukteswar era tanto più commovente se si pensa che egli aveva ormai da tempo superato la condizione
di discepolo.

Vi è un detto che afferma: “Nessuno è grande agli occhi del suo cameriere”. Nel caso dei santi
l’adagio è falso, poiché i discepoli a loro più vicini sono proprio coloro che li conoscono meglio e
li considerano con maggiore venerazione. La natura di Sri Yukteswar era severa; non era stato certo
un guru facile da seguire. Molti che aspiravano ad essere suoi discepoli, scorgendo solo la parte
esteriore della sua personalità, erano scomparsi al primo contatto con la sua dura disciplina.
Yogananda invece era rimasto, intuendo che dietro a quella apparenza severa esisteva la coscienza
divina.

“Un giorno”, ci narrò, “un gruppo di discepoli non potendo più sopportare il rigore della sua
disciplina, decise di lasciarlo. “Vieni”, mi dissero, “ti seguiremo. Egli è troppo severo per noi”.

“Andate voi se volete”, risposi in tono sostenuto. “Io resto con il mio guru!”.

Anche nel caso del Maestro potei osservare che proprio i discepoli che lo conoscevano meglio erano
invariabilmente coloro che lo tenevano in maggiore stima.
Una di tali discepoli era sorella Gyanamata. Molto più anziana di lui, vedova dignitosa di un
professore universitario, estremamente avara di lodi per chiunque, ella manifestava un rispetto per
il Maestro tanto costante, umile e profondo per cui chi visitava l’ashram per la prima volta,
avrebbe potuto scambiarla per una semplice neofita.
In presenza del Maestro – così mi fu detto – rimaneva sempre in piedi.

“Ero a Encinitas, nella sala principale dell’eremo, con Sorella e alcuni altri”, mi narrò Eugène
Benvau, un confratello, “quando entrò il Maestro. Sorella, pur essendo anziana, si alzò
immediatamente in piedi col resto di noi. Il Maestro non la guardò neppure, né le disse una sola
parola. Si diresse alla finestra e rimase lì a contemplare l’oceano. Neppure Sorella lo guardò. Dopo
un po’, notai però che entrambi sorridevano dolcemente di un sorriso interiore. Dopo alcuni minuti
il Maestro lasciò la stanza, senza aver rivolto la parola ad alcuno. Ebbi però la netta sensazione
che egli e Sorella fossero stati in silenziosa comunicazione reciproca”.

“Basta solo che rivolga un pensiero a Sorella”, ci disse il Maestro, “e il giorno seguente mi viene
recapitata una sua lettera”. Molte delle lettere di sorella Gyanamata dirette al Maestro e ai
condiscepoli che si riferiscono ai suoi rapporti con il Maestro, apparvero in una serie dal titolo
“Lettere di una discepola”, nel Self-Realization Fellowship Magazine.

“Care figliole”, scrisse a delle giovani monache, “ieri avete chiesto: ‘Qual è l’essenza del
comportamento del discepolo? Quale deve essere il segno che contraddistingue il discepolo
perfetto?’.”

“Voi vedete come io sia sempre quieta in presenza del Maestro. Questa non è una posa, per
conquistare la sua approvazione, né dipende assolutamente dal fatto che io consideri questa la
maniera più adatta del buon comportamento. Io posseggo un’intima sensazione di pace; è questa la
ragione. E’ come se io stessi ascoltando intensamente le sue parole per farle penetrare
profondamente nella mia mente e nel mio cuore per meditarle, a volte per anni. Nelle sue parole,
trovo sovente la risposta ai dubbi che sorgono in me”.

Asseriva che la risposta alla consorella le fosse anche in quell’occasione, pervenuta dalle parole
del Maestro. Una studentessa, alla quale Yogananda aveva dato una rosa rossa da portare durante una
cerimonia, aveva protestato: “Ma io non voglio una rosa rossa, ne voglio una rosa”. Al che il
Maestro aveva risposto: “Quello che io ti do, tu lo prendi”

“Ecco la mia risposta”, concludeva Sorella. “Una mente acuta o almeno aperta, mani e piedi
volenterosi, queste qualità spinte alla perfezione, costituiscono l’essenza del comportamento del
discepolo, il marchio di distinzione, la somma perfezione di un discepolo”.

Qualcuno un giorno le disse di averla vista in visione com’era in una precedente incarnazione.
Sorella scrisse di ciò al Maestro e concluse la lettera con queste parole: “Chiunque io sia stata in
passato, in questa incarnazione, la più importante di tutte, sono Gyanamata, l’opera uscita dalle
vostre mani. Vi prego, intercedete per me, affinché io possa resistere salda e incrollabile fino
alla fine. Con venerazione, gratitudine, devozione, amore, sebbene questi sentimenti non siano
ancora così forti come vorrei! Non abbastanza, oh, non abbastanza!”.

Che dolcezza indicibile! Le lagrime sgorgano dai miei occhi mentre scrivo queste parole. Non fa
dunque meraviglia che il Maestro al funerale di Gyanamata abbia esclamato con divino amore: “Diletta
Sorella!”.

Sorella Gyanamata morì il 27 novembre 1951, all’età di ottantadue anni. “Ho sondato nella sua vita”,
disse il Maestro, “e non ho trovato un solo peccato, neppure di pensiero”.

Negli ultimi vent’anni, Sorella aveva sofferto fisicamente, ma aveva portato eroicamente il suo
fardello doloroso, accettandolo come un dono inestimabile di Dio e del Guru. Parlando di lei dopo il
suo funerale, il Maestro ci disse: “Un giorno in cui visitai Sorella in camera sua, potei sentire il
battito convulso ed irregolare del suo cuore fin dalla porta. Vedendomi lei disse: “Non vi chiedo di
guarirmi. Tutto quello che vi chiedo è la vostra benedizione”. Che fede aveva! La salvai
istantaneamente dalla morte. Strinsi un patto con Dio per la sua vita ed ebbi la certezza che lei
non sarebbe morta fintantoché io avessi continuato a pregare per la sua liberazione”.
“Un’altra volta”, continuò, “Sorella e la signora Maley erano sedute sulla veranda a Encinitas,
quando una voce che entrambe udirono chiaramente disse: “Avverti Paramahansaji che ti sto per
prendere”. Ella me ne parlò e io le risposi: “La prossima volta che ti parla, ribatti che non è
vero. Ho stretto un patto con Dio per la tua vita. Egli non tradisce la Sua parola”.

“Pochi giorni dopo, era ancora seduta sulla veranda insieme alla signora Maley, quando udì
nuovamente la medesima voce: “Presto ti prenderò”. Sorella allora rispose: “Paramahansaji dice che
non è vero”. La voce tacque.

“Pochi momenti più tardi giunse il suo dottore, che io non avevo mai incontrato prima, per la
periodica visita. Mentre se ne stava andando, lo fermai. “Ditemi dottore”, chiesi, “come trovate
Sorella?”.
“Oh, va tutto bene” rispose.

“Ma ditemi” insistetti, “non c’è niente di poco chiaro nel suo caso?”.

“Beh, si” ammise. “E’ un po’ sconcertante”.

“Non pensate che il suo male possa essere dovuto alla malnutrizione?”, suggerii. “Cosa ne direste di
metterla sotto osservazione?”.
“Per Giove!”, esclamò. “Forse avete ragione!”. La ricoverarono in ospedale e là scoprirono che al
suo corpo non restava nutrimento sufficiente per sopravvivere per altre ventiquattr’ore. Le si erano
formate delle piaghe sulle labbra e aveva bevuto sempre e soltanto tè, senza nutrirsi in alcuna
altra maniera. La rifocillarono ed ella poté riprendersi. Era a ciò che si riferiva la voce udita
sulla veranda”.

La vita di Sorella fu risparmiata più volte. Finalmente, dopo vent’anni, il Maestro le concesse la
liberazione dai legami dal corpo. “Quale gioia!”, esclamò con il suo ultimo respiro. “Troppa gioia!
Troppa gioia!”.
“La vidi sprofondarsi nel vigile stato dello Spirito, oltre ogni creazione”, disse in seguito il
Maestro. La ricompensa che Sorella ebbe per anni di perfetto abbandono alla volontà del Guru fu
l’estrema liberazione.

“Ella raggiunse Dio mediante la saggezza”, disse ancora il Maestro. “Io vi giunsi per il cammino
della gioia”.

Al suo ritorno a Mount Washington, Yogananda trascorse un po’ di tempo con noi, parlando di Sorella,
e affermò di nuovo che lei aveva conseguito la completa liberazione. Mi ritornò alla memoria quanto
mi aveva detto a Twenty-Nine Palms sul fatto che un’anima deve liberarne altre prima di poter
ricevere essa stessa la liberazione definitiva. Il Maestro colse il mio pensiero e disse: “Ebbe dei
discepoli”.
“In tutti gli anni dacché la conobbi”, mi disse Daya Mata durante le ultime ore di sorella
Gyanamata, “non le ho mai sentito dire nulla che fosse scortese nei confronti di qualcuno”. Che
splendido omaggio! Pensai che rivelava molto di Daya Mata stessa il fatto che ella avesse scelto
questa qualità e non altre per farla oggetto di una lode particolare. La gentilezza era infatti la
qualità che contrassegnava la sua personalità.
Con la morte di Sorella noi tutti sentimmo che si stava approssimando velocemente il tempo in cui
anche il Maestro avrebbe lasciato questo mondo. Egli stesso alluse a questa eventualità. Un giorno
disse al dottor Lewis: “Abbiamo vissuto una buona vita insieme. Pare soltanto ieri che ci siamo
incontrati e fra poco dovremo lasciarci. Presto però saremo nuovamente riuniti”.

Il Maestro preannunciò che avrebbe passato la sua prossima vita sulla terra nella regione
dell’Himalaya. Avendo dedicato gran parte di questa esistenza all’attività pubblica, progettava,
nella nuova incarnazione, di rimanere per molti anni in stretta clausura. “Soltanto nei miei ultimi
anni”, ci annunciò, “raccoglierò attorno a me i discepoli che ora mi sono più vicini”. Alla maggior
parte delle discepole più fedeli promise: “Vi reincarnerete come uomini in quella vita”. Soltanto
alla signora Brown, per quanto ne so, disse che sarebbe rinata donna. Sarebbero dovuti trascorrere
duecento ani, annunciò, prima della sua prossima incarnazione.

Durante i suoi ultimi mesi, soprattutto, trovava la sua maggiore gioia terrena in quei discepoli che
avevano conformato la loro vita alle sue divine aspettative. Lodava spesso San Lynn, sorella
Gyanamata, Daya Mata, la signora Brown e altri. Disse di Merna Brown (ora Mrinalini Mata): “Il suo
karma è splendido! Vedrete cosa farà per l’opera!”. Di lei disse anche che già in più d’una delle
sue vite passate era stata una santa. Di Corinne Forshee (Mukti Mata) esclamò in mia presenza: “Che
anima stupenda!”. Di Virginia Wright (Ananda Mata) non parlò mai in mia presenza, ma appariva chiaro
da come la trattava che era molto compiaciuto di questa sua discepola, come lo era anche, lo so per
certo, di Jane Brush (Sahaja Mata). Negli anni che trascorsi a lavorare al suo fianco nel
dipartimento editoriale non la vidi mai un momento che non fosse allegra, di un umore costante
improntato sempre alla gentilezza.

Il Maestro si mostrava molto soddisfatto anche dello spirito di Henry. Fratello Anandamoy, come poi
si chiamò, passava un guaio dopo l’altro. Prima si ruppe una costola, poi soffrì di un esantema che
gli rese la vita difficile, più tardi ancora si ruppe un’altra costola. Una serie di disgrazie
minori pareva perseguitarlo. Un giorno, trovandolo afflitto da non so più cos’altro, il maestro gli
disse: “Un guaio dopo l’altro, vero? Ma va bene! Devi lavorare molto, eccone la ragione, e Dio vuole
renderti forte. Qui produciamo qualcosa di più che dei teologi. I nostri ministri temprano la loro
spiritualità nelle fiamme di un continuo cimento”.

A Oliver Rogers (fratello Devananda) fece notare un giorno: “Tutto ti va a meraviglia!”.

Rogers ci raccontò un caso divertente occorsogli durante il suo recente lavoro per il Maestro.
Yogananda, come ho già menzionato più volte, dava grande importanza a un atteggiamento mentale
positivo; erano proprio la sua positività e la sua sicurezza ad essere responsabili in parte della
sua straordinaria produttività. Visualizzando con estrema chiarezza quanto voleva eseguire, aveva
successo là dove pochi sarebbero riusciti. Talvolta, tuttavia, le sue proiezioni mentali erano così
nitide che le loro susseguenti manifestazioni sul piano materiale non lo impressionavano più di
quanto avrebbe fatto una semplice firma su un dipinto finito.
“Il maestro mi chiese di tinteggiare una stanza”, raccontò Rogers. “Uno o due giorni dopo, prima
ancora che avessi trovato il tempo per comprare il colore, trovai il maestro in quella stessa
stanza; egli conversava con San Lynn. Entrambi erano in stato di estasi. Vedendomi il Maestro mi
lodò con San Lynn, concludendo con queste parole pronunciate con tono di stupore infantile: “Ha
verniciato questa stanza tutto da solo!”. San Lynn guardò le pareti non ancora tinteggiate, il
soffitto e infine me. Ci sorridemmo, ma non dicemmo nulla”.

Prima di arrivare a Mount Washington, Oliver Rogers era stato decoratore e imbianchino
professionista. “In cielo”, gli disse il Maestro, “creerai dei magnifici fiori astrali semplicemente
desiderandoli”.
“Signore”, chiesi un giorno al Maestro, “quando voi non ci sarete più, starete vicino a noi come lo
siete ora?”.
“Sarò vicino a coloro che mi penseranno vicino”, fu la sua risposta.

Gli ultimi mesi trascorsero velocemente. Troppo velocemente poiché in cuor nostro tutti sapevamo che
la sua fine si stava avvicinando.
“Accadrà prestissimo, lo sento”, commentò un giorno Daya Mata, incontrandomi in ufficio.
“Certo il Maestro vorrà ritornare in India, prima”, protestai. Stava progettando di ritornare laggiù
quell’anno, e mi aveva accennato a quanto i suoi discepoli indù avessero sentito la sua mancanza,
dato che egli non si era più recato in India negli ultimi due anni.

“Lo credi davvero?”. Mi guardò fissamente, ma non disse più nulla. Il suo presentimento si rivelò
esatto.
Un giorno il maestro entrò in un negozio per acquistare alcuni bastoni da passeggio. Qualunque cosa
facesse, egli assumeva una consapevolezza adeguata, e in questo caso poiché stava concludendo un
affare, contrattò saggiamente l’acquisto. Appena la trattativa fu conclusa, smise di recitare la
parte del compratore coscienzioso che vuole risparmiare denaro per il suo monastero. Guardandosi
intorno, vide i segni dell’indigenza nel negozio e allora, comprensivo, diede al proprietario molto
di più del pattuito.

“Siete un gentiluomo!”, esclamò il venditore, profondamente commosso e, per mostrare la sua
riconoscenza, donò al Maestro un bellissimo ombrello antico.
Ritornato a Mount Washington, Yogananda sospirò: “Che pavimento misero c’era nel negozio di
quell’uomo! Penso che gli comprerò un nuovo tappeto”.
Nella sua vita egli manifestò perfettamente la verità che, per l’uomo in possesso della coscienza
cristica, tutti gli uomini sono fratelli.
L’ultimo numero del Self-Realization Magazine uscito quando il Maestro era ancora in vita, conteneva
un suo articolo dal titolo: “L’esperienza finale”. Fu l’ultimo della serie dei suoi commenti al
Nuovo Testamento, articoli che erano stati pubblicati regolarmente sulla rivista per vent’anni. In
questo ultimo scritto Yogananda spiegava le parole del Vangelo di Luca: “E Gesù gridando a gran
voce, disse: Padre nelle tue mani rimetto il mio Spirito. E detto questo spirò” Nota: Luca, 23:46.
Fine nota. La perfetta tempestività di questo articolo fu più di una coincidenza. Apparve nel numero
di marzo 1952 e il Maestro spirò il 7 marzo di quell’anno.
Può essere interessante far notare al lettore un’altra coincidenza: scrissi queste pagine sulla
morte del Maestro nei giorni in cui si celebrava l’anniversario della morte di Cristo. Ieri era
Venerdì Santo del 1976.

Alcuni giorni prima della sua morte, un altro discepolo pose al Maestro una domanda simile a quella
che già io gli avevo rivolto anni prima. “Sono già giunti tutti i discepoli che vi sono stati
destinati in questa vita, Signore?”.
“Ne sto aspettando ancora due o tre”, rispose Yogananda.

Quella stessa settimana arrivarono altri due discepoli: Leland Standing (ora fratello Mokshananda) e
la signora Erba-Tissot, una nota e celebre avvocatessa svizzera che, non molto tempo dopo, avrebbe
lasciato l’esercizio della sua professione per organizzare centri dell’opera del Maestro in Europa.
Credo vi sia stato un altro che giunse in quel periodo, ma non riesco a ricordare chi.

Lo spirito di Leland ci aveva colpiti già dai mesi in cui eravamo stati in rapporto epistolare.
Finalmente il Maestro gli aveva scritto, invitandolo a venire a vivere a Mount Washington. Leland
incontrò Yogananda poco dopo il suo arrivo. “La tua anima è evoluta”, gli disse il Maestro. “Ma
ricorda, la fedeltà è la cosa più preziosa”.
Il maestro aveva passato qualche tempo nel suo eremo di Twenty-Nine Palms ma ritornò a Mount
Washington il 2 marzo per incontrarsi con Sua Eccellenza Binay R. Sen, che era stato nominato allora
ambasciatore dell’India alle Nazioni Unite. La sera del suo ritorno ci abbracciò uno per uno con
affetto e ci benedisse. Per alcuni ebbe parole di aiuto personale, per altri di incoraggiamento
perché non desistessero nei loro sforzi, ad altri ancora consigliò di meditare di più. Quando lo
vidi avviarsi verso il piano superiore, salii anch’io per vederlo da solo a solo.

Nei tre anni e mezzo trascorsi, il maestro mi aveva rimproverato più volte, quasi sempre per la mia
lentezza nel capirlo perfettamente ma anche, a volte, per non aver pesato in anticipo le possibili
conseguenze delle mie parole. Egli diceva: “Io rimprovero solo chi mi ascolta e non gli altri”, ma
con tutto ciò nel mio cuore rimaneva una ferita. Per quanto avessi provato non ero riuscito a
superare questo ostacolo. Da mesi desideravo poche parole di approvazione del Maestro.
Ora, solo con me, mi fissò negli occhi con amore e comprensione profondi e disse: “Sono molto
contento di te. Voglio che tu lo sappia”. Di quale peso alleggerì il mio cuore con quelle semplici
parole!

Martedì 4 marzo, l’ambasciatore e il suo seguito visitarono Mount Washington. Fui io a servire il
Maestro e i suoi ospiti nella sala al piano superiore dove egli riceveva. Durante quella visita il
signor Ahuja, console generale dell’India a San Francisco, disse al Maestro: “Gli ambasciatori
vengono, gli ambasciatori vanno. Siete voi Paramahansaji, il vero ambasciatore dell’India in
America”.

Giovedì sera, 6 marzo, Yogananda, che stava ritornando da una gita in automobile, chiese a Clifford
Frederick, che era al volante, di condurlo a Rome Drive dietro a Mount Washington, e là, levando lo
sguardo all’imponente edificio, osservò con voce tranquilla: “Sembra un castello, non è vero?”.
I monaci avevano appena finito di praticare gli esercizi di rinvigorimento, allorché l’automobile
del Maestro penetrò nel viale di accesso. Come noi ci avvicinammo a lui, egli sfiorò ognuno di noi
benedicendoci. Parlò poi delle illusioni che i devoti incontrano lungo il sentiero che porta alla
perfezione.
“Non sprecate il vostro tempo”, disse. “Nessuno può donarvi il desiderio di Dio. E’ qualcosa che voi
stessi dovete coltivare nel vostro cuore”.
“Non dormite troppo. Il sonno è il modo inconscio di entrare in contatto con Dio. La meditazione è
uno stato al di là del sonno, supercoscienza contrapposta al subcosciente”.

“Non passate troppo tempo a scherzare. Anch’io amo ridere, ma il mio senso dell’umorismo è sotto
controllo. Quando sono serio, nessuno può indurmi a ridere. Coltivate la vostra felicità e allegria
interiori; siate seri, ma sempre sereni. Perché sprecare le vostre percezioni spirituali in inutili
parole? Quando avete riempito il secchio della vostra coscienza con il latte della pace,
conservatelo com’è; non sciupatelo con degli scherzi o dei discorsi oziosi”.
“Non sprecate il tempo in distrazioni inutili, come, per esempio, leggere tutto il giorno o cose del
genere. Se quanto leggete è istruttivo, va bene. Però vi dico: “Se leggete per un’ora, scrivete per
due ore, pensate per tre ore e meditate per tutto il resto del tempo. Anche se questa organizzazione
mi tiene occupato, non manco mai al mio quotidiano appuntamento con Dio”.

Nel seminterrato, alcuni minuti più tardi, scorse una cassa di noci di cocco verdi appena arrivate
dalla fattoria del fratello di Abie George in Florida. “Poco fa mentre ero in automobile, la Madre
Divina stava cercando di avvertirmi che queste noci di cocco erano arrivate, ma non l’ascoltai. Ero
troppo occupato a parlare!”. Ridendo divertito, il Maestro aprì una noce e bevve il latte. La sua
allegria mi parve però venata di irrealtà. Lo guardai negli occhi e vidi in essi uno sguardo
profondo, tranquillo, completamente distaccato da quanto stava facendo. In retrospettiva potrei dire
che pareva la cordialità di chi sa che sta accomiatandosi, ma non vuole che lo sappiano gli altri.
Cogliendo il mio sguardo, divenne improvvisamente quasi grave.

“Domani avrò una gran giornata”, disse. Si avviò verso l’ascensore, ma si arrestò sulla porta e
ripeté: “Sarà una gran giornata, domani. auguratemi buona fortuna”.
Il giorno seguente, il 7 marzo, scese per uscire. Quella sera avrebbe dovuto presenziare a un
banchetto al Biltmore Hotel in onore dell’ambasciatore indiano. “Pensate!”, disse, “ho prenotato una
camera al Biltmore. E’ l’albergo dove soggiornai la prima volta che venni in questa città!”.
Poi ripeté ancora: “auguratemi buona fortuna”.

Il Maestro mi aveva chiesto di presenziare al banchetto in compagnia di Dick Haymes, il popolare
cantante e attore cinematografico. Dick era da poco un discepolo; aveva ricevuto da me l’iniziazione
al Kriya Yoga.
Anni prima il Maestro aveva dichiarato: “Quando lascerò questa terra, me ne andrò parlando della mia
America e della mia India”. E in un canto sull’India che aveva scritto sull’aria della canzone
popolare My California, ne aveva parafrasato la fine con le parole: “So che quando morirò, sospirerò
di gioia per la mia solatia, immensa, antica India!”. In un’altra occasione, durante una conferenza,
aveva affermato: “Un attacco cardiaco è il modo più facile per morire. E’ così che io ho scelto di
farlo”. Quella sera tutte queste predizioni si sarebbero rivelate esatte.
Dopo il banchetto era stato annunciato un discorso del Maestro. Parlò brevemente in tono dolce,
quasi tenero, tanto che tutti i presenti, penso, si sentirono avvolti in una sottile, delicata
atmosfera d’amore. Parlò con calore dell’India e dell’America e di come esse contribuivano alla pace
e ad un reale progresso del mondo; parlò della futura cooperazione di questi due paesi e concluse
con la lettura del suo splendido poema ‘My India’.

Per tutta la durata del discorso ero stato occupatissimo a prendere appunti delle sue parole, gli
occhi piantati sul mio taccuino. Yogananda giunse agli ultimi versi del poema:

Là dove il Gange, le foreste, le caverne dell’Himalaya, gli uomini
[Sognano Dio.
Io sono santificato: il mio corpo ha toccato quel suolo!

“Suolo” divenne un sospiro strascicato. D’improvviso da ogni parte della sala si levarono grida
d’angoscia. Alzai lo sguardo.
“Cos’è?”, chiesi a Dick Haymes, seduto accanto a me. “Cos’è successo?”.
“Il Maestro è svenuto”, rispose.

Oh no, Maestro! Non sei svenuto. Ci hai lasciati. Ci hai lasciati! Il drammaturgo dimenticato
dentro di me gridò: “E’ un modo troppo perfetto per uscire di scena perché possa significare
qualcos’altro!. Mi affrettai verso il luogo dove giaceva il Maestro. Sul viso gli aleggiava
un’espressione beata. Virginia Wright era china su di lui e cercava disperatamente di rianimarlo. Il
signor Ahuja, il console generale, si avvicinò e mi cinse le spalle con un braccio per confortarmi.
(Mai, caro amico, dimenticherò quel tuo dolce atto di simpatia!).

Il corpo del Maestro fu portato a Mount Washington e adagiato amorosamente sul suo letto. Uno per
uno entrammo, piangendo, e ci inginocchiammo al suo capezzale.
“Madre!”, gridò Joseph fra le lacrime. “Oh madre!”. E invero il Maestro era stato una madre per
tutti noi… ah, molto più di una madre! La signorina Lancaster mi rivolse uno sguardo angosciato.

“Quante migliaia d’anni ci sono volute”, esclamò un anziano discepolo, guardando il corpo del
Maestro con serena e rispettosa meraviglia, “per produrre un volto così perfetto!”.

Più tardi, quando noi lasciammo la stanza, Daya Mata restò sola col corpo del Guru. Mentre lei lo
guardava, una lacrima sgorgò dalla palpebra sinistra del maestro e scese lentamente lungo la sua
guancia. Lei la asciugò amorosamente con un fazzoletto.

In morte come in vita, egli stava dicendo alla sua discepola prediletta e per suo tramite a tutti
noi: “Vi amo sempre, per cicli e cicli interminabili di tempo, incondizionatamente, senza alcun
desiderio che non sia la vostra felicità, eternamente, in Dio!”.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *