Le 4 meditazioni protettrici

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Le 4 meditazioni protettrici

del monaco theravada Isi Dhamma

“Le 4 meditazioni protettrici”

Naturalmente, tutte le meditazioni insegnate da Buddha posseggono
delle virtù protettrici. Oltre ai benefici naturali della meditazione,
come la concentrazione e la calma – per citarne qualcuno, i 4 oggetti
di meditazione ci offrono le condizioni essenziali alla nostra pratica
nel Dhamma: la fiducia, la sicurezza, il distacco ed il sentimento di
urgenza.

Questi 4 oggetti, che chiamiamo “le 4 meditazioni protettrici” sono:
buddhānussati, mettā bhavana, asubha e maraṇānussati.

Isi Dhamma ha detto: (Nel gioco delle carte dei 40 oggetti di
meditazione,le 4 meditazioni protettrici sono i 4 assi)

– Buddhānussati –

Qual è la protezione buddhānussati?

La fiducia. Noi otteniamo fiducia nel Dhamma, nella meditazione, nella
guida, nelle nostre proprie capacità.
Quale ostacolo combatte?

Il dubbio. Quando dubitiamo, ci perdiamo in penseri inutili, cadiamo
nell’inquietudine, ci affatichiamo, scivoliamo nello scoraggiamento.
Come meditare su buddhānussati?

Scegliamo une delle 9 qualità di Buddha, per esempio arahaṃ. La quale
significa che egli è il più nobile degli esseri, poiché è il solo
capace di giungere da se stesso alla libertà ed anche il solo in grado
di concepire l’insegnamento del Dhamma (per farne beneficiare gli
altri).

Ci impregnamo in modo pieno di sentimento che può, secondo la nostra
esperienza, o secondo i momenti, manifestarsi come una devozione, un
rispetto, un omaggio, un ringraziamento, un’ammirazione, o anche una
fusione di molti di questi aspetti. Per dare più intensità al nostro
sentimento di devozione (se ve ne fosse bisogno), possiamo pensare
alle pāramī eccezionali che Buddha ha sviluppato (in materia di
determinazione, di resistenza, di sforzo, ecc.) per farci ottenere la
maniera pronta ad una liberazione molto più rapida e sicura di quanto
avrebbe dovuto esprimersi attraverso un numero inimmaginabile di
sofferenze.

Ci sforziamo a che il nostro spirito sia abitato unicamente da questo
sentimento di devozione, di gratitudine, coscienti che le nostre
difficoltà, anche le peggiori, sono talmente insignificanti,
paragonate a tutto ciò che Buddha ha dovuto provare per aprirci “la
porta di uscita”, per la quale (in paragone) ci bastano ora uno o due
passi ad oltrepassarla. Onde aiutarci ad ancorare questo buddhānussati
alla nostra interiorità, possiamo associare il nostro senso
devozionale scelto (nel nostro esempio, arahaṃ), ripetendolo
lentamente e mentalmente. Pronunciarlo a bassa voce può talora portare
un aiuto supplementare, mentre si comincia una seduta di meditazione,
per esempio.

Con un po’ di allenamento, la ripetizione mentale della parola porta
naturalmente con sé il sentimento di devozione, legato al suo
significato. Possiamo, a questo punto, abbandonare la parola, restando
concentrati solo sull’oggetto — ossia, il sentimento di devozione
verso Buddha — se sentiamo la necessità di questo supporto o passo.
Sicuramente non hanno importanza i termini o il pronunciarli. Conta
solo lo stato mentale.

Gandhi ha detto:

E meglio mettere il proprio cuore nella preghiera senza trovare le
parole che trovare le parole senza mettervi il cuore.

Per meglio pecepire o per accrescere il buddhānussati possiamo anche
aiutarci con i gesti, come giungere le mani in segno di rispetto,
oppure guardare la statua di Buddha o anche, immaginarlo davanti a
noi, radioso…

Perché buddhānussati apporta la fiducia?

Una mente piena di ammirazione e di riconoscenza verso Buddha e verso
il suo straordinario percorso genera solo gioia, motivazione e
determinazione. Queste qualità sono i principali antidoti a tutto ciò
che impedisce alla fiducia (sadhā) di radiare. Inoltre noi
comprendiamo che un essere tanto nobile, tanto rimarchevole e
benefattore come Buddha non ha potuto insegnare che cose benefiche,
giuste ed efficaci (egli parla, sovente, del fatto che chiunque
applicherà diligentemente i suoi consigli non potrà che progredire con
velocità verso la Realizzazione). Tuttavia, sarà solo la nostra
diretta esperienza ad offrirci, poco a poco, una solida fiducia,
poiché a quel punto saremo in grado di constatare in modo diretto, da
noi stessi, l’efficacia di questo insegnamento.

Per apportare i suoi frutti, la meditazione su buddhānussati deve
essere costante e regolare. Non dimentichiamoci difatti che la fiducia
rimane stabile soltanto a partire dal primo stadio di Realizzazione
(sotapāti).

(Esperienza personale)

Ignorando che si trattasse di un oggetto di meditazione insegnato da
Buddha, ho evitato per lungo tempo buddhānussati, pensando fosse una
sorta di preghiera cieca. Per essere corretto, ho desiderato tuttavia
provare, anche se mai mi ero trovato in verità sotto la presa del
dubbio nella mia pratica. Da quel momento la mia visione è
completamente cambiata. Ho allora realizzato quanto critici e
condiscendenti fossero i miei pensieri verso coloro che avevano un
modo di agire diverso dal mio. Oltre a focalizzarmi sugli aspetti
favorevoli dei diversi modi di seguire gli insegnamenti, ciò ha
influenzato, nella mia meditazione, l’entusiasmo, la motivazione e
l’apertura della mente!
mettā bhāvanā

Qual è la protezione di mettā?

La sicurezza. Ci si ritrova al riparo dai bisogni vitali,
dall’inimicizia e dai grossi problemi.
Quale ostacolo combatte?

L’ostilità. Quando l’ostilità si installa nello spirito si aprono le
porte dall’odio, dell’insoddisfazione, della gelosia e dei pensieri
malevoli. Fatto che attira inevitabilmente l’insicurezza, il
malessere, il rigetto e difficoltà di ogni genere.
Come meditare su mettā?

Come molti oggetti di meditazione, mettā bhavana incarna un principio
estremente semplice; solo la sua applicazione può prendere del tempo.
Immergiamo, più che sia possibile, il nostro spirito nella benevolenza
pura; poi, prolunghiamo questo stato mentale a lungo restando ben
concentrati su di esso. E ogni volta che possiamo riportiamo la nostra
attenzione su questo oggetto.

Affinché ci sia di aiuto allo sviluppo della benevolenza, cominciamo a
scegliere quale obiettivo, delle persone su cui proiettarla. Ed
essendo gli individui un supporto, in mettā bhāvanā, in grado di
incentivare la benevolenza, è opportuno non dare ad essi molta
attenzione. Dobbiamo rimanere focalizzati esclusivamente sul
sentimento della benevolenza.

La prima persona su cui dirigere la benevolenza dobbiamo
imperativamente essere noi stessi, per una ragione evidente. Quando
noi diffondiamo della benevolenza verso qualcuno, questa attraversa
obbligatoriamente noi. Come potere, allora “inviare del benessere”,
quando ne siamo “a secco”? Come dare dell’amore quando non ne esiste
neppure per noi? E’ come una centrale elettrica che non può
distribuire dell’elettricità in un paese, senza esserne provvista.

Ripetere una formula si dimostra di grande aiuto, soprattutto nei
primi tempi della pratica (per qualche settimana, ad esempio), oppure
a guisa di trampolino, durante i primi 5 oppure 10 minuti di ogni
sessione seduta. Ciascuno può scegliere la formula che meglio gli si
adatta, senza che essa sia una frase troppo lunga. Per esempio: “Possa
io stare bene, al riparo di ogni pericolo, in buona salute ed in
Pace!” Un esempio breve è: “Possa stare bene ed in Pace!”

Vengono indicati diversi metodi per la scelta degli obiettivi verso
cui emanare la benevolenza, come l’estensione progressiva nella zona;
prima a tutti gli esseri (compresi coloro che sono invisibili),
situati nella nostra stessa casa; poi quelli del quartiere o del
villaggio; poi della regione, del paese, del mondo; ed infine
l’assieme delle esistenze nell’universo.

Un altro sistema sta nel partire dall’obiettivo più facile sino a
raggiungere quello più difficile. Noi siamo sempre quello più
semplice. Se, a volte, abbiamo l’impressione che è più agevole
destinare benevolenza agli altri, più che a se stessi, si tratta di
un’idea errata, prodotta generalmente dal fatto che si crede si tratti
di egoismo o di cosa inutile. Al contrario, è una grande necessità,
particolartmente se abbiamo poca fiducia in noi.

(Proverbio francese): La carità ben gestita comincia da noi medesimi.

Ripetere in modo circolare questo tipo di formulazione può sembrare un
fatto che manchi di naturalezza, all’inizio; e lo stesso accade
d’altronde allorché dirigiamo tutto il flusso della nostra
benevolenza, in modo continuo, verso persone che noi non apprezziamo
abitualmente. Come in ogni campo, nessun allenamento è facile
all’inizio. Il successo viene con la persistenza e con la pazienza.

Una volta che ci sentiremo saturi di mettā, riguardo a noi stessi,
potremo cambiare obiettivo. Sceglieremo allora la persona che
apprezziamo di più: il nostro migliore amico, o la nostra migliore
amica – e, in ogni caso, mai una persona di sesso opposto o, più
precisamente, eviteremo il sesso che ci attrae (nel caso fossimo
sedotti dai due generi diversi, visualizzeremo delle persone verso le
quali non proviamo attrazione sensuale). In caso contrario il fatto di
potenziare la benevolenza genererebbe, più o meno inevitabilmente, del
desiderio sensuale (se non sessuale) per tale persona, e ciò
corromperebbe la purezza della nostra meditazione. Non ci
dimentichiamo che se la benevolenza è uno stato spirituale benefico,
il desiderio è invece pernicioso.

Quando mettā “scorre” bene, è come un climatizzatore emanante
dell’aria che rinfresca costantemente, qualunque sia la persona che ne
è l’obiettivo. Sta ad ognuno regolarne l’utilizzo: ogni ora, ogni
giorno, ogni settimana. Dopo i nostri migliori amici, continueremo ad
augurare le cose migliori, con tutta la sincerità, orientando la
benevolenza verso una persona che ci sia indifferente; ossia, verso
chi non apprezziamo, né deprezziamo in modo particolare. Il successivo
oggetto di mettā sarà il nostro “peggior nemico”; o se non ne abbiamo,
chi ci può avere causato dei torti, o che pare ostile nei nostri
riguardi. E se invece tutti sono nostri amici, potremo cercare
qualcuno che sia nocivo verso altri.
La persona scelta (qualunque ne sia il tipo) potrà trovarsi all’altro
capo del pianeta; ma dovrà, in ogni caso, essere conosciuta
personalmente da noi e, di preferenza, viva. Infine, quale ultima
scelta, indirizzeremo tutta la nostra bontà all’assieme degli esseri,
umani, animali ed altri, sia che li si conosca, oppure no; o che li si
riesca a visualizzare o meno. Dopo di ciò, riprenderemo il ciclo dal
primo obiettivo scelto; oppure continueremo senza di esso, se
realizziamo che la nostra diffusione di mettā è sufficientemente
importante e regolare per fare a meno di un supporto; salvo a
riprenderlo, ogni vlta che sia necessario.

Perché mettā bhāvanā dona la sicurezza?

Il potere di mettā è potentissimo. Quando è ben sviluppato, lo spirito
entra in armonia con ogni elemento che si pone in contatto con lui.
Più la corrente del fiume della benevolenza è forte, meno le nuvole
delle ostilità possono risalirla. Al contrario, assumono la tendenza a
farsi trasportare nella (buona) direzione dell’acqua.

mettā procura, sia una sicurezza interna, che esterna. Interna, perché
gli stati mentali malsani non possono interferire su di uno spirito
bagnato da una corrente potente e continua di bontà, di benessere, di
amore, di amicizia profonda, di gioia pura. Esterna, perché nessun
essere (umano, oppure no) può ostacolare chi radia una tale energia
benefica, così grande. Se si avvicina un individuo ostile, le sue
cattive intenzioni fondono come neve al sole. Come il sole, più lo
spirito brilla di benevolenza e più il suo raggio di influenza
positiva è vasto ed intenso.

Aśvaghoșa ha detto: “La vera religione è la benevolenza verso tutti gli esseri.”

Non è necessario essere un meditante molto avanzato per sperimentare
un’anticipazione di mettā. Chiunque può percepirla – sicuramente ad un
livello attenuato – anche se non ne ha mai sentito parlare e né vi ha
mai prestato attenzione. Per esempio, quando ci sentiamo molto male,
un piccolo nulla può fare esplodere in noi la collera e di conseguenza
farci proferire ogni sorta di ingiurie. Se ci si richiedesse di
reagire, nel momento in cui tutto va per il meglio, e ci sentiamo
pieni di gioia e di affetto, saremmo incapaci di comportarci male.
Potremo al massimo recitare la parte di una persona collerica; ma uno
stato mentale realmente ostile non riuscirebbe assolutamente a nascere
e ad apparire in tale momento. Ciò che è positivo con mettā bhāvanā è
che tali momenti benefici non sono occasionali, ma più o meno costanti
e l’intensità della serenità e della gioia supera di gran lunga le
nostre migliori immaginazioni!

In più mettā bhāvanā possiede un potere magico, che si estende ancora
più lontano. Se l’esperienza permettesse di constatarlo regolarmente,
nessuno riuscirebbe a fornire una spiegazione razionale a questo
fenomeno, che implica delle leggi molto complesse per la mente umana,
come il kamma, o il movimento degli elementi (o delle “energie”). Il
fatto è che le situazioni posseggono una forte tendenza a succedersi
molto positivamente, per quanto riguarda uno spirito che possiede la
purezza. Il fatto non riguarda solo mettā, ma ogni espressione
spirituale limpida che, per definizione, solo la concentrazione può
permettere. Si può ben comprendere quanto sia naturale, allorché ci
troviamo immersi nel desiderio che tutti stiano bene, difesi da ogni
pericolo, in buona salute e Pace, che ogni cosa in cambio ci aiuti e
ci protegga.

Raccogliamo ciò che seminiamo. Mettā offre una così grande capacità di
benessere e di gaudio, da proteggere più di ogni altra cosa, giungendo
sino a metterci ben al riparo dalla minima situazione non
confortevole. Alcuni amano dire e pensare che i deva contribuiscono a
proteggere gli umani, che adottino degli stati spirituali nobili, o
concentrati, influenzando gli avvenimenti (per evitare loro degli
incidenti, e fornirli di quanto abbisognino…). Per prudenza, è
sempre meglio non “prendere per oro colato” quanto non possiamo
verificare da noi stessi. Tuttavia, pensare in questo modo ci può a
volte motivare a progredire sempre in direzione del buon senso; e
questo è l’importante.
Beninteso, esistono delle eccezioni alla protezione offerta dalla
benevolenza; ma sono rare. Ciò detto, quando un meditante, assorbito
negli stati jhanici di mettā, muore di una malattia, possiamo
facilmente immaginare che ciò avviene, probabilmente, affinché egli
rinasca nelle migliori condizioni. Per quanto se ne dica, nulla può
cancellare i nostri debiti karmici. Anche se risale ad un grande
numero di esistenze passate, quando un akusala (atto nocivo) giunge a
maturità, non esiste alcun modo per sfuggirvi. Anche Buddha ha
continuato a regolare i suoi “debiti” sino alla fine della sua ultima
vita.

(Esperienza personale)

Quando adotto uno spirito benevolo, le cose si svolgono in modo
nettamente più fluido. Prestandoci attenzione, chiunque può constatare
la stessa cosa. Ogni volta che mi sono trovato in una situazione (non
rara, quando si è un rinunciante che si sposta), in cui, senza neppure
un soldo, non sapevo proprio dove cercarmi un alloggio, come potere
mangiare, ecc., più ho mantenuto uno spirito benevolente, senza alcuna
attesa, nè alcun timore, e più le cose si sono svolte meglio di quanto
non avessi mai potuto sperare. Grazie a mettā, si resta ancorati nel
presente e si guadagna in tranquillità. La pace impedisce
l’inquietudine, e genera l’accontentarsi: rimedio ineguagliabile
contro le situazioni non confortevoli.

Asubha

Qual è la protezione di asubha?

Il distacco. Otteniamo una libertà dello spirito, che ci permette un
investimento senza ostacoli nella nostra pratica, grazie al distacco
da quanto costituisce generalmente il più ingombrante ed il più tenace
degli impedimenti.

Quale ostacolo combatte?

Il desiderio carnale, in preda alle pulsioni lubriche, o ai sentimenti
passionali (da non confondersi con mettā,”l’amore che ama”) il nostro
avanzamento sulla via della purezza se ne ritrova del tutto
paralizzata.

Ajahn Chah ha detto:

Bisogna andare un po’ contro corrente a quanto ci attrae ed alle
nostre repulsioni, per realmente vedere il Dhamma.

Come meditare su asubha?

Dirigiamo tutta la nostra tensione sul carattere repellente del corpo
umano. Evidentemente, un cadavere decomposto costituisce un oggetto di
meditazione molto efficace. Poiché non è facile, ai giorni nostri, in
un paese occidentale, avere occasione di avvicinarsi ad un cadavere,
per delle ore, possiamo meditare su dei “cadaveri viventi”; o su delle
zone scelte, ossia delle immagini.

Con il sentimento di disgusto ben realizzato (asubha significa
“spiacevole”), unito alla ben chiara realizzazione che l’intero corpo
è costituito esclusivamente di elementi ripugnanti (carne, ossa,
sangue, grasso, fegato, polmoni, cervello…) ci concentriamo
pienamente su questo oggetto, il più a lungo che sia possibile,
ritornandovi sopra ogni volta che la mente “scivola” altrove.

Perché asubha dona il distacco?

Una volta che lo spirito si è abituato bene ad osservare il corpo,
come esso è in realtà (un assieme di elementi disgustosi) e che una
buona concentrazione gli impedisce di generare dei fantassmi
abitualmente tanto compulsivi, esso non può ancora ricadere
nell’illusione dell’asservimento al desiderio carnale.

(Esperienza personale)

Durante i numerosi anni di vita monastica, anche se l’astinenza mi
preservava dalla corsa alienante verso i piaceri sensuali, ciò non
bastava ad impedire che in me emergessero delle pulsioni sessuali, di
una forza, a volte, inaudita. Dopo un allenamento – intermittente, ma
ben dosato – durato per qualche mese, sono riuscito, infine, a
prendere un sufficiente controllo sul desiderio, per sfuggirgli prima
che i fantasmi giungessero ad assumere i pieni poteri.

Dosando poco sforzo, ma applicato ad ogni momento “sensibile”, vedere
della “carne molto poco appetitosa”, al posto di “forme deliziose ed
eccitanti” diviene progressivamente un riflesso naturale.

Maraṇānussati

Qual è la protezione di maraṇānussati?

Il sentimento di urgenza. Otteniamo un sentimento di urgenza per la
pratica del Dhamma; per lo sviluppo di una condotta irreprensibile,
per la meditazione.

Buddha ha detto:

L’uomo che insiste a cogliere i piaceri come dei fiori
è afferrato dalla morte, che lo porterà via
come un torrente straripato trascina oltre un villaggio addormentato.

Quale ostacolo combatte?

La noncuranza. Si tratta semplicemente del peggiore di tutti gli
ostacoli; tuttavia, non così difficile da evitare, se la nostra presa
di coscienza è sufficientemente profonda. Fino a che restiamo
spensierati, ci compiacciamo delle nostre impurità. Restiamo attaccati
al ciclo delle vite, ci perdiamo nell’illusione, ci allontaniamo, a
grandi passi, dalla via della ragione, della Saggezza, della
Realizzazione, e sgretoliamo le nostre future possibilità ad
incontrare nuovamente il Dhamma.

Come meditare su maraṇānussati?

Procediamo secondo lo stesso principio di buddhānussati, o di mettā
bhāvanā (vedere più in alto, nella pagina). Qui il concetto sul quale
portare la propria attenzione è una cosa che tutti sanno, senza
sapere: il fatto che noi possiamo morire non importa quando (ed
inevitabilmente). Lo sappiamo perché conosciamo il fatto che la morte
non risparmia nessuno e che può apparire in qualunque momento. Lo
sappiamo perché il nostro vorace attaccamento alla vita ha, da sempre,
forgiato in un piccolo (ma influente) angolo della nostra coscienza,
che “la morte non mi riguarda; in ogni caso, non per ora; sono qui da
tanti anni, e non vi è alcuna ragione di scomparire ora…” Una prova?
Quando si ascolta il termine “vita”, esso assume nel nostro spirito i
significati di “per sempre”, “per l’eternità”. Senza un buon
allenamento maraṇānussati chi potrebbe, invece, pensare che “a vita”
può anche significare “forse, per un tempo molto breve”? Chi
supporrebbe, vedendo un articolo garantito a vita: “Se acquistassi
quello garantito un anno, potrebbe, invece, durare più a lungo”?
(nell’idea che la durata di una garanzia a vita si limita a quella
della vita dell’acquirente e che una garanzia di un anno conserva la
sua durata anche se il proprietario cambia”).

Per meditare su maraṇānussati, sceglieremo dunque una frase semplice,
che possa evocare per il meglio il carattere non solo ineluttabile ma
pure inatteso della morte. Per esempio: “Il momento della morte è
incerto; posso morire anche domani, nella prossima ora, o minuto,
all’improvviso!”. O, se preferiamo la formula abbreviata: “Posso
morire tra poco!”Ripeteremo la formula scelta (mentalmente), allora,
con lentezza, in modo da impregnarci lo spirito con questa
indiscutibile verità. Dovremo sviluppare progressivamente una sana,
piccola paura: quella di sprecare pericolosamente la nostra vita, se
non si pratica maggiormente, o troppo poco, la Virtù, la
Concentrazione e la Saggezza.

Non v’è, comunque, nessuna ragione per angosciarsi. Altrimenti,
cambiamo meditazione; ma non senza avere, prima, pensato a questo: non
soltanto prendere fortemente consapevolezza che la nostra vita può
terminare all’improvviso non porta alcun cambiamento alla data in cui
questo avvenimento avverrà, ma che questa considerazione può anche
spingerci ad usare la nostra esistenza in modo molto più proficuo di
quanto non avremmo fatto continuando a vivere nella noncuranza. La
meditazione maraṇānussati non si accontenta di darci solo questa presa
di coscienza essenziale, poiché nel momento in cui siamo focalizzati
su questo oggetto, ci troviamo con tutto il cuore nel cammino che
conduce alla Liberazione. Per il tempo in cui noi non abbiamo accesso
alla realizzazione, è normale avere una certa paura della morte,
poiché ignoriamo dove ci ritroveremo dopo. La sola cosa che possa
metterci definitivamente al riparo da ogni paura e sofferenza legate
alle nostre morti continue (nel ciclo senza fine delle rinascite) è il
Risveglio (nibbāna). Ed è precisamente per questo scopo che
pratichiamo la meditazione.

Gandhi ha detto:

Vivi come se dovessi morire domani…
Impara come se dovessi vivere per sempre.

Quanto vi è di incoraggiante è pensare che grazie a maraṇānussati, se
noi sviluppiamo le pāramī, senza dissipare una briciola della nostra
sì preziosa vita (non solo umana, molto rara ad ottenersi, ma di
meditante, informato sull’insegnamento del Dhamma, ancora più
infrequente) potremo avere lo spirito tranquillo, senza più temere il
momento della nostra morte, anche se fosse vicinissimo e ne
conoscessimo la data. Cosa c’è di più dolce e di più rassicurante del
sentimento di avere compiuto il meglio che potevamo fare, durante il
percorso della nostra vita (qualunque sia il livello di purezza
ottenuto)?

Perché maraṇānussati dona il sentimento di urgenza?

Diventiamo pienamente consapevoli che la nostra morte può avvenire in
qualunque istante, senza che essa abbia la delicatezza di attendere
che noi si termini un progetto che abbiamo a cuore, e neppure che si
abbia il tempo di dire “Eccoci arrivati!”

In tal modo, ci preoccupiamo molto di adoperare al meglio il tempo che
ci resta. Non ci permettiamo più di oziare (in ogni caso, lo facciamo
sempre meno, in rapporto alla purezza del nostro maraṇānussati).
Diveniamo coscienti dell’inestimabile valore di ogni istante della
nostra esistenza. Sappiamo che pur se quest’ultima sarà lunga,
resterà, comunque, effimera e forse non sarà bastevole a farci
giungere alla Realizzazione.

Tuttavia, non perderemo nulla, morendo prima della Realizzazione,
poiché una vita di pratica intensa nel Dhamma contribuisce in grande
misura ad offrirci delle condizioni ancora meravigliose per la
prossima esistenza.

(Esperienza personale)

Da parte mia, ho sempre presente un sentimento di urgenza. Praticare
maraṇānussati intensamente, non fosse che per una sola giornata, non
ha fatto altro che solidificare questo sentimento, affinare la mia
virtù ed accrescere la mia determinazione, nella personale pratica del
Dhamma. Penso, spesso: “Purché io possa vivere almeno sino a scrivere
e rendere accessibile ancora qualche testo sul Dhamma, prima di
ritornare a meditare un poco nella foresta birmana!”

Il mio maraṇānussati è ancora lungi dall’essere perfetto. O non avrei
neppure lasciato la mia capanna di meditazione, isolata dal mondo. Ma,
ai miei occhi, la condivisione del Dhamma conta tanto quanto la mia
pratica personale.

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