Sapienza Antica 1 – Annie Besant

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Sapienza Antica 1

di Annie Besant

COMPENDIO DEGLI INSEGNAMENTI TEOSOFICI

DEDICATO
CON GRATITUDINE RIVERENZA ED AMORE
A
H. P. BLAVATSKY
CHE MI MOSTRÒ LA LUCE

Parte Prima

INTRODUZIONE

L’UNITÀ FONDAMENTALE DI TUTTE LE RELIGIONI

Un retto pensiero è necessario ad una retta condotta, come una retta
comprensione delle cose ad un retto vivere, e la Sapienza Divina
(chiamata sia col suo antico nome sanscrito di Brahma Vidyâ, sia con
quello greco più moderno di Teosofia) si presenta al mondo come
filosofia perfettamente razionale, e nello stesso tempo come religione
e morale che ogni cosa abbraccia. Disse già un devoto, parlando delle
Scritture Cristiane, che esse contengono guadi che un bambino potrebbe
liberamente passare, e profondità dove un gigante sarebbe costretto a
nuotare. Altrettanto si potrebbe dire della Teosofia, poiché dei suoi
insegnamenti alcuni sono così semplici e pratici che qualunque persona
di mediocre intelligenza potrebbe comprenderli e seguirli, mentre
altri sono così elevati, così profondi che il più potente intelletto
non riuscirebbe mai ad afferrarne tutta l’estensione.

Nel presente volume si cercherà di esporre in modo semplice e chiaro
la Teosofia, sì che risulti che i suoi princìpi generali e le sue
generali verità costituiscano una concezione logica dell’universo; e
non saranno trascurati quei particolari che sono necessari per ben
comprenderne i reciproci rapporti. Un trattato elementare non può
pretendere di dare d’una dottrina quella piena conoscenza che si può
acquisire da lavori più completi, ma potrà sull’argomento infondere
delle idee fondamentali ben chiare nella mente dello studioso, il
quale troverà in seguito molte cose da aggiungere, poche da togliere,
Questo libro dà linee generali; lo studioso potrà completarle con i
particolari ricavati da ricerche ulteriori.

***

È generalmente ammesso che le principali religioni del mondo
dimostrano, anche ad un primo esame, di avere comuni molte idee
religiose, etiche e filosofiche. Ma mentre il fatto è accettato da
tutti, non altrettanto avviene per la sua spiegazione.

Alcuni sostengono che le religioni sono cresciute sul suolo dell’umana
ignoranza scavato dall’immaginazione, sviluppandosi a poco a poco
dalle forme rozze dell’animismo e del feticismo ed attribuiscono i
loro punti di somiglianza ai fenomeni naturali universali
imperfettamente osservati e fantasticamente spiegati. Per una delle
scuole l’adorazione del sole e delle stelle è la chiave universale,
per un’altra la chiave non meno universale è il culto fallico; paura,
desiderio, ignoranza e meraviglia avrebbero spinto il selvaggio a
personificare le forze della natura, ed i sacerdoti ne avrebbero
sfruttato i terrori e le speranze, le nebulose fantasie e le affannate
domande; così i miti sarebbero diventati Bibbie ed i simboli fatti; e
siccome la loro base era universale, la somiglianza dei risultati era
inevitabile. Così parlano i dottori della “Mitologia comparata”, e la
gente semplice è ridotta al silenzio dalla pioggia di prove, ma non si
sente convinta; non può negare le somiglianze, ma dentro di sé pensa:
“È dunque vero che tutte le più care speranze dell’uomo e i suoi
ideali più elevati non sono che il risultato di una fantasia selvaggia
e di una ignoranza brancolante nel buio? Le grandi guide della razza,
i martiri e gli eroi dell’umanità hanno dunque vissuto, lavorato,
sofferto, sono morti per la sola personificazione di fatti astronomici
e per le velate oscenità dei barbari?”

La seconda teoria, che spiega la base comune delle religioni del
mondo, afferma che esiste un insegnamento primitivo in custodia di una
Fratellanza di grandi Maestri spirituali; questi, frutto Essi stessi
di passati cicli di evoluzione, agirono da istruttori e guide
dell’umanità bambina del nostro pianeta, impartendo successivamente
alle sue razze ed ai suoi popoli le verità fondamentali della
religione nella forma più adatta alle mentalità che dovevano
riceverle. Secondo questa spiegazione i Fondatori delle grandi
religioni sono membri dell’unica Fratellanza e furono aiutati nella
Loro missione da molti altri membri, inferiori di grado, Iniziati e
discepoli di vario ordine, eminenti per spiritualità, per conoscenze
filosofiche e per purezza di sapienza morale. Costoro guidarono le
nazioni nella loro infanzia, diedero loro istituzioni e leggi, le
governarono come re, le istruirono come filosofi, le diressero come
sacerdoti. Tutte le nazioni dell’antichità considerarono questi uomini
come semidei ed eroi, e di essi rimasero tracce nella letteratura,
nell’architettura e nella legislazione di quelle nazioni.

Che simili uomini siano vissuti pare difficile poterlo negare di
fronte alla tradizione universale, alle Sacre Scritture ancora
esistenti, agli avanzi preistorici ora per la maggior parte in rovina,
senza tener conto di altre testimonianze che l’ignoranza rifiuterebbe.
I libri sacri dell’Oriente sono la miglior prova della grandezza dei
loro autori; infatti, in tempi meno lontani od anche nei moderni, che
mai vi può essere che solo si avvicini alla sublimità spirituale del
loro pensiero religioso, allo splendore intellettuale della loro
filosofia, alla vastità e purezza della loro morale? E quando troviamo
che questi libri contengono, intorno a Dio, all’uomo e all’universo,
insegnamenti identici nella sostanza, pur essendo assai vari nelle
forme esterne, non ci sembra irragionevole riferirli ad un corpo di
dottrina centrale e primitivo. A questo corpo noi diamo il nome di
Sapienza Divina, o, con parola greca, Teosofia.

Come origine e base di tutte le religioni, la Teosofia non può essere
in antagonismo con nessuna. Anzi essa è la loro purificatrice, quella
che rivela l’alto significato intimo di molte fra esse, per quanto
pervertite nel complesso esterno per l’ignoranza e per l’accumularsi
delle
superstizioni; in ciascuna di esse la Teosofia si riconosce e si
afferma, e cerca di svelare la sapienza nascosta in ciascuna.

Nessuno, diventando teosofo, è obbligato a rinunciare ad essere
Cristiano, Buddista o Indù: egli non farà che acquisire una più
profonda conoscenza della propria fede, una più ferma convinzione
delle verità spirituali ed una più larga comprensione dei sacri
insegnamenti. Come nei tempi antichi la teosofia ha dato origine alle
religioni, così oggi le giustifica e le difende. Essa è la roccia da
cui tutte si staccarono, la miniera da cui tutte furono estratte. Essa
giustifica, davanti al giudizio della critica intellettuale, le più
elevate aspirazioni e le più forti emozioni del cuore umano; essa
conferma le nostre speranze intorno all’uomo; essa ci restituisce
nobilitata la nostra fede in Dio.

La verità di questa affermazione diventa sempre più evidente a misura
che noi studiamo le varie Scritture Sacre del mondo; e pochi passi,
scelti in tanta ricchezza di materiali, bastano a stabilire questo
fatto ed a guidare lo studioso nella ricerca di nuove prove.

Le verità spirituali fondamentali della religione possono essere così riassunte:

Un’unica Esistenza reale, inconoscibile, eterna infinita.
Da questa il Dio manifestato, che si svolge dall’unità alla dualità,
dalla dualità, alla trinità.
Dalla Trinità manifestata molte Intelligenze spirituali, che
sovrintendono allo ordinamento cosmico.
L’uomo è un riflesso del Dio manifestato e perciò fondamentalmente una
trinità, il cui SÉ interiore e reale è eterno ed uno con il SÉ
dell’Universo.
La sua evoluzione si compie mediante ripetute incarnazioni, nelle
quali egli è attratto dal desiderio e da cui si libera per mezzo della
conoscenza e del sacrificio, diventando divino in atto, come sempre lo
è stato in potenza.

***

La Cina, l’immenso impero della civiltà oggi fossilizzata, fu popolata
anticamente dai Turani quarta suddivisione di quella quarta
Razza-Madre che abitò il perduto continente dell’Atlantide e sparse i
suoi rampolli per tutto il mondo, I Mongoli ultima suddivisione della
stessa razza, ne rinforzarono più tardi la popolazione, di modo che
nella Cina abbiamo tradizioni antichissime, anteriori ai tempi che
videro la Quinta Razza-Madre, l’Ariana, stabilirsi nell’India. Nel
Ching Chang Ching, o Classico di Purezza, abbiamo un frammento di
un’antica Scrittura di singolare bellezza, dal quale spira quel senso
di riposo e di pace così caratteristico dell’ “insegnamento
originale”. James Legge, nella nota introduttiva alla sua traduzione
1, dice che il trattato “è attribuito a Ko Yüan [o Hsuan], un Taoista
della dinastia Wù (222-227 D. C.), il quale, secondo la tradizione,,
sarebbe divenuto immortale, come viene generalmente chiamato. Egli è
rappresentato come taumaturgo, dedito all’intemperanza e molto
eccentrico nelle sue maniere. Avendo una volta fatto naufragio, egli
emerse di sotto le onde con gli abiti asciutti e camminò liberamente
sulla superficie dell’acqua. Finalmente ascese al cielo in pieno
giorno. Tutti questi racconti possono senza esitazione essere ritenuti
come finzioni di un tempo posteriore.

Queste cose sono ripetutamente narrate da Iniziati di grado diverso, e
non sono affatto necessariamente “finzioni”. Ma ciò che Ko Yüan stesso
dice del suo libro è per noi di ben maggiore interesse:

“Quando ottenni il vero Tâo, io avevo recitato già dieci mila volte
questo Ching (libro). Esso è quello che praticano gli Spiriti del
Cielo e che non era ancora stato comunicato ai dotti di questo basso
mondo. Io l’ebbi dal Divino Governatore dello Hwa d’Oriente: Egli
l’aveva avuto dal Divino Governatore della Porta d’Oro. Questi dalla
Real Madre dell’Occidente”.

Il titolo di “Divino Governatore della Porta d’Oro” era quello
dell’Iniziato che reggeva l’impero tolteco in Atlantide, e l’uso che
se ne fa nel Classico di Purezza suggerisce l’idea che questo libro fu
portato di là nella Cina quando i Turani si separarono dai Toltechi.
Questa affermazione è fortemente confermata dal contenuto della breve
opera che tratta del Tâo (letteralmente “la Via”), nome col quale
viene indicata nell’antica religione turanica e mongola la Realtà Una.
Leggiamo in esso:

Il Grande Tâo non ha forma corporea, ma produce e nutre cielo e terra.
Il Grande Tâo non ha passioni, ma causa la rotazione del sole e della
luna. Il Grande Tâo non ha nome, ma fa che tutte le cose crescano e si
conservino” (I, 1),

Questo è il Dio manifestato come unità, ma sopraggiunge la dualità:

“Ora il Tâo [si mostra in due forme], il Puro e il Torbido, ed ha [le
due condizioni di] Moto e Riposo. Il cielo è puro e la terra e
torbida, il cielo si muove e la terra sta ferma, Il mascolino è puro e
il femminino è torbido; il mascolino si muove ed il femminino sta
fermo. La radicale [Purezza] discese, e il [Torbido] prodotto si
diffuse largamente; così furono fatte tutte le cose” (I, 2).

1 The Sacred Books of the East, vol. XL., pag. 248.

Questo passaggio interessa specialmente per l’allusione agli aspetti
attivo e passivo della Natura, per la distinzione fra Spirito, il
generatore, e Materia, l’alimentatrice, così familiare negli scritti
posteriori.

Dal Tâo Teh Ching risulta assai chiaramente la dottrina circa il Non
Manifestato e il Manifestato “Il Tâo che può essere seguito non è il
Tâo permanente immutabile. Il nome che può essere nominato non è il
nome permanente immutabile. In quanto non ha nome, è il Generatore del
cielo e della terra: in quanto ha nome, è la Madre di tutte le cose…
Sotto questi due aspetti è realmente la stessa cosa; ma quando ha
luogo lo sviluppo, riceve i diversi nomi. Presi insieme noi li
chiamiamo il Mistero” (I, 1, 2, 4).

Agli studiosi della Cabbala tornerà in mente uno dei Nomi Divini: “il
Mistero Ascoso”.

E più oltre: “Vi fu qualche cosa di non definito, ma di completo, che
venne in esistenza prima del cielo e della terra. Era tranquillo e
senza forma, isolato e non soggetto a cambiamenti, spandendosi per
ogni dove e senza pericolo [di essere esaurito]. Può essere riguardato
come la Madre di tutte le cose. Io non so il suo nome e gli dò la
designazione di Tâo. Sforzandomi di dargli un nome, lo chiamo il
Grande. Grande, ciò passa [in corrente costante]. Passando diventa
remoto. Diventato remoto, ritorna.” (XXV, I-3).

Di grande interesse è il ritrovare qui l’idea dell’allontanarsi e del
ritornare della Vita Una, che ci è così familiare nella letteratura
indù. Familiare pare anche il versetto:

“Tutte le cose sotto il cielo procedettero da Ciò come esistente [e
nominato]; tale esistenza procedette da Ciò come non esistente [e
innominato]” (XL, 2).

Perché un universo possa divenire, il Non Manifesto deve produrre
l’Uno, da cui procedono la dualità e la trinità:

“Il Tâo produsse Uno; Uno produsse Due; Due produsse Tre; Tre produsse
tutte le cose. Tutte le cose lasciano dietro di sé l’Oscurità [da cui
sono uscite] e si avanzano ad abbracciare la Luce [dalla quale sono
emerse], mentre vengono armonizzate dal Soffio del Vuoto” (XLII, I).

Sarebbe stato meglio tradurre “Soffio di Spazio” Dacché tutto fu
prodotto da Esso, Esso esiste in tutto:

“Il Grande Tâo pervade tutto. Esso può trovarsi alla sinistra ed alla
destra… Esso ricopre tutte le cose come una veste e non pretende di
esserne il signore; Esso può essere riconosciuto nelle più piccole
cose. Tutte le cose ritornano [alla loro radice e scompaiono] e non
sanno che Esso è colui che presiede al loro agire in questa maniera; —
Esso può essere riconosciuto nelle più grandi cose” (XXXIV, I, 2).

Chwang-ze (4° sec. a. C.), nella sua esposizione delle antiche
dottrine, si riferisce alle Intelligenze Spirituali che hanno origine
dal Tâo: “Ha radice e base [della sua esistenza] in Se stesso. Prima
che fossero il cielo e la terra, da antico, Esso v’era sicuramente
esistente. Da Esso scaturì l’esistenza misteriosa degli spiriti, da
Esso l’esistenza misteriosa di Dio” (Lib. VI, parte I° sez. vI, 7).

Segue una quantità di nomi di queste Intelligenze, ma la parte
rilevante che tali esseri rappresentano nella religione cinese è così
nota, che non occorre moltiplicare le citazioni in proposito.

L’uomo è considerato come una trinità, poiché il Taoismo, dice il
Legge, riconosce in lui lo spirito, la mente e il corpo. Questa
distinzione risulta chiaramente nel Classico di Purezza, dove si
insegna che l’uomo deve liberarsi dal desiderio per ottenere l’unione
con l’Uno:

“Ora, lo spirito dell’uomo ama la purezza, ma la sua mente la
perturba. La mente dell’uomo ama la quiete, ma i suoi desideri la
ricacciano lontana. Se egli potesse vincere sempre i desideri, la sua
mente si ridurrebbe da se stessa alla quiete. Sia purificata la sua
mente, ed il suo spirito diventerà da se stesso puro… La ragione per
cui gli uomini non possono giungere a questo stato, è che la loro
mente non è stata purificata e i loro desideri non sono stati
scacciati. Se uno può scacciare i desideri, quando egli esamina la sua
mente, questa non è più sua, quando egli ricerca il suo corpo, questo
non è più suo; e quando guarda più lontano alle cose esteriori, esse
sono cose con le quali egli non ha niente a che fare” (I, 3, 4).

Poi, dopo aver esposto gli stadi del ritrarsi nella “condizione di
quiete perfetta”, si domanda:

“In quella condizione di quiete indipendente dal luogo, come può
sorgere alcun desiderio? E quando non sorge più nessun desiderio, ecco
la vera quiete e il vero riposo. Quella vera. [quiete] diventa [una] qualità costante, e risponde alle cose esterne [senza errore]; sì,
quella qualità vera e costante ha il possesso della natura. In tale
costante rispondenza ed in tale costante quiete sono la purezza e il
riposo costanti. Colui che ha questa assoluta purezza entra a poco a
poco nel [l’ispirazione del] Vero [Tâo” (I. 5).

Le parole aggiunte “ispirazione del” invece di chiarire il significato
l’offuscano, perché l’espressione di “entrare nel Tâo” è in sintonia
con l’intero concetto del libro e con altre Scritture Sacre.

Nel Taoismo si dà molta importanza all’allontanamento del desiderio;
un commentatore del Classico di Purezza nota che la comprensione del
Tâo dipende da un’assoluta purezza, e che “l’acquisto di questa
Assoluta Purezza dipende intieramente dal saper scacciare il
Desiderio; questa è la lezione pratica su cui si insiste di più nel
trattato”.

Il Tâo Teh Ching dice: “Dobbiamo permanere sempre senza desiderio, se
vogliamo scandagliare il suo profondo mistero; ma se il desiderio
restasse sempre con noi, vedremmo soltanto le sue frange esteriori”
(I, 3).

La reincarnazione non sembra esservi così chiaramente insegnata come
si sarebbe potuto aspettare, benché vi si trovino dei passi secondo i
quali l’idea generale ne era implicitamente ammessa, e l’entità veniva
considerata come vagante attraverso nascite animali e umane. Così
abbiamo in Chwang-ze la bella e saggia storia di un moribondo al quale
un amico dice:

“Grande invero è il Creatore! Che cosa ti farà ora diventare? Dove ti
porterà? Ti farà fegato di un topo o zampa di un insetto?” Szelâi
rispose:

“Dovunque il genitore dica al figlio di andare, all’est, all’ovest, al
sud, al nord, questi semplicemente esegue l’ordine… Ecco un gran
fonditore che getta il suo metallo. Se il metallo si levasse [nel
vaso] e dicesse: ‘Si deve fare di me una [spada simile a] Moysh,’ il
gran fonditore lo guarderebbe certamente come pazzo. Così ancora,
quando una forma si viene modellando nella matrice, se dicesse: ‘Io
devo diventare un uomo, devo diventare un uomo,’ il Creatore la
considererebbe certamente come assai strana. Una volta che abbiamo
capito essere il cielo e la terra un grande crogiuolo, e il Creatore
un gran fonditore, dove potremmo andare che non sia bene per noi? Noi
siamo nati come da un quieto sonno e moriamo per un calmo risveglio”
(Libro VI, parte I°, sez. VI).

Rivolgendoci alla Quinta Razza, l’Ariana, troviamo gli stessi
insegnamenti riuniti nella più antica e più grande delle religioni
Ariane, la Brahmanica. L’Esistenza eterna è proclamata nella
Chhândogya Upanishad come la “Sola, senza una seconda”, e sta scritto:

“Esso volle, ed io moltiplicherò per amore dell’universo” (VI, II, I. 3).

Il Supremo Logos, Brahman, è triplice —Essere, Coscienza, Beatitudine,
— ed è detto: “Da Questo sorsero la vita, la mente e tutti i sensi,
l’etere, l’aria, il fuoco, l’acqua e la terra, sostegno di tutte le
cose” (Mundaka Upanishad, II, I. 3).

In nessuna parte si possono trovare descrizioni della Divinità più
grandiose che nelle Scritture Sacre degli Indù, ma esse sono già così
note, che potrà bastare una breve citazione. I seguenti estratti
servano come saggi della loro dovizia:

“Manifesto, vicino, moventesi in segreto, la grande dimora dentro cui
riposa tutto ciò che si muove, respira e chiude gli occhi. Conoscilo
come Ciò che deve essere adorato; l’essere e non essere, l’ottimo, che
trascende la conoscenza di tutte le creature. Luminoso, più sottile
del sottile, in cui sono infissi i mondi e i loro abitanti. Questo è
l’imperituro Brahman che è anche vita e voce e mente… Nell’aurea
veste suprema è Brahman immacolato e senza parti, è la pura Luce delle
luci, nota ai conoscitori del Sé… Questo immortale Brahman è
davanti, Brahman è dietro, Brahman a destra e a sinistra, sotto,
sopra, pervadente. Questo Brahman è veramente il tutto. Egli è
l’ottimo” (Mundaka Upanishad, II, ii, 1, 2, 9, 11).

“Oltre l’universo, Brahman, il supremo, il grande, ascoso in tutti gli
esseri in conformità dei loro corpi, l’unico Respiro di tutto
l’universo, il Signore, conoscendo il quale [gli uomini] diventano
immortali. Io conosco quel potente Spirito, il sole risplendente oltre
le tenebre… Io Lo conosco, il sempre giovane, l’antico, l’Anima di
tutto, onnipotente per sua natura, che i conoscitori di Brahman
chiamano non nato, che chiamano eterno” (Shvetâshvatara Upanishad,
III, 7, 8, 21).

“Quando non vi è tenebra, non giorno né notte, non essere né
non-essere, [vi è] Shiva solo: Questo è l’indistruttibile, che deve
essere adorato da Savitri: da Lui procedette l’antica sapienza. Non
sopra, non sotto, non nel mezzo, Egli può essere compreso. Nè vi può
essere alcuna similitudine per Lui, il cui nome è gloria infinita. Non
con la vista si può stabilire la Sua forma, nessuno Lo può osservare
con gli occhi; coloro che Lo conoscono col cuore e con la mente, e Lo
ospitano nel cuore, diventano immortali” (ivi, Iv, 18-20).

Che l’uomo nel suo Sé interiore sia uno col Sé dell’Universo — Io sono
Quello — è un’idea che compenetra così interamente ogni pensiero indù
che l’uomo è spesso citato come la “Divina città di Brahman” 1, la
“Città dalle nove porte” 2, nel cavo del cui cuore abita Dio. 3

“In una sola maniera si può vedere [l’Essere] che non può venire
dimostrato, che è eterno, immacolato, più alto dell’etere, innato, la
grande Anima eterna… Questa grande Anima innata è la stessa che
soggiorna come l’intelligente [anima] in tutte le creature viventi, la
stessa che soggiorna come etere nel cuore 4: in esso dorme; tutto
soggioga, tutto governa, di tutto è sovrana signora; non si fa più
grande per opere buone, né più piccola per le cattive. È il
Legislatore di tutto, il sovrano Signore e il Preservatone di tutti
gli esseri, il Ponte, il Sostegno dei mondi, così che questi non
cadono in rovina” (Brihadâranyaka Upanishad, IV, iv, 20,22;

Quando Iddio Viene considerato come colui che evolve l’universo ne
risulta chiarissimo il triplice carattere come Shiva, Vishnu e Brahma,
o anche e come Vishnu che dorme sotto le acque, il Loto che procede da
lui e nel Loto Brahmâ l’uomo similmente è triplice, e nella Mândûkya
upanîshad il Sé è descritto come condizionato dal corpo fisico, dal
corpo sottile e dal corpo mentale, dai quali tutti assurge poi
nell’Uno “senza dualità”. Dalla Trimûrti (Trinità)

1 Mundaka Upanishad, II, ii, 7.

2 Shvetashvatara Upanishad, iii, 14.

3 Ivi, ii, 20.

4 “L’etere nel cuore” è una frase mistica usata a indicare l’Uno, che
si dice vi dimori dentro.

derivano molti Dei, connessi con l’amministrazione dell’Universo, dei
quali nella Brihadâranyaka Upanishad è detto:

“Adorate Colui, o Dei, per ordine del quale svolgendo i giorni l’anno
si compie, la Luce delle luci, come la Vita immortale” (IV, iv, 16).

È quasi inutile ricordare l’esistenza nel Brahmanismo della dottrina
della reincarnazione, giacché tutta la sua filosofia della vita si
aggira intorno a questo pellegrinaggio dell’Anima attraverso molte
nascite e molte morti, e non vi si trova libro che non presupponga
tale verità. L’uomo è legato dai desideri a questa ruota di mutamenti,
e da essa l’uomo deve liberarsi con la conoscenza, con la devozione e
con la distruzione dei desideri. Quando conosce Dio, l’anima è
liberata 1. L’intelletto, purificato dalla conoscenza, Lo contempla 2.
La conoscenza, unita alla devozione, trova la dimora di Brahma 3.
Chiunque conosce Brahman, diventa Brahman 4. Quando cessa il
desiderio, il mortale diventa immortale e ottiene Brahman 5

Il Buddhismo, come esiste nel nord dell’India, conserva pienamente le
più antiche credenze; ma come si manifesta nel sud, sembra aver
dimenticato l’idea della Trinità LOGOICA, come l’altra dell’Esistenza
Una, da cui quella procede. Il Logos nella sua triplice manifestazione
è: Primo Logos, Amitâbha, la Luce Illimitata; Secondo, Avalokiteshwara
o Padmapani (Chenresi); Terzo, Manjusri “il rappresentante della
sapienza creatrice, corrispondente a Brahmâ.” 6. Il Buddhismo cinese
non contiene apparentemente l’idea di una Esistenza primordiale oltre
il Logos, ma il Buddhismo del Nepal ammette Adi-Buddha, dal quale
procede Amitàbha. Padmapàni, secondo l’Eitel, rappresenta la
Provvidenza compassionevole e corrisponde in parte a Shiva, ma come
aspetto della Trinità buddistica che emana incarnazioni, sembra
piuttosto rappresentare la stessa idea di Vishnu a cui si collega per
il comune attributo del Loto (fuoco e acqua, o Spirito e Materia, come
i costituenti primi dell’universo). Reincarnazione e Karma
costituiscono la base fondamentale del Buddhismo in modo tale che è
quasi inutile insistervi, se non per ricordare la via della
liberazione e notare che, siccome Buddha era un Indù predicante agli
Indù, nei suoi insegnamenti rimane sempre sottinteso che le dottrine
brahmaniche sono intieramente accettate. Egli fu un purificatore e un
riformatore, non un iconoclasta, e colpì le aggiunte dovute
all’ignoranza, non le verità fondamentali appartenenti all’Antica
Sapienza.

1 Shvetashara Upanishad, i, 8.

2 Mund., III, ii, 8.

3 Ivi, III, ii, 4

4 Ivi, III, ii, 9

5 Katha Upanishad, II, vi, 14.

6 Eitel, Sanskrit Chinese Dictionary, sub voce.

“Quegli esseri che camminano nella via della legge, che è stata bene
insegnata, raggiungono l’altra sponda del gran mare della nascita e
della morte, che è difficile attraversare”. (Udanavarga, xxIx, 37).

Il desiderio lega l’uomo e deve essere distrutto:

“È difficile ad uno che è stretto nelle catene del desiderio di
liberarsene, dice il Beato. Il costante, che non si cura della
soddisfazione dei desideri, li getta e parte presto [per il
Nirvâna]… L’umanità non ha desideri durevoli: essi non sono
permanenti in coloro che li esperimentano; liberatevi dunque da ciò
che non può durare e non indugiate nel soggiorno della morte,” (ivi,
ii, 6, 8).

“Colui che ha distrutto i desideri dei beni [terreni], il peccato e la
benda dell’occhio della carne, che ha strappato dalla radice stessa il
desiderio, colui, io dico, è un Bràhmana” (ivi, xxxiii, 68):

E un Bràhmana è un uomo “che ha il suo ultimo corpo” 1 ed è definito,
come uno “che, conoscendo le sue precedenti dimore [esistenze],
percepisce il cielo e l’inferno; il Muni, che ha trovato la via di por
fine alla nascita” (ivi, xxxIII, 55)

Nelle Scritture ebraiche exoteriche l’idea di una Trinità non si
rileva molto distinta, quantunque vi sia apparente la dualità e il Dio
di cui vi si parla sia evidentemente il Logos, non l’Uno Non
Manifestato:

“Io sono il Signore e non ve n’è alcun altro. Io dono la luce e creo
le tenebre. Io fo la pace e creo il male. Io sono il Signore che fa
tutte queste cose” (Isaia;, xIv, 6, 7).

Tuttavia Filone ha molto chiara la dottrina del Logos, la quale poi si
trova nel Quarto Vangelo:

“In principio era il Verbo [Logos] e il Verbo era con Dio, e il Verbo
era Dio… Tutte le cose furono fatte per esso, e senza esso niuna
cosa fatta è stata fatta” (S. Giov. i; i, 3).

Nella Cabbala si insegna apertamente la dottrina dell’Uno, del Tre,
del Sette e della pluralità:

“L’Antico degli Antichi, l’Ignoto degli Ignoti ha forma, ma anche non
ha forma. Esso ha una forma mediante la quale l’Universo è mantenuto.
Esso anche non ha forma, poiché non può essere compreso. Quando Esso
dapprima prese questa forma (Kether, la Corona, il Primo Logos) fece
procedere da Sé nove brillanti Luci (La Sapienza e la Voce che formano
con Kether la Triade e poi i sette Sephiroth inferiori…). Esso è
l’Antico degli Antichi, il Mistero dei Misteri, l’Ignoto degli Ignoti.
Esso ha una forma che appartiene a Lui, poiché [mediante
quella] appare a noi come l’Antico Uomo sopra tutti, come l’Antico
degli Antichi e come quello che vi ha di più Ignoto nell’Ignoto. Ma
sotto quella forma, con la quale si fa conoscere, Esso tuttavia rimane
ancora l’Ignoto” (La Cabbala di Isacco Myer, dallo Zohar pag. 274,
275).

Il Myer nota che la “forma” non è “ l’Antico di TUTTI gli Antichi, il
quale è 1’Ain Soph.”

Ancora “Tre Luci sono nel Santo Supremo, che si uniscono come Una; e
sono la base del Thorah e questo apre la porta a tutti… Venite,
venite a vedere il mistero del Verbo.” “Questi sono tre gradi e
ciascuno esiste per se stesso, e tuttavia tutti sono Uno e sono uniti
in Uno, né sono separati l’uno dall’altro… Tre procedono da Uno, Uno
esiste in Tre, è la forza tra Due, Due alimentano Uno, Uno alimenta
molte parti, così Tutto è Uno.” (Ivi, 373 375, 376).

È inutile ricordare che gli Ebrei professavano la dottrina di molti
Dei (“Chi è pari a Te, o Signore, fra gli Dei?” 1 e di moltitudini di
ministri subordinati: i “figli di Dio”, gli “Angeli del Signore”, i
“Dieci Eserciti Angelici”

Sull’ordine dell’universo lo Zohar insegna:

“In principio era la Volontà del Re, anteriore a qualunque essere che
venne all’esistenza per emanazione di questa volontà. Essa abbozzò e
scolpì le forme di tutte le cose che dovevano uscire dalle tenebre per
manifestarsi nella suprema e abbagliante luce del Quadrante [La sacra
Tetractys]”. (Cabbala, del Myer, pagg. 194-195).

Nulla può esistere in cui la Divinità non sia immanente, e riguardo
alla Reincarnazione si insegna che l’Anima, prima di venire sulla
terra, è presente nell’Idea divina; se durante la sua prova si
conservasse completamente pura, essa non rinascerebbe; ma ciò sembra
esser stato dato solamente come una possibilità teorica, poiché è
detto: “Tutte le anime sono soggette a rivoluzione (metempsicosi,
a’leen o’gilgoolah), ma gli uomini non conoscono le vie del Santo: sia
Questo benedetto! Essi ignorano il modo come furono giudicati in tutti
i tempi e prima ch’essi venissero a questo mondo e quando lo hanno
lasciato” (Ivi, pagina 198).

Tracce di questa credenza si trovano nelle Scritture exoteriche tanto
ebraiche quanto cristiane, come nella credenza che Elia sarebbe
ritornato e che più tardi era ritornato in Giovanni Battista.

Volgendo lo sguardo all’Egitto, vi troviamo fin dai più antichi tempi
la sua famosa Trinità, Ra, Osiride-Iside come secondo Logos duale, e
Oro. Rammentiamo il grande inno ad AmunRa:

“Gli dei s’inchinano davanti alla Tua Maestà con l’esaltare le Anime
di ciò che li produce… e dicono a Te: Pace a tutte le emanazioni
dell’incosciente Padre dei Padri coscienti

degli Déi… O Tu, Produttore degli esseri, noi adoriamo le Anime che
emanano da Te. Tu ci generi, o Tu Ignoto, e noi salutiamo Te, adorando
ciascuna Anima-Dea che discende da Te e vive in noi”.(citato in La
Dottrina Segreta, Vol. III, pag.. 485).

I “Padri coscienti degli Dei” sono i Logos, il “Padre incosciente” è
l’Esistenza Una, incosciente non in quanto non è cosciente, ma in
quanto lo è infinitamente più di ciò che noi chiamiamo coscienza, che
è cosa limitata.

Nei frammenti del “Libro dei Morti” possiamo studiare le concezioni
del reincarnarsi dell’Anima umana, del suo pellegrinaggio verso il
Logos e della sua finale unione con Lui. Il famoso papiro dello
“scriba Ani, trionfante in pace”, è pieno di passi che ricordano al
lettore le Scritture di altre fedi; per esempio, il suo viaggio
attraverso il mondo inferiore, la sua attesa di rientrare nel suo
corpo (secondo il concetto della reincarnazione tra gli Egizi), e
infine la sua identificazione col Logos:

“Dice Osiride Ani: Io sono il grande Uno, figlio del grande Uno; io
sono Fuoco, figlio diel Fuoco… Io ho riunite assieme le mie ossa, io
mi sono fatto intero e sano; io sono diventato ancora giovane; Io sono
Osiride, il Signore dell’eternità”. (XLIII, I, 4).

Nella recensione del Pierret al Libro dei Morti troviamo questo passo notevole:

“Io sono l’essere dai nomi misteriosi, che si prepara delle dimore per
milioni di anni (pag. 22). Cuore che vieni a me da mia madre, cuore
mio necessario alla mia esistenza sulla terra… Cuore, che vieni a me
da mia madre, cuore mio necessario per la mia trasformazione” (pag.
113-114).

Nello Zoroastrianismo troviamo il concetto dell’Esistenza Una
immaginata come Spazio Illimitato donde sorge il Logos, il creatore
Ahuramazda:

“Supremo in onniscienza e bontà e senza rivali in splendore; la
regione della luce è il posto di Ahura Mazda.” (Sacred Books of the
East, vol. V, 3, 4, v. 2).

A Lui anzitutto si rende omaggio nello Yasna, il principale libro
liturgico degli Zoroastriani:

“Io annuncio ed Io completo (completerò) [il mio Yasna (culto)] ad
Ahura Mazda, il Creatore, il raggiante e glorioso, il massimo e
l’ottimo, il bellissimo (?) [per le nostre concezioni], il più
costante, il più saggio e l’unico fra tutti il cui corpo sia
perfettissimo, che raggiunga più infallibilmente i suoi fini, perché
di Suo giusto comando, di Lui che raddrizza le nostre menti, che
dispensa la Sua grazia, creatrice di gioia; che ci ha fatti e ci ha
formati, che ci ha nutriti e protetti, che è il più benefico Spirito”.
(Sacred Books of the East, XXXI, pagg. 195, 196).

L’adoratore poi tributa omaggio agli Ameshaspend e ad altri Dei, ma il
Dio supremo manifestato, il Logos, non è qui rappresentato come trino.
Come fra gli Ebrei, v’era nelle credenze exoteriche una tendenza a
perdere di vista questa verità fondamentale. Fortunatamente noi
possiamo rintracciare la dottrina primitiva, benché in tempi
posteriori sia scomparsa dalle credenze popolari. Il dott. Haug, nei
suoi Saggi sui Parsi1, dice che “Ahuramazda – Auharmazd o Hormazd – è
l’Essere Supremo, che da Lui furono prodotte due cause primordiali, le
quali, sebbene differenti, erano unite, e produssero il mondo delle
cose materiali, come pure quello dello spirito”. Pag. 303.

Queste cause erano chiamate gemelle e sono presenti dappertutto, così
in Ahuramazda come nell’uomo. Una produce la realtà, l’altra
l’irrealtà, e sono queste che nello Zoroastrianismo posteriore
divengono gli Spiriti opposti del bene e del male. Nelle dottrine più
antiche esse formavano evidentemente il Secondo Logos, la cui
caratteristica è la dualità.

Il “bene” e il “ male” non sono altro che Luce e Oscurità, Spirito e
Materia, il “gemino” fondamento dell’Universo, i Due emanati dall’Uno.

Analizzando questa idea, il dott. Haug dice:

“Tale è la nozione Zoroastriana originale intorno ai due Spiriti
creatori, i quali non sono che due aspetti dell’Essere Divino. Ma con
l’andare del tempo questa dottrina del gran fondatore fu cambiata e
corrotta in conseguenza di errori e di false interpretazioni.
Spentomainyush [lo “spirito del bene”] fu preso come un nome di
Ahuramazda stesso, e allora naturalmente Angromainyush. [lo “spirito
del male”], col separarsi interamente da Ahuramazda, fu considerato
come il suo costante avversario: di qui ebbe origine il dualismo di
Dio e del Demonio”. (pag. 205)

L’idea del dott. Haug sembra essere appoggiata dal Gâtha Ahunavaiti,
dato con gli altri Gâtha dagli “Arcangeli” a Zoroastro o Zarathustra:

“In principio vi era una coppia di gemelli, due spiriti, ciascuno con
speciale attività; questi sono il buono ed il cattivo… E questi due
spiriti uniti crearono le prime [cose materiali]; uno la realtà,
l’altro l’irrealtà… E a soccorrere questa vita [per l’incremento di
essa] venne Armaiti con la ricchezza, la buona e vera mente; questa,
l’eterna, creò il mondo materiale… Tutte le cose perfette sono
raccolte nella splendida residenza della Mente Buona, i Savi ed i
Giusti, che sono conosciuti come gli esseri migliori”. (Yas. XXX, 3,
4, 7, I0: traduzione del dott. Haug, pag. 149, 151).

1 Dr. Haug, Essays on the Parsis, trans. By Dr. West. Trubner’s
Oriental Series, vol. V.

Qui si vedono tre LOGOI: Ahuramazda, il primo, la Vita suprema; in Lui
e da Lui i “gemelli”, il Secondo Logos; poi Armaiti, la Mente, la
Creatrice dell’Universo, il Terzo Logos1. Più tardi appare Mithra che
nella fede exoterica offusca in una certa misura la primitiva verità;
di lui si dice:

“Colui che Ahura Mazda ha stabilito a mantenere e sorvegliare questo
nobile mondo; colui che, non dormendo mai, vigilante custodisce la
creazione di Mazda” (Mihir Yast, XXVII, 103: Sacred Books of the East,
XXIII).

Era un Dio subordinato, la Luce del Cielo, come Varuna era il Cielo
stesso, una delle grandi Intelligenze rettrici. Le più alte di queste
Intelligenze erano i sei Ameshaspend, dirette dal Buon Pensiero di
Ahuramazda, Vohúman, “che hanno l’incarico di tutta la creazione
materiale” (Sacred Books of the East, V, pag. 10, nota).

Nei libri sinora tradotti non pare che la reincarnazione sia
insegnata, né tale credenza è comune tra i moderni Parsi. Ma troviamo
che lo Spirito dell’uomo è ideato come una scintilla, che deve
diventare fiamma e riunirsi al Fuoco Supremo; il che implica l’idea di
uno sviluppo per il quale le rinascite sono una necessità. Lo
Zoroastrianismo non sarà ben compreso finché non avremo ritrovati gli
Oracoli Caldei e gli scritti relativi, perché là è la sua vera radice.

Venendo verso occidente, incontriamo in Grecia il sistema orfico,
esposto con tanta dottrina da G. R. S. Mead nella sua opera Orpheus.
Qui il nome dato all’Esistenza Una è quello di “Ineffabile Tenebra tre
volte Ignota”.

“Secondo la teologia di Orfeo, tutte le cose hanno origine da un
principio immenso, al quale noi diamo un nome per la debolezza e la
povertà dell’umano intelletto; sebbene sia perfettamente ineffabile, e
nel riverente linguaggio degli Egizi sia una tenebra tre volte ignota,
in contemplazione della quale ogni conoscenza viene ricacciata
nell’ignoranza” (Thomas Taylor, citato in Orpheus, pag. 93).

Da questo procede la “Triade primordiale”, Bontà Universale, Anima
universale, Mente Universale, vale a dire la Trinità dei Logoi. Su
questo punto il Mead scrive:

“La prima Triade, che si può manifestare all’intelletto, non è altro
che un riflesso o un sostituto del Non-Manifestabile, e le sue
ipostasi sono: a) il Bene, che è sopraessenziale; b) l’Anima (l’Anima
del Mondo), che è un’essenza moventesi per sé; c) l’Intelletto (o la
Mente), che è un’essenza indivisibile, immobile”. (ivi, pag. 94).

Viene dopo questa una serie di Triadi sempre discendenti di grado, che
hanno le stesse caratteristiche della prima con splendore sempre
diminuito, finché si arriva all’uomo, che “ ha

1 Armaiti era da principio la Sapienza e la Dea della Sapienza. Più
tardi, come creatrice, venne identificata con la Terra, e fu adorata
come Dea della Terra.in sé potenzialmente la somma e la sostanza
dell’universo… “La razza degli uomini e degli Dei è una” (Pindaro,
pitagorico citato da Clemente, Strom. V, 709)… Così l’uomo fu
chiamato il microcosmo o il piccolo mondo, per distinguerlo
dall’universo o grande mondo” (ivi, pag. 271).

Egli ha il Nous, o mente reale, il Logos o parte razionale e l’Alogos
o parte irrazionale, e formando ciascuno dei due ultimi una Triade si
giunge ad una divisione settenaria più elaborata. L’uomo era pure
ritenuto come dotato di tre veicoli, il corpo fisico, il corpo eterico
e il corpo luciforme o augoide, che “ È il corpo “causale” o
vestimento karmico dell’anima, in cui sono raccolti i suoi destini, o
meglio i semi delle passate cause. Questo è “l’anima-filo” come si
chiama qualche volta, il ‘corpo’ che passa da un’incarnazione
all’altra” (ivi, pag. 284).

Quanto alla reincarnazione: “Gli Orfici, insieme con tutti quelli di
ogni paese che aderiscono ai Misteri, credono nella reincarnazione”
(ivi, pag. 292).

Intorno ad essa il Mead riunisce molte testimonianze e dimostra che la
insegnavano Platone, Empédocle, Pitagora ed altri. Solamente con la
virtù gli uomini potevano liberarsi dalla ruota delle vite.

Nelle sue note alle Opere Scelte di Plotino il Taylor, per ciò che si
riferisce agli insegnamenti di Platone sull’Uno oltre l’Uno, cioè
sull’Esistenza non manifestata, riporta il seguente passo di Damascio:

“Forse, invero, Platone ci conduce ineffabilmente per l’uno come mezzo
all’ineffabile oltre l’uno, che è ora oggetto della nostra
discussione; e ciò per un’offerta dell’uno nello stesso modo che egli
ci conduce all’uno per un’offerta di altre cose… Ciò che è oltre
l’uno, deve essere onorato nel più perfetto silenzio. L’uno infatti
vuol essere per se stesso, senza alcun altro; l’ignoto al di là
dell’uno è perfettamente ineffabile e noi riconosciamo di non
conoscerlo e di non ignorarlo, ma che è avvolto per noi da un velo di
superignoranza. Quindi, per la prossimità a questo, l’uno stesso è
“offuscato: poiché essendo vicino all’immenso principio, se fosse
permesso dir così, esso resta in qualche modo sulla soglia di quel
silenzio veramente mistico… Il primo è al disopra dell’uno e di
tutte le cose, essendo più semplice di ciascuno di essi”. (pag. 341,
343).

I Pitagorici, i Platonici e i Neoplatonici hanno tanti punti di
contatto col pensiero indù e buddista che è facile scorgere come tutti
abbiano attinto ad un’unica fonte. Il Garbe nella sua opera sulla
Filosofia Sàmkhya 1 riporta molti di questi punti e la sua esposizione
può essere così riassunta:

Ciò che più colpisce è la rassomiglianza, o più correttamente,
l’identità della dottrina, dell’Uno o Unico negli Upanishad e nella
Scuola Eleatica. Le teorie di Senofane intorno all’unità di Dio e del
Cosmo e all’immutabilità dell’Uno, e più ancora quelle di Parmenide,
il quale considerava la realtà come attribuibile soltanto all’Uno
increato, indistruttibile e onnipresente, mentre tutto ciò che è
molteplice e soggetto a cambiamento non è che apparenza, ed inoltre
che Essere e Pensare sono la stessa cosa — queste teorie sono
completamente identiche all’insegnamento essenziale degli Upanishad e
della filosofia vedantina, che ne deriva. Però anche la più antica
teoria di Talete, che tutto ciò che esiste sia venuto fuori
dall’Acqua, è stranamente simile alla dottrina vedica secondo la quale
l’Universo uscì fuori dalle acque. Più tardi Anassimandro assunse come
base di tutte le cose una Sostanza eterna, infinita e indefinita,
dalla quale procedono tutte le sostanze definite e alla quale tutte
ritornano — ipotesi simile a quella che si trova alla radice della
dottrina Sànkhya, vale a dire alla Prakriti, da cui evolvette tutto
l’aspetto materiale dell’Universo. E il famoso detto iràvtct p~~
esprime il concetto caratteristico samkhyano, che tutte le cose siano
in continuo cambiamento sotto l’incessante attività dei tre guna.
Empedocle a sua volta insegnò teorie di trasmigrazione e di evoluzione
che in fondo sono le stesse di quelle Samkhya; il suo principio poi
che nulla può venire all’esistenza che già non esista, è anche più
strettamente identico con una delle dottrine caratteristiche della
filosofia Sàmkhya.

Anche le dottrine di Anassagora e di Democrito sono in parecchi punti
assai concordanti con le indù, e specialmente poi le idee del secondo
sulla natura e sulla funzione degli Dei; lo stesso può dirsi di
Epicuro, sopratutto per alcuni curiosi particolari. Però è in Pitagora
che s’incontra la più stretta e più frequente identità di insegnamenti
e di argomentazioni; ciò che, stando alla tradizione, si spiegherebbe
con l’aver egli visitato l’India ed imparato colà la sua filosofia. In
secoli posteriori troviamo alcune idee prettamente sàmkhyane e
buddhiste, che rappresentano una parte importantissima nel pensiero
gnostico. Il seguente passo del Lassen, citato dal Garbe (Op. cit.,
pag. 97), lo dimostra chiaramente:

“Il Buddhismo in generale fa una netta distinzione tra Spirito e Luce,
e non riguarda la seconda come immateriale; ma in esso si ritrova una
teoria della Luce che ha stretta attinenza con quella degli Gnostici.
Secondo questa teoria, la Luce è la manifestazione dello Spirito nella
materia; l’intelligenza così vestita di Luce entra in relazione con la
materia, nella quale la Luce può diminuire ed infine totalmente
sparire; l’intelligenza finisce allora per cadere nella completa
incoscienza. Della Intelligenza suprema si afferma che non è né Luce
né Non-Luce, né Oscurità né Non-Oscurità, poiché tutte queste
espressioni denotano relazioni tra Intelligenza e Luce, relazioni che
non esistevano all’origine: solo più tardi la Luce avvolge
l’Intelligenza e le è intermediaria nei rapporti con la materia. Ne
consegue che la teoria buddhista ascrive all’Intelligenza suprema il
potere di produrre luce fuori di se stessa, e che anche su questo
punto il Buddhismo e lo Gnosticismo sono d’accordo”.

Il Garbe qui osserva che lo Gnosticismo si accorda assai più
strettamente con la filosofia sànkhya che non col Buddhismo; perché,
mentre queste vedute sulle relazioni tra Luce e Spirito appartengono
alle ultime fasi del Buddhismo, e come tali non ne formano affatto il
fondamento o la caratteristica, la Sankhya invece insegna apertamente
e con precisione che lo Spirito è Luce. Più tardi ancora l’influenza
del pensiero sànkhyano è evidentissima negli scrittori neoplatonici,
nei quali la dottrina del Logos, o Verbo, benché non sia di origine
khyana, si rileva però, fino nei suoi particolari, derivata
dall’India, dove il concetto di Vàch, la Divina Parola, ha nel sistema
brahmanico una parte così importante.

Venendo alla religione cristiana, contemporanea dei sistemi gnostico e
neoplatonico, non sarà difficile rintracciarvi la maggior parte degli
stessi insegnamenti fondamentali che ora ben conosciamo. Il triplice
Logos appare qui come la Trinità: il Primo Logos, fonte di ogni vita,
è il Padre; il Secondo Logos, dalla natura duale, è il Figlio, il
Dio-Uomo; il Terzo Logos, la Mente creatrice, è lo Spirito Santo, che
movendosi sopra le acque del caos ne trasse fuori i mondi. Poi vengono
“i sette Spiriti di Dio” 1 e le schiere degli arcangeli e degli
angeli. Dell’Esistenza Una, da cui tutto proviene e a cui tutto
ritorna, la Natura che sfugge a qualsiasi ricerca, pochi accenni si
trovano; ma i grandi Dottori della Chiesa Cattolica ammettono sempre
una Divinità incommensurabile, incomprensibile, infinita e perciò
necessariamente Una ed indivisa. L’uomo è fatto “ad immagine di Dio” 2
e conseguentemente è triplice nella sua natura: — Spirito, anima e
corpo 3; egli è “il tabernacolo di Dio” 4 il “tempio di Dio” 5, il
“tempio dello Spirito Santo” 6 frasi, che sono l’eco esatta
dell’insegnamento indù. Nel Nuovo Testamento la dottrina della
reincarnazione è implicita, più che apertamente insegnata: così Gesù,
nel parlare di Giovanni Battista, dichiara che questi è Elia “che
doveva venire”

1 Apoc. Iv, 5.

2 Gen. I, 26, 27.

3 I, Tess., v, 23.

4 Efes, II 22.

5 I. Cor., III.

6 I. Cor., vI 19.

7 S. Matt. xI 14.

riferendosi alle parole di Malachia: “lo vi mando il profeta Elia” 1
ed ancora quando interrogato su Elia stesso, che doveva venire prima
del Messia, risponde: “Elia è già venuto, ed essi non l’hanno
riconosciuto “ 2. Così pure i discepoli ammettono implicitamente la
reincarnazione, quando domandano se la cecità fin dalla nascita sia un
castigo per i peccati dell’uomo; e Gesù, pur non rigettando la
possibilità di peccati anteriori alla nascita, esclude solamente che
possano essere causa della cecità in questo caso particolare 3. La
frase notevole dell’Apocalisse (iii, 12: “Chi vince, io lo farò una
colonna nel tempio del mio Dio; ed egli non uscirà mai più fuori”, è
stata interpretata nel senso della liberazione dalle rinascite. Dagli
scritti di alcuni fra i Padri della Chiesa si possono ricavare delle
prove in buon numero intorno alla credenza comune nella
reincarnazione;alcuni obbiettano che vi è insegnata soltanto la
preesistenza dell’Anima; ma questa è un’opinione che non mi sembra
confortata dall’evidenza.

L’unità dell’insegnamento morale non colpisce meno dell’unità delle
concezioni intorno all’universo ed alle esperienze fatte da coloro
che, usciti dalla prigione del corpo, si innalzarono alla libertà
delle sfere superiori. È chiaro che questo corpo di dottrina
primordiale era affidato a particolari custodi i quali ebbero scuole
dove insegnarono e discepoli che vi studiarono. L’identità di queste
scuole e della loro disciplina si rileva facilmente quando ne studiamo
gli insegnamenti morali, le domande fatte agli allievi e gli stati
mentali e spirituali a cui questi venivano innalzati. Nel Tao Teh
Ching si fa questa sottile distinzione fra i vari tipi di scolari:

“Gli scolari della classe superiore quando odono parlare del Tào
mettono seriamente in pratica ciò che odono. Gli scolari della classe
media quando ne odono qualche cosa,pare che a volte lo seguano ed a
volte lo abbandonino. Gli scolari della classe inferiore, sentendo
parlare di esso, ne ridono fortemente”. ( Sacred Books of the East,
XXXIX; op. cit., XLI, I )

Nel libro stesso si legge: “Il savio mette in ultimo la sua persona e
tuttavia questa si trova al primo posto; egli tratta la sua persona
come se gli fosse estranea, e tuttavia questa persona viene
preservata. Non è forse perché egli non ha scopi personali e
particolari, che questi scopi finiscono per realizzarsi? (XVII, 2).
Egli è libero dalla vanità, e perciò splende; è libero dall’ambizione,
e perciò è segnalato; è libero dalla millanteria, e perciò il suo
merito è riconosciuto; è libero dall’egoismo, e perciò acquista
superiorità. E perché egli è così libero dal competere, nessuno al
mondo è capace di competere con lui (XXII, 2). Non vi è delitto più
grande di nutrire l’ambizione; non calamità più grande di essere
malcontento della propria sorte; non più grande colpa di desiderare di
ricevere (XLVI, 2). Con quelli che sono buoni [con me] io sono buono;
e con quelli che non sono buoni [con me] io sono buono ugualmente; e
così [tutti] diventano buoni. Con quelli che sono sinceri [con me] io
sono sincero; e con quelli che non sono sinceri [con me] io sono
ugualmente sincero; e così [tutti] diventano sinceri (XLXI, I. Colui
che ha in se stesso in abbondanza gli attributi [del Tâo] è simile ad
un fanciullo. Gl’insetti velenosi non lo pungono; le fiere non lo
assaltano; gli uccelli di rapina non lo feriscono (LV, I). Io ho tre
cose preziose che apprezzo e che custodisco. La prima è la benignità;
la seconda è l’economia; la terza è il rifuggire dal sopravanzare gli
altri… La benignità è certa di riuscire vittoriosa, anche in
battaglia e di conservare fermamente la sua posizione. Il cielo
conserverà chi la possiede, proteggendolo con la sua [stessa] benignità”. (LXVII, 2, 4).

Tra gli Indù vi erano degli studiosi scelti ritenuti meritevoli di una
speciale istruzione a cui il Guru impartiva gli insegnamenti segreti,
mentre le regole generali per condursi rettamente possono essere
ricavate dalle Ordinanze di Manu, dagli Upanishad, dal Mahâbhârata e
da molti altri trattati:

“Dica egli ciò che è vero, dica ciò che è piacevole; non dica verità
sgradevoli e non dica gradevoli falsità: questa è la’ legge eterna
(Manu, IV, 138). Non recando dolore a nessuna creatura, vada a poco a
poco accumulando meriti spirituali (IV, 238). Quell’uomo nato due
volte, da cui non sarà mai fatta la minima offesa ad esseri creati,
non troverà alcuna offesa da nessuna [parte], dopoché egli sia
liberato dal corpo (VI, 40). Sopporti pazientemente dure parole, non
insulti nessuno, non diventi il nemico di nessuno per amore di questo
corpo perituro. Non ricambi di collera un uomo incoIlerito, benedica
quando è maledetto (VI, 47, 48). Liberi da attaccamento, timore e ira,
assorti in Me, rifugiati in Me, purificati dal fuoco della sapienza,
molti sono entrati nell’Essere Mio (Bhagavad Gitâ, IV, 10). La gioia
suprema sopravviene allo Yogî, la cui mente è pacificata, le cui
passioni sono morte, che è senza peccato ed è divenuto uno con Brahman
(VI, 27). Colui che non odia creatura alcuna, amorevole e pietoso,
esente dall’idea di possessione, libero dall’egoismo, equanime nella
gioia e nel dolore, longanime, soddisfatto, sempre devoto, padrone di
sé, risoluto, con la mente e l’intelletto fissi su di Me, a Me devoto,
egli Mi è caro”. (XII, 13, 14).

Se ci volgiamo a Buddha, lo troviamo coi suoi Arhat, cui impartiva i
suoi segreti insegnamenti, mentre la sua dottrina pubblica ci insegna:

“L’uomo sapiente con l’ardore, con la virtù e con la purezza si rende
un’isola che nessuna onda può sommergere (Udanavarga, IV, 5). L’uomo
sapiente in questo mondo si attacca saldamente alla fede e alla
sapienza: questi sono i suoi più grandi tesori; egli disprezza tutte
le altre ricchezze (X, 9). Colui che conserva astio contro quelli che
conservano astio non può mai diventar puro; ma colui che non sente
astio placa quelli che odiano; poiché l’odio porta miseria al genere
umano, il saggio non conosce odio (XIII, 12). Vincete l’ira col non
adirarvi, il male col bene; vincete l’avarizia con la liberalità, la
falsità con la schiettezza” (XX, 18).

Allo Zoroastriano s’insegna di venerare Ahuramazda e poi “quello che è
bellissimo, quello che è puro, quello che è immortale, quello che è
brillante, tutto quello è buono. Noi onoriamo lo spirito buono, noi
onoriamo il buon regno e la buona legge e la buona sapienza (Yasna,
XXXVII). Possa giungere a questa dimora la contentezza, la
benedizione, l’innocenza e la sapienza del puro (Yasna, LIX). La
purezza è il miglior bene. Felicità, felicità è a lui; cioè al
purissimo in purezza (Ashemvohu). Tutti i buoni pensieri, tutte le
buone parole, tutte le buone opere si compiono con conoscenza. Tutti i
cattivi pensieri, tutte le cattive parole, tutte le cattive opere non
si compiono con conoscenza (Mispa Kumata).” (Estratti dall’Avesta in
Ancient Iranian and Zoroastrian Morals di Dhungibhoy Giamsetgi
Medhora).

Gli Ebrei ebbero le loro “scuole dei profeti” e la loro Cabbala e nei
libri exoterici troviamo gli stessi insegnamenti morali:

“Chi salirà al monte del Signore? e chi starà nel suo luogo santo?
L’uomo innocente di mani e puro di cuore, il quale non eleva l’animo a
vanità e non giura con frode (Salm. XXIV, 3, 4). E che richiede il
Signore da te, se non che tu faccia ciò che è giusto, e ami benignità,
e cammini in umiltà col tuo Dio? (Michea, vI, 8). Il labbro verace
sarà stabile in perpetuo; ma la lingua bugiarda sarà sol per un
momento (Prov. xII, 19). Non è questo il digiuno che io approvo: che
si sciolgano i legami di empietà, che si sleghino i fasci del giogo, e
che si lascino andar franchi quelli che sono fiaccati, e che voi
rompiate ogni giogo? E che tu rompa il tuo pane a chi ha fame, e che
tu raccolga in casa i poveri erranti; che quando tu vedi alcuno
ignudo, tu lo copra, e non ti nascondi dalla tua carne?” (Isaia,
lvIII, 6, 7).

Il Maestro Cristiano ebbe per i suoi discepoli le sue segrete
istruzioni (S. Matt., xIII, 10-17) e avvertì loro:

“Non date ciò che è santo ai cani, e non gettate le vostre perle ai
porci” (S. Matt., vII, 6). Per l’insegnamento pubblico noi possiamo
riferirci alle beatitudini del Sermone sul Monte ed a dottrine come
quelle che seguono:

“Ma io vi dico: amate i vostri nemici, benedite coloro che vi
maledicono, fate bene a coloro che vi odiano, e pregate per coloro che
vi fanno torto e vi perseguitano… Voi dunque siate perfetti, come è
perfetto il Padre Nostro che è ne’ cieli (S. Matt., v. 44,48). Chi
avrà trovata la vita sua la perderà; e chi avrà perduta la vita sua
per cagion mia la troverà (ivi, x,

39). Ogni uomo che si sarà abbassato, come questo piccolo fanciullo, è
il maggiore nel regno dei cieli (ivi, xvIII, 4). Ma il frutto dello
Spirito è: carità, allegrezza, pace, lentezza all’ira, benignità,
bontà, fede, mansuetudine, continenza; contro tali cose non vi è legge
(Gal., v, 22, 23). Diletti, amiamoci gli uni gli altri; poiché la
carità è da Dio; e chiunque ama è nato da Dio, e conosce Iddio”. I Ep.
Giov., Iv, 7.

La scuola di Pitagora e quella di Platone e dei Neoplatonici
conservarono la tradizione in Grecia; è noto che Pitagora acquisì
parte della sua dottrina in India, mentre Platone studiò e fu iniziato
nelle scuole di Egitto.

Delle scuole greche conosciamo notizie più precise che non delle altre
scuole; tra i Pitagorici si avevano dei discepoli obbligatisi per
voto, come pure degli allievi esterni; i primi sostenevano cinque anni
di noviziato passando per tre gradi 1. Il Mead descrive così la
disciplina esterna:

“Dobbiamo anzitutto darci interamente a Dio. Quando un uomo prega, non
dovrebbe mai chiedere nessun particolare beneficio, pienamente
convinto che gli sarà dato ciò che è giusto e conveniente, secondo la
sapienza di Dio e non secondo l’oggetto dei nostri egoistici desideri
(Diod. Sic., IX, 41). Con la virtù sola arriva l’uomo alla beatitudine
e questo è privilegio esclusivo di un essere razionale (Ippodamo, De
Felicitate, II, Orelli, Opusc. Graec. Sent. et. Moral., II, 284). In
se stesso, di sua propria natura, l’uomo non è né buono né felice; ma
può diventarlo con l’acquisire la vera dottrina.

Il dovere più sacro è la pietà filiale. “Dio fa piovere le sue
benedizioni sopra colui che onora e venera l’autore dei suoi giorni”
dice Pampelo (De Parentibus, Orelli, op. cit., II, 345).
L’ingratitudine verso i genitori è il più nero di tutti i delitti,
scrive Perizione (ivi, pag. 350), che si ritiene sia stata la madre di
Platone. Grande era la purezza e la delicatezza di tutti gli scritti
pitagorici (Eliano, Hist. Var., XVI, 19). In tutto ciò che concerne la
castità ed il matrimonio, i loro princìpi sono della più grande
purezza. Ovunque il Grande Maestro raccomanda la castità e la
temperanza, ma nello stesso tempo insegna che i coniugi dovrebbero
avere dei figli prima di condurre una vita di assoluto celibato,
affinché i figli possano nascere in condizioni favorevoli per
perpetuare la santa vita e la trasmissione della Sacra Scienza
(Giamblico, Vita Pythag., e Gerocl. ap. Stob. Serm., xlv, 14). Questo
è assai interessante, poiché precisamente la stessa regola è contenuta
nel Manava Dharma Shastra, il gran Codice Indiano… L’adulterio era
condannato con la più grande severità (Giamb., ivi). Inoltre era
prescritto al marito di trattare la moglie con una estrema dolcezza,
perché non l’aveva egli presa come sua compagna” davanti agli Dei?”
(Vedi Lascaulx, Zur Geschichte der Ehe bei den Griechen nelle Mém. de
l’Acad. de Baviére, VII, 107 e seg.).

“ Il matrimonio non era un’unione animale, ma un legame spirituale.
Perciò a sua volta la moglie doveva amare il marito più di se stessa,
ed essergli in tutte le cose devota ed obbediente. È inoltre
interessante rilevare che i più fini caratteri di donna, che l’antica
Grecia ci presenta, furono formati nella scuola di Pitagora; e lo
stesso avvenne degli uomini. Gli scrittori dei tempi antichi affermano
concordi che questa disciplina era riuscita a produrre i più alti
esempi non solo di castità e di sentimenti purissimi, ma anche di una
semplicità di maniere, di una delicatezza e di una serietà di
aspirazioni, non mai raggiunte. Ciò è ammesso anche da scrittori
cristiani (Vedi Giustino, XX, 4)… Fra i membri della scuola l’idea
di giustizia dirigeva tutti gli atti, mentre tra di loro praticavano
la tolleranza e la compassione più strette. Poiché la giustizia è il
principio di ogni virtù, come insegna Polo (ap. Stob. Serm, vII, ed.
Schow, pag. 232), è la giustizia che mantiene la pace e l’equilibrio
nell’anima; essa è la madre del buon ordine in tutte le società, porta
la concordia tra marito e moglie, e l’amore tra il padrone e il servo.
La parola di un Pitagorico era per lui un’obbligazione. E infine un
uomo doveva vivere in modo da essere sempre pronto a morire (Ippolito,
Philos, VI)”.

È interessante notare come nelle scuole neoplatoniche venivano
trattate le virtù e la netta distinzione che si faceva tra la moralità
e lo sviluppo spirituale o, come diceva Plotino, ” si deve cercare non
di essere senza peccato, ma di essere un Dio” 1. Lo studio inferiore
era di diventare senza peccato con l’acquisire le ” virtù politiche”
che rendevano un uomo perfetto in condotta (le virtù fisiche e morali
stavano sotto di queste), la ragione dominando e adornando la natura
irrazionale. Sopra queste erano le virtù catartiche, appartenenti alla
sola ragione e che liberavano l’Anima dai legami della generazione; le
virtù teoretiche, innalzanti l’anima al contatto con nature superiori
ad essa, e le paradigmatiche che le davano una conoscenza del vero
essere.

“Quindi colui che energizza secondo le virtù pratiche è un uomo degno,
ma colui che energizza secondo le virtù catartiche, è un uomo
demoniaco, o è anche un buon demone.” 2 Colui che agisce secondo le
virtù teoretiche, è un Dio. Ma colui che agisce secondo le virtù
paradigmatiche è il Padre degli Dei (Nota sopra la Prudenza
Intellettuale, pagg. 325, 332)”.

Ai discepoli s’insegna per mezzo di varie pratiche ad uscire dal corpo
ed a sollevarsi a regioni superiori. Come l’erba è tirata fuori dalla
guaina, l’uomo interiore deve estrarre se stesso dal suo fodero
corporeo (Katha Upanishad, VI, 17). Il “corpo di luce”, o “corpo
radiante” degli Indù, è il “corpo luciforme” dei neoplatonici, ed in
questo l’uomo si innalza a trovare il Sé:

“Non afferrato con la vista, né con la parola, né con gli altri sensi
(letteralmente Dei), né con l’austerità, né con riti religiosi; solo
con la serena sapienza, con la pura essenza si vede, nella
meditazione, l’Indiviso. Questo sottile Sé dev’essere conosciuto dalla
mente, in cui 1a quintuplice vita è dormente. La mente di tutte le
creature è animata di [queste] vite; in essa, purificata, si manifesta
il Sé” (Mundaka Upanishad, III, II, 8, 9).

Allora solamente può l’uomo entrare nella regione dove non v’è
separazione, dove le ” sfere non esistono più”. Nell’introduzione al
Plotino di Taylor, il Mead riporta da Plotino la descrizione di una
sfera che evidentemente è il Turîya degli Indù:

“Essi parimenti vedono tutte le cose, non quelle in cui è presente la
generazione, ma quelle in cui è presente l’essenza. E percepiscono se
stessi negli altri. Perché tutte le cose vi sono diafane; e nulla è
opaco e denso, ma ogni cosa è apparente a ciascuno internamente ed
attraverso. Perché la luce dovunque incontra la luce; poiché ogni cosa
contiene tutte le cose in se stessa, ed anche vede tutto in ogni altra
cosa. Così che tutte le cose sono per ogni dove e tutto è dovunque.
Ciascuna cosa similmente è tutto. E lo splendore vi è infinito. Perché
ogni cosa vi è grande, giacché anche quello che è piccolo è grande.
Anche il sole che vi è, e tutte le stelle; e così ogni stella è il
sole e tutte le stelle. Tuttavia, in ciascuna di esse predomina una
qualità differente, ma allo stesso tempo tutte le cose sono visibili
in ciascuna. Similmente il moto vi è puro, perché il moto non è
confuso da un motore differente da esso (pag. LXXIII)”.

Descrizione insufficiente, perché questa regione oltrepassa i limiti
del linguaggio mortale; pur tuttavia questa è tale che poteva essere
scritta solo da uno i cui occhi furono aperti.

Si potrebbe facilmente scrivere un intero volume sui punti di
somiglianza tra le religioni del mondo; ma il breve compendio fattone
ora deve bastare come prefazione allo studio della Teosofia: di quella
Teosofia che è una nuova e più completa presentazione delle antiche
verità, delle quali il mondo è sempre stato nutrito. Tutte queste
somiglianze accennano a un’unica fonte e questa è la Fratellanza della
Loggia Bianca, la Gerarchia di Adepti, che sorveglia e guida
l’evoluzione umana e che ha preservato da ogni ingiuria queste verità,
riaffermandole di tempo in tempo, quando ne sorse la necessità,
all’orecchio dell’uomo. Da altri mondi e da remote umanità Essi
vennero ad aiutare il nostro globo, evoluti con un processo
paragonabile a quello che si va compiendo ora per noi, e che ci
riuscirà meglio intelligibile quando saremo giunti alla fine di questo
nostro studio. Essi, assistiti dal fiore della nostra stessa umanità,
hanno dato questo aiuto dai tempi più antichi fino ad oggi. E tuttora
istruiscono ardenti discepoli, mostrando loro il sentiero e guidandone
i passi; oggi ancora possono essere raggiunti da coloro che Li cercano
portando nelle mani il sacro fuoco dell’amore, della devozione e del
desiderio puro di sapere per servire: oggi ancora Essi prescrivono
l’antica disciplina e rivelano gli antichi Misteri. Le due colonne
all’ingresso della loro Loggia sono Amore e Sapienza e ne possono
oltrepassare la stretta soglia soltanto coloro le cui spalle non sono
più gravate dal peso del desiderio e dell’egoismo.

***

Grave è il compito che ci sta dinanzi: incominciando dal piano fisico,
saliremo lentamente in alto; ma prima di dar inizio allo studio
particolareggiato del mondo in cui viviamo, ci potrà giovare l’esporre
succintamente il grande corso dell’evoluzione ed i suoi fini.

Prima che un sistema incominci ad essere, un Logos ne ha in mente il
complesso allo stato di idea: tutte le forze, tutte le forme, tutto
ciò che nel processo di evoluzione emergerà nella vita oggettiva. Egli
determina il circolo di manifestazione entro il quale vuole
energizzare e circoscrivere Se stesso per essere la vita del suo
Universo. In questo campo si vedono dapprima apparire degli strati di
densità successive, finché si rendono discernibili sette vaste
regioni; ed in queste si formano dei centri di energia, vortici di
materia che si separano l’uno dall’altro; quando poi i processi di
separazione e di condensazione sono compiuti (per quanto qui ci
riguardano), si scorgono un sole centrale, simbolo fisico del LOGOS, e
sette grandi catene planetarie, consistenti ognuna di sette globi.
Restringendoci alla catena di cui il nostro globo fa parte, vediamo
delle onde di vita che la trascorrono formando i regni della natura: i
tre elementali, il minerale, il vegetale, l’animale e l’umano.
Restringendoci ancora più al nostro stesso globo ed al suo ambiente,
assistiamo all’evoluzione umana e vediamo l’uomo sviluppare
l’autocoscienza con una serie di molti periodi di vita; finalmente,
concentrandoci su un uomo singolo, ne seguiamo lo sviluppo e vediamo
che ogni periodo di vita ha una triplice divisione, e che ciascuno è
legato a tutti i periodi di vita anteriori raccogliendone i risultati,
ed a tutti i periodi susseguenti seminando ciò che in quelli
raccoglierà; e tutto ciò per una legge che non può essere infranta.

Così che l’uomo può innalzarsi in ogni periodo di vita, aumentando la
sua esperienza; ed ogni periodo di vita lo eleverà sempre più alto in
purezza, in devozione, in intelletto, in forza utile: sicché alla fine
egli perverrà là dove sono Coloro che noi chiamiamo i Maestri, pronto
a rendere ai suoi più giovani fratelli quanto ha già da Quelli
ricevuto.

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