Le fondamenta del Buddhismo 3

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Le fondamenta del Buddhismo 3

di Peter Della Santina (parte terza)

Tratto da: < LE FONDAMENTA DEL BUDDHISMO > (INTRODUZIONE ALL’ABHIDHARMA)

– LE QUATTRO NOBILI VERITA’ –

In questo capitolo entriamo nel cuore dell’insegnamento del Buddha. Le Quattro Nobili Verità sono
una delle strutture portanti delineate dal Buddha. Sotto molti importanti aspetti, virtualmente
coincidono con la totalità della dottrina di Shakyamuni. La comprensione delle Quattro Nobili Verità
è sinonimo di realizzazione del fine della pratica buddhista. Lo indicò il Buddha stesso quando
disse che proprio l’incapacità a comprendere le Quattro Nobili Verità è la causa che ci fa correre
così a lungo nel ciclo della nascita e della morte. La loro importanza è evidenziata dal fatto che
il primo discorso del Buddha pronunciato per i cinque asceti nel Parco delle Gazzelle presso
Benares, è il Dhammacakkapavattana sutta, che tratta delle Quattro Nobili Verità e della Via di
Mezzo. Nella formulazione delle Quattro Nobili Verità abbiamo un estratto degli insegnamenti del
Buddha, sia a livello teorico che pratico. Esse sono: la verità della sofferenza, la verità della
causa della sofferenza, la verità della cessazione della sofferenza e la verità della Via.

Prima di passare a considerare le Quattro Nobili Verità singolarmente, vorrei portare l’attenzione
su alcuni fatti che riguardano la loro formulazione generale . A questo proposito va ricordato che
l’antica scienza della medicina godeva di un certo grado di sviluppo ai tempi del Buddha. Una delle
formule fondamentali usate dai praticanti della scienza della medicina nell’India antica era basata
su quattro aspetti: malattia, diagnosi, cura e medicina. Se considerate attentamente queste quattro
fasi applicabili alla scienza della medicina, vi sarà chiaro che sono molto simili alla formula
delle Quattro Nobili Verità:

1) la verità della sofferenza corrisponde chiaramente al primo elemento della malattia;

2) la verità della causa corrisponde altrettanto chiaramente all’elemento della diagnosi;

3) la verità della cessazione corrisponde al risultato della cura;

4) e la verità della Via corrisponde evidentemente al corso della terapia.

Quanto sopra per ciò che riguarda la natura terapeutica della formula delle Quattro Nobili Verità e
la sua somiglianza con le formule usate dagli antichi medici indiani. Ora vorrei toccare un
argomento che, sebbene concettuale, è molto importante per una corretta comprensione delle Quattro
Nobili Verità. Quando Sariputta, che sarebbe diventato in seguito uno dei principali discepoli del
Buddha, incontrò Assaji, uno dei cinque primi asceti che abbracciarono l’insegnamento del Buddha,
gli chiese che tipo di dottrina praticava. Si dice che Assaji abbia risposto che non poteva dire
molto su questi insegnamenti perché era da poco che li conosceva.

Comunque Assaji cercò di riassumere brevemente quanto poteva degli insegnamenti del Buddha, dicendo:
“Delle cose che provengono da una causa, il Tathagata ha parlato e anche della loro cessazione; così
insegna il grande asceta”. Si dice che Sariputta sia stato talmente impressionato da questa parole
di Assaji, che andò a cercare il suo amico Mogallana, anch’egli alla ricerca della verità, e i due
andarono dal Buddha e diventarono suoi discepoli.

Il brevissimo sunto di Assaji sugli insegnamenti del Buddha ci dice molto sul concetto centrale che
sta alla base della formula delle Quattro Nobili Verità. Indica l’importanza del rapporto tra causa
ed effetto. Il concetto di causa ed effetto è l’essenza degli insegnamenti del Buddha ed è anche
l’essenza della formula delle Quattro Nobili Verità. In che modo? La formula delle Quattro Nobili
Verità comincia con un problema, cioè con la prima verità, quella della sofferenza. Il problema
della sofferenza sorge da cause, cause espresse nella seconda nobile verità, la verità della causa
della sofferenza. Esiste poi una fine della sofferenza espressa nella terza nobile verità, la verità
della cessazione, e una causa che porta alla fine della sofferenza, cioè la Via che è l’ultima delle
quattro nobili Verità. Nella quarta nobile Verità la causa è assenza o in altre parole, quando si
eliminano le cause della sofferenza, l’assenza di tali cause è la causa della cessazione della
sofferenza.

Se osservate più attentamente le Quattro Nobili Verità vedrete che si dividono piuttosto
naturalmente in due gruppi. Le prime due verità, quella della sofferenza e della sua causa,
appartengono alla sfera della nascita e della morte. Simbolicamente possono essere rappresentate da
un cerchio, perché operano in modo circolare. Le cause della sofferenza producono sofferenza e la
sofferenza, a sua volta, produce le cause della sofferenza, che di nuovo a loro volta producono
sofferenza. Questo è il ciclo della nascita e della morte o samsara.

Le ultime due verità, la verità della cessazione della sofferenza e la verità della Via non
appartengono alla sfera della nascita e della morte. Possono essere rappresentate dall’immagine di
una spirale, in cui il movimento non è più solo circolare, ma è anche diretto verso l’alto, per così
dire, verso un altro piano di esperienza.

Tornando per un momento al concetto di causa ed effetto nel contesto delle Quattro Nobili Verità, è
chiaro che queste quattro verità hanno tra di loro un rapporto causale, all’interno dei due gruppi
sopra menzionati: la prima delle quattro (la verità della sofferenza) è il risultato della seconda
(la verità della causa), mentre la terza (la verità della cessazione) è il risultato dell’ultima
verità (la verità della Via).

Se abbiamo presente l’importanza del rapporto tra causa ed effetto, a proposito delle Quattro Nobili
Verità, credo che ci sarà più facile capirle. Similmente, rammentarci l’importanza del principio di
causa ed effetto ci sarà di grande aiuto man mano che procediamo nello studio degli insegnamenti di
base del Buddha, sia nel contesto di karma e rinascita che in quello dell’Origine interdipendente.
In breve, troveremo che il principio di causa ed effetto è come il filo conduttore di tutti gli
insegnamenti del Buddha. Prendiamo ora in considerazione la prima nobile verità, la verità della
sofferenza. Molti non buddhisti, ma anche qualche buddhista, trovano che la scelta della sofferenza
come prima nobile verità sia allarmante, e indichi pessimismo. Dicono che una tale scelta indica
pessimismo. Molte volte mi è stata rivolta la domanda del perché il buddhismo sia così pessimista.
Perché sceglie di cominciare con la verità della sofferenza? Ci sono vari modi con cui rispondere a
questa domanda. Cominciamo col considerare cosa vuol dire essere pessimisti, ottimisti o realistici.
Supponiamo che qualcuno soffra di una grave malattia, ma rifiuta di riconoscere la verità della sua
condizione. Il suo atteggiamento sarà ottimista, ma certamente è anche sciocco, in quanto preclude
la possibilità di cercare una cura per la malattia. E’ un comportamento da struzzo, è un nascondere
la testa sotto la sabbia per convincersi che non vi è pericolo. Se c’è un problema l’unica azione
sensata da fare è quella di riconoscere il problema e prendere le misure necessarie per eliminarlo.

L’insistenza del Buddha sulla necessità di riconoscere la verità della sofferenza non è perciò né
pessimista né ottimista: è semplicemente realistica. Inoltre, se il Buddha avesse insegnato solo la
verità della sofferenza e si fosse fermato lì, allora forse ci sarebbe una qualche ragione di
considerare pessimistico il suo insegnamento. Il Buddha cominciò con la verità della sofferenza e
poi insegnò la verità sulla causa della sofferenza e, cosa ancora più importante, insegnò la verità
della cessazione e il modo per giungere alla cessazione.

Sono certo che, se siamo onesti con noi stessi, dobbiamo ammettere che c’è qualche problema nella
nostra vita. Le cose non vanno come dovrebbero andare. Per quanto cerchiamo di sfuggire a questa
evidenza può capitare che da un momento all’altro – forse nel mezzo della notte, tra la folla o
semplicemente durante un qualsiasi giorno di lavoro – ci troviamo faccia a faccia con la realtà
della nostra situazione. Capiamo che dopo tutto c’è qualcosa che non va. Questo riconoscimento
spinge la gente a cercare qualche soluzione al problema fondamentale dell’infelicità e della
frustrazione. Certe volte sono soluzioni solo superficiali, come il cercare di eliminare
l’infelicità accumulando sempre più beni. Oppure la gente può cercare una soluzione ai problemi
fondamentali della vita in varie forme di terapia.

Nel buddhismo, la verità della sofferenza può essere divisa in due categorie, che a grandi linee
sono quella fisica e quella mentale. La sofferenza fisica include il dolore della nascita, della
vecchiaia, della malattia e della morte. Forse ricorderete che nel capitolo terzo abbiamo detto che
il principe Siddhartha entrò in contatto con la vecchiaia, la malattia e la morte, quando si era
imbattuto in un vecchio, in un malato e in un cadavere. C’è una quarta forma di sofferenza, la
sofferenza della nascita. La nascita è sofferenza, sia per il dolore fisico che il neonato
sperimenta, sia perché è a causa della nascita che si sviluppano naturalmente tutte le altre forme
di sofferenza, come la vecchiaia e il resto. La nascita è come la porta principale attraverso la
quale passano tutte le sofferenze. Credo che non ci sia bisogno di dilungarsi sulla sofferenza della
vecchiaia, della malattia e della morte. Tutti abbiamo visto la sofferenza della vecchiaia,
l’incapacità di muoversi bene e di pensare coerentemente. Molti di noi hanno sperimentato
personalmente la sofferenza della malattia e anche se siamo così fortunati da aver goduto di buona
salute, abbiamo certamente visto la sofferenza di qualcun altro malato. E ancora, tutti abbiamo
visto la sofferenza della morte, il dolore e la paura che la persona morente prova. Queste
sofferenze sono parte integrante della vita. Per quanto felice e contento uno possa sentirsi in un
certo momento, non potrà mai evitare per sempre di imbattersi nella sofferenza della nascita,
vecchiaia, malattia e morte.

Oltre alle sofferenze fisiche ci sono poi quelle mentali: la sofferenza della separazione da chi ci
è caro, la sofferenza di dover stare con chi non ci piace e la sofferenza dei desideri frustrati.
Spesso, nel corso della vita, veniamo separati da persone o luoghi che amiamo. Problemi di lavoro o
problemi nazionali a volte ci costringono a lasciare la nostra casa e coloro che amiamo. I
cambiamenti e la morte ci possono separare da persone e luoghi che amiamo. Inoltre, nel corso della
vita, spesso entriamo in contatto con persone e situazioni che avremmo voluto evitare, come ad
esempio un collega o un nostro superiore sul posto di lavoro che ci sta antipatico. Una tale
situazione può renderci la vita e il lavoro decisamente insopportabili. La sofferenza di dover
subire ciò che non ci piace può prendere forme più evidenti, quali esperienze di inondazioni,
incendi, carestia, persecuzione, guerra e altri disastri, naturali o provocati dall’uomo. Infine
molti, o prima o dopo, sperimentano la frustrazione di desideri non realizzati, quando non riescono
ad ottenere ciò che vogliono, sia esso un lavoro, una macchina, una casa o anche un partner.

Queste sofferenze fisiche e mentali fanno parte della trama stessa dell’esistenza umana. E la
felicità? Non c’è alcuna felicità nella vita? Certo che c’è. Però la felicità che proviamo nel corso
della vita è impermanente. Finché siamo giovani e sani possiamo trovare felicità in situazioni
privilegiate o in compagnia della persona amata; eppure tutte queste esperienze felici sono
condizionate e perciò stesso impermanenti. O prima o dopo proveremo sofferenza.

Ora, se vogliamo veramente risolvere il problema della sofferenza, se vogliamo ridurla e infine
eliminarla, dobbiamo identificarne la causa. Se va via la luce e vogliamo eliminare il buio,
dobbiamo identificare la causa del problema. E’ un corto circuito, una valvola saltata o è mancata
l’elettricità generale? Allo stesso modo, una volta identificato il problema della sofferenza,
dobbiamo risalire alle cause. Possiamo fare qualcosa per risolvere il problema solo se ne capiamo la
causa.

Qual è, secondo il Buddha, la causa della sofferenza? Il Buddha ha insegnato che la vera causa della
sofferenza è la bramosia. Ci sono vari tipi di bramosia: bramosia per esperienze piacevoli,
cupidigia per cose materiali, bramosia per la vita eterna e bramosia per la morte eterna. A tutti
piace il buon cibo, la propria musica preferita, una piacevole compagnia e così via. Quando abbiamo
queste cose ne vogliamo sempre di più. Cerchiamo di prolungare queste piacevoli esperienze e di
goderne sempre più spesso. Eppure, ci sembra di non essere mai veramente soddisfatti. Per esempio
vediamo che, quando ci piace molto un certo cibo e ne mangiamo ripetutamente, presto ce ne
stanchiamo.

Proviamo a cambiare gusto; il nuovo cibo ci piace, ne godiamo, eppure dopo un po’ ce ne stanchiamo.
Così continuiamo a cercare qualcos’altro. Ci stanchiamo anche della nostra musica preferita. Ci
stanchiamo degli amici. Cerchiamo sempre qualcosa in più. Talvolta questa caccia alle esperienze
piacevoli porta a forme di comportamento distruttivo, come con l’alcool e la droga. Tutto ciò
rientra nella bramosia di esperienze piacevoli. Si dice che cercare di soddisfare la cupidigia di
esperienze piacevoli è come bere acqua salata per smorzare la sete; in effetti non fa che
aumentarla.

Non solo desideriamo piacevoli esperienze, ma anche oggetti materiali. Lo si può riscontrare
chiaramente nei bambini, anche se tutti noi ne soffriamo. Portate un bimbo in un negozio di
giocattoli e vedrete che vuole tutto quello che c’è nel negozio. Infine, convinto dai genitori, ne
sceglie uno, ma appena ce l’ha, comincia subito a perdere interesse per esso. Dopo qualche giorno il
giocattolo è abbandonato in un angolo e il bambino ne vuole un altro. Ma noi siamo veramente diversi
dai bambini? Appena comprata una nuova macchina, non cominciamo forse a desiderarne subito un’altra
migliore? Quando ci trasferiamo in una nuova casa spesso ci viene da pensare: “Questa casa va bene
ma sarebbe meglio se ne trovassi una più grande, forse con il giardino, o con la piscina”. E così
avviene per ogni cosa, che si tratti di una bicicletta, di un video-registratore o di una Mercedes.

Si dice che la bramosia di ricchezze e di cose materiali comporti tre tipi di problemi che causano
sofferenza. Il primo è quello di ottenere quanto si desidera: bisogna lavorare parecchio, fare
economie e rinunce per comprare una nuova macchina. Poi bisogna averne cura e proteggerla. Vi
preoccupate che qualcuno possa danneggiare la macchina o che la nuova casa venga rovinata da un
incendio, dal vento o dalla pioggia. Infine c’è il problema del rischio di perdere ciò che si
possiede perché, o prima o dopo, tutto si rovina e noi stessi moriremo.

La cupidigia di esistere o di una vita eterna è anche causa di sofferenza. Tutti desideriamo
esistere, vivere. Malgrado la sofferenza e le frustrazioni che proviamo, noi tutti vogliamo vivere
ed è proprio questa bramosia che ci porta a continuamente rinascere.

Poi c’è il desiderio per la non esistenza, cioè il desiderio di annullamento, che potremmo chiamare
il desiderio di una eterna morte. Questa cupidigia si esprime nel nichilismo, nel suicidio e altro.
La bramosia di esistere è l’estremo opposto della bramosia di non esistere.

A questo punto, forse vi chiederete: “Basta il solo desiderio a provocare la sofferenza? Basta il
solo desiderio a spiegare la sofferenza? La risposta è così semplice?” La risposta è no. C’è
qualcosa di più profondo della bramosia, qualcosa che in un certo senso è la base stessa della
bramosia, cioè l’ignoranza.

Ignoranza significa non vedere le cose così come sono, non riuscire a capire la verità della vita.
Coloro che si considerano molto istruiti, possono offendersi al sentirsi dire che sono ignoranti. In
che modo siamo ignoranti? Si sa che senza le giuste condizioni, senza il giusto addestramento e
senza i giusti strumenti, non siamo in grado di vedere le cose come sono in realtà. Nessuno di noi
si renderebbe conto delle onde radio se non ci fosse il ricevitore radio; né ci renderemmo conto dei
batteri in una goccia d’acqua se non ci fosse il microscopio, o della realtà subatomica se non fosse
per gli ultimi sviluppi tecnici del microscopio elettronico. Questi fatti del mondo in cui viviamo
li possiamo osservare e conoscere solo perché ci sono particolari condizioni, addestramento e
strumenti.

Quando diciamo che l’ignoranza non riesce a vedere le cose così come sono realmente vuol dire che,
finché non sviluppiamo la mente e attraverso di essa la saggezza, rimaniamo ignoranti della vera
natura delle cose. Conosciamo tutti la paura che si prova al vedere qualcosa di informe nel buio al
lato della strada mentre si torna a casa la sera tardi. La cosa indistinta potrebbe benissimo essere
solo il ceppo di un albero tagliato, ma l’ignoranza ci fa accelerare il passo. Forse i palmi delle
mani cominciano a sudare e arriviamo a casa in preda al panico. Se la strada fosse stata illuminata
non ci sarebbe stata paura né sofferenza, perché non ci sarebbe stata ignoranza circa la forma
intravista nel buio. Avremmo visto il ceppo per ciò che è.

Nel buddhismo si parla di ignoranza circa la natura del sé, dell’anima o personalità. E’ l’ignoranza
che porta a vedere il sé come qualcosa di reale. Ed è essa la causa principale della sofferenza.
Crediamo che il corpo, i sentimenti e le idee siano un sé, un’anima, una persona. Crediamo che ci
sia un ego reale, indipendente, così come prendiamo il ceppo per un potenziale assalitore. Una volta
ammessa l’idea di un sé, sorge naturale l’idea di qualcosa separato e diverso da sé. E quando sorge
il concetto di qualcosa di diverso da sé, automaticamente si guarda a questo qualcosa solo in
funzione della sua utilità verso l’ego o della sua ostilità ad esso. Questi elementi della realtà
concepiti diversi da sé sono quindi o piacevoli o spiacevoli, desiderabili o indesiderabili.

Dal concetto di un sé e di qualcosa al di fuori da sé, sorgono naturalmente cupidigia e avversione.
Una volta che crediamo nella vera esistenza di un sé, nella reale esistenza indipendente di un’anima
o persona divisa dagli oggetti che sperimentiamo come appartenenti al mondo esterno, vogliamo quegli
oggetti che riteniamo utili e benefici ed evitiamo quelle cose che non riteniamo benefiche o che
addirittura crediamo dannose. Siccome non siamo in grado di vedere che in questo corpo e in questa
mente non c’è un permanente sé indipendente, non facciamo che alimentare l’attaccamento e
l’avversione. Dalla radice dell’ignoranza cresce l’albero del desiderio, attaccamento, avidità,
avversione, odio, invidia, gelosia e tutto il resto. Questo grande albero delle afflizioni emotive
cresce dalla radice dell’ignoranza e porta i frutti della sofferenza. L’ignoranza è la prima causa
della sofferenza mentre l’avidità, l’attaccamento, l’avversione e tutto il resto sono le cause
secondarie o immediate della sofferenza.

Avendo identificato le cause della sofferenza siamo ora in grado di indebolirle e infine eliminarle.
Come il fatto di identificare la causa di un dolore fisico ci mette in grado di eliminarlo,
risalendo ed eliminando la causa, così quando identifichiamo la causa della sofferenza mentale,
siamo in grado di diminuirla ed infine porre fine alla sofferenza stessa eliminandone tutte le
cause, cioè ignoranza, attaccamento, avversione e così via. Questo ci porta alla terza delle Quattro
Nobili Verità, la verità della cessazione della sofferenza.

Quando cominciamo a parlare della fine della sofferenza, il primo ostacolo da superare è il dubbio
che sorge in alcune menti sulla reale possibilità di arrivare alla cessazione della sofferenza. Si
può veramente porre fine alla sofferenza? C’è veramente una terapia? E’ in questo contesto che la
fede o fiducia gioca un ruolo importante. Quando parliamo di fede o fiducia nel buddhismo non si
intende una cieca accettazione di una certa dottrina o credenza. Piuttosto, fede significa ammettere
la possibilità di realizzare lo scopo della cessazione della sofferenza.

A meno che non ci sia fiducia che il dottore possa curare un dolore fisico, non andremmo mai da lui,
non cominceremmo a fare una terapia e potremmo quindi morire di una malattia che avremmo potuto
curare, solo che avessimo avuto abbastanza fiducia da chiedere aiuto. Allo stesso modo, la fiducia è
la possibilità di venire curati da una sofferenza mentale ed è un pre-requisito essenziale per
intraprendere la pratica. Però potremmo obiettare: “Come posso credere alla possibilità del Nirvana
(la completa cessazione della sofferenza e la suprema felicità) se non l’ho mai sperimentata?” Ma,
come ho detto prima, nessuno potrebbe udire le onde radio se non fosse per l’invenzione del
ricevitore radio e ugualmente nessuno potrebbe vedere la vita microscopica se non fosse per
l’invenzione del microscopio. Anche ora molti di noi non hanno mai visto la realtà subatomica
direttamente, eppure ne accettiamo l’esistenza perché ci sono alcuni di noi che l’hanno studiata e
osservata con gli strumenti appropriati.

Allo stesso modo non dobbiamo respingere la possibilità di raggiungere la completa cessazione della
sofferenza o Nirvana, solo perché non l’abbiamo sperimentata noi personalmente. Forse conoscete la
vecchia storia della tartaruga e del pesce. Un giorno la tartaruga lasciò il laghetto per passare
qualche ora sulla riva. Quando ritornò in acqua parlò al pesce della sua esperienza sulla
terraferma, ma il pesce non le credette. Il pesce non poteva credere che esistesse la terraferma
perché era una realtà completamente diversa da quella in cui lui viveva e che gli era famigliare.

Come poteva esserci un posto in cui gli esseri camminano invece che nuotare, che respirano aria e
non acqua? Ci sono molti esempi nella storia, di questa tendenza a rifiutare ciò che non si adatta a
quanto crediamo o ci è famigliare. Quando Marco Polo tornò in Italia dall’Oriente fu imprigionato,
perché i suoi racconti di viaggio non corrispondevano a quello che allora si credeva fosse la natura
del mondo. E quando Copernico avanzò la teoria che il sole non gira intorno alla terra ma viceversa,
nessuno gli credette e fu preso in giro.

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