Le fondamenta del Buddhismo 11

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Le fondamenta del Buddhismo 11

di Peter Della Santina (parte undecima)

Tratto da: LE FONDAMENTA DEL BUDDHISMO> (INTRODUZIONE ALL’ABHIDHARMA)

LE TRE CARATTERISTICHE UNIVERSALI In questo capitolo parleremo di un’altra parte importante degli
insegnamenti del Buddha: le tre caratteristiche universali dell’esistenza. Come le Quattro Nobili
Verità, il karma, l’Origine interdipendente, i cinque aggregati, l’insegnamento delle tre
caratteristiche è una parte di quello che potremmo chiamare il contenuto dottrinale della saggezza.
In altre parole, quando parliamo della conoscenza e della comprensione implicite nella saggezza, ci
riferiamo anche a questo insegnamento.

Prima di passare ad esaminare le tre caratteristiche singolarmente, cerchiamo prima di capire che
significato hanno e come possono essere utilizzate. Prima di tutto che cosa è una caratteristica e
cosa non è? Una caratteristica è qualcosa sempre connesso con qualcos’altro. Siccome la
caratteristica è necessariamente connessa a una cosa, ci può indicare la natura di quella cosa.
Facciamo un esempio: il calore è la caratteristica del fuoco, ma non dell’acqua. Il calore è la
caratteristica del fuoco perché è sempre e invariabilmente connesso col fuoco, mentre invece, che
l’acqua sia calda o no dipende da fattori esterni come una stufa elettrica o il calore del sole o
altro. Il calore del fuoco invece è connaturato al fuoco. E’ in questo senso che il Buddha usa il
termine “caratteristica” per riferirsi ai fatti riguardanti la natura dell’esistenza che sono sempre
connessi all’esistenza stessa o che comunque si trovano nell’esistenza. La caratteristica “calore” è
sempre connessa con il fuoco. Possiamo capire qualcosa sulla natura del fuoco per mezzo del calore.

Capiamo che il fuoco è caldo e quindi potenzialmente pericoloso, che può consumare il nostro corpo e
ciò che possediamo, se non è sotto controllo. Però possiamo usare il fuoco per cucinare, per
scaldarci e così via. Perciò la caratteristica del calore ci spiega qualcosa del fuoco: cosa è il
fuoco e come usarlo. Se pensassimo alla caratteristica del calore in riferimento all’acqua, non ci
aiuterebbe a capire la natura dell’acqua o a come usarla in modo intelligente, perché il calore non
è sempre connesso con l’acqua. L’acqua non ci brucia necessariamente, non consuma i nostri beni, né
dobbiamo per forza cuocere il cibo con l’acqua o usarla per scaldarci. Quindi quando il Buddha ha
parlato delle tre caratteristiche dell’esistenza, intendeva dire che queste caratteristiche sono
sempre presenti nell’esistenza e che ci aiutano a capire cosa farne dell’esistenza.

Le tre caratteristiche dell’esistenza sono: impermanenza, sofferenza, non sé. Queste tre
caratteristiche sono sempre presenti o connesse all’esistenza e ci parlano della natura
dell’esistenza. Ci aiutano a sapere cosa farne di questa esistenza. Come risultato della
comprensione di queste caratteristiche, impariamo a sviluppare la rinuncia o distacco. Quando
capiamo che l’esistenza è universalmente caratterizzata da impermanenza, sofferenza e non sé,
abbandoniamo l’attaccamento all’esistenza. E una volta abbandonato l’attaccamento all’esistenza,
arriviamo alla soglia del Nirvana.

Questo è lo scopo della comprensione delle tre caratteristiche: rimuove l’attaccamento, abbandonando
l’illusione che ci porta erroneamente a pensare che l’esistenza sia permanente, piacevole e
collegata a un sé. Questa è la ragione per cui le tre caratteristiche fanno parte del contenuto
della saggezza.

Vediamo ora la prima delle tre caratteristiche dell’esistenza, la caratteristica dell’impermanenza.
L’impermanenza fa parte non solo del pensiero buddhista, ma anche della storia del pensiero umano.
Fu Eraclito, filosofo dell’antica Grecia, ad affermare che non ci si può bagnare due volte nello
stesso fiume. Questa osservazione che implica la natura sempre mutevole e passeggera delle cose, è
molto buddhista. Nelle scritture buddhiste si dice che il mondo è impermanente come nuvole
autunnali, che la nascita e la morte sono come una danza, e che la vita umana è come un lampo o una
cascata. Sono tutte irresistibili immagini di impermanenza che ci aiutano a capire che tutto è
segnato o caratterizzato dall’impermanenza.

Se guardiamo a noi stessi vediamo che il corpo è impermanente e soggetto a un cambiamento continuo.
Dimagriamo, invecchiamo, i capelli incanutiscono, i denti e i capelli cadono. Se volete una prova
dell’impermanenza della forma fisica, basta che guardiate le foto della patente o del passaporto
attraverso gli anni. Anche gli stati mentali sono impermanenti. Un momento siamo felici, un altro
tristi. Da bambini non capiamo molto; da adulti, nel fiore della vita, capiamo molto di più; da
vecchi perdiamo la forza delle facoltà mentali e ritorniamo bambini. Questo è vero anche per ciò che
ci circonda. Nessuna delle cose che vediamo intorno a noi durerà per sempre: né le case, i templi, i
fiumi, le isole, le catene di montagne, gli oceani. Sappiamo per certo che anche tutti i fenomeni
naturali, anche quelli che ci sembrano più durevoli, perfino lo stesso sistema solare, un giorno
cesseranno di esistere. Questo processo di cambiamento continuo, personale e impersonale, interno ed
esterno, va avanti in continuazione, anche quando non ce ne accorgiamo e influisce profondamente su
di noi nella vita quotidiana. I rapporti con gli altri sono soggetti alla caratteristica
dell’impermanenza e del cambiamento. Gli amici diventano nemici e i nemici diventano amici.
Addirittura i nemici possono diventare parenti e i parenti nemici. Se osserviamo profondamente la
nostra vita vediamo come il rapporto con gli altri sia segnato dall’impermanenza. Anche i nostri
beni sono impermanenti. Tutto ciò che amiamo, case, automobili, vestiti è impermanente. Tutto si
deteriora e alla fine viene distrutto. In tutti gli aspetti della vita sia materiali che mentali,
sia nelle relazioni con gli altri che con i nostri beni, possiamo verificare direttamente
l’impermanenza, osservandola nella sua immediatezza.

E’ importante capire l’impermanenza non solo per la pratica del Dharma, ma anche per la vita
quotidiana. Spesso le amicizie si deteriorano e finiscono perché una delle due persone non si
accorge che l’atteggiamento e gli interessi dell’amico sono cambiati. E quanti matrimoni falliscono
perché uno o entrambi i partner non tengono conto del fatto che l’altro è cambiato?

Siamo talmente bloccati da idee fisse, artificiali, immutabili sul carattere e le personalità degli
amici e parenti, che non riusciamo a sviluppare un giusto rapporto con loro e perciò non riusciamo a
capirci. Ugualmente, non possiamo sperare di avere successo nella vita pubblica o di lavoro se non
ci teniamo al passo col cambiamento delle situazioni, come ad esempio una nuova svolta nella nostra
professione o attività. E’ necessario capire l’impermanenza della nostra vita privata e sociale, se
vogliamo essere efficienti e creativi nel modo di rapportarci alle nostre situazioni personali e
professionali.

Sebbene la comprensione dell’impermanenza offra immediati benefici qui e ora, è un aiuto
particolarmente efficace anche nella pratica del Dharma. La comprensione dell’impermanenza è un
antidoto all’attaccamento e alla malevolenza. Ci sprona a praticare il Dharma e infine è una chiave
per capire la natura ultima delle cose, cioè come esse realmente sono.

Si dice che, per chi vuole praticare il Dharma, il ricordo della morte è come un amico e un
insegnante. Rammentarsi della morte indebolisce l’eccessivo attaccamento e la malevolenza. Quante
contese, dissensi insignificanti, quante ambizioni e inimicizie durate tutta una vita perdono ogni
importanza di fronte al riconoscimento dell’inevitabilità della morte? Attraverso i secoli, i
maestri buddhisti hanno sempre incoraggiato i praticanti seri a ricordarsi della morte, a ricordare
l’impermanenza di questa nostra personalità.

Alcuni anni fa un mio amico andò in India a studiare meditazione. Andò da un famoso e dotto maestro
buddhista e gli chiese istruzioni per la meditazione. Il maestro era riluttante a dargliele perché
non era convinto della sua sincerità. Ma il mio amico insistette e gliele chiese varie volte. Alla
fine il maestro gli disse di andare da lui il giorno dopo. Pieno di aspettative il mio amico andò da
lui, come gli era stato detto. Il maestro gli disse: “Morirai, medita su questo”.

La meditazione sulla morte è molto benefica. Tutti dobbiamo rammentarci della certezza della nostra
morte. Dal momento della nascita procediamo inesorabilmente verso la morte. Ricordando questo e
ricordandosi che al momento della morte dovremo abbandonare famiglia, ricchezze e fama, dobbiamo
volgere la mente alla pratica del Dharma. Sappiamo che la morte è assolutamente certa. Non c’è mai
stato alcun essere che ne sia scampato. Eppure, anche se la morte è certa, il momento della morte è
incerto. Possiamo morire in ogni istante. Si dice che la vita sia come una candela al vento o come
una bolla d’acqua; può spegnersi o scoppiare da un momento all’altro. Sapendo che il momento della
morte è imprevedibile e che ora abbiamo le condizioni e l’opportunità di praticare il Dharma,
dobbiamo praticarlo subito, in modo da non sprecare questa opportunità e questa preziosa vita umana.

Infine, comprendere l’impermanenza è un aiuto alla comprensione della verità ultima sulla natura
delle cose. Vedendo che tutto si deteriora e cambia ad ogni istante, cominciamo anche a vedere che
nulla ha un’esistenza propria, essenziale, che in noi e intorno a noi non c’è nessun “sé”, niente di
consistente. In questo senso l’impermanenza è in rapporto diretto con l’ultima delle tre
caratteristiche, la caratteristica del non sé. Capire l’impermanenza è la chiave per capire il non
sé. Parleremo ancora di ciò più tardi, ma per ora andiamo alla seconda delle tre caratteristiche: la
caratteristica della sofferenza.

Il Buddha ha detto che tutto ciò che è impermanente è doloroso, e che tutto ciò che è impermanente e
doloroso non ha un sé. Tutto ciò che è impermanente è doloroso perché l’impermanenza è occasione di
sofferenza. L’impermanenza è un’occasione di sofferenza piuttosto che una causa di sofferenza,
perché l’impermanenza è solo un’occasione di sofferenza finché sono presenti ignoranza, bramosia e
attaccamento. Perché? Nella nostra ignoranza della vera natura della realtà, desideriamo e ci
attacchiamo alle cose nella vana speranza che siano durature, che possano dare una felicità
permanente. Non capendo che la gioventù, la salute e la vita stessa sono impermanenti le desideriamo
e ci attacchiamo ad esse. Vogliamo trattenere la gioventù e prolungare la vita, ma, siccome sono
impermanenti per natura, ci scivolano tra le dita. Ed è allora che l’impermanenza diventa occasione
di sofferenza. Ugualmente, se non riconosciamo la natura impermanente dei nostri beni, del potere e
del prestigio, li desideriamo e ci attacchiamo ad essi. Quando finiscono, la loro impermanenza è
occasione di sofferenza.

L’impermanenza di tutte le situazioni nel samsara è occasione di sofferenza quando avviene nelle
sfere cosiddette fortunate. Si dice che la sofferenza degli dei è maggiore della sofferenza degli
esseri nelle sfere inferiori, perché gli dei si accorgono che stanno precipitando dal paradiso nei
regni inferiori. Perfino gli dei tremarono, quando il Buddha ricordò loro l’impermanenza. Poiché
anche le piacevoli esperienze che desideriamo e a cui ci attacchiamo sono impermanenti,
l’impermanenza è occasione di sofferenza e tutto ciò che è impermanente è sofferenza.

Ora trattiamo della terza caratteristica universale dell’esistenza, la caratteristica del non sé,
impersonalità o insostanzialità. Questo è uno degli aspetti veramente distintivi del pensiero
buddhista e dell’insegnamento del Buddha. Nel tardo periodo di sviluppo della filosofia e della
religione in India, le scuole induiste divennero sempre più simili all’insegnamento del Buddha
riguardo alle tecniche di meditazione e ad alcune idee filosofiche. Per cui i maestri buddhisti
sentirono la necessità di sottolineare che vi era tuttavia un tratto distintivo che separava il
buddhismo dalle scuole induiste che gli assomigliavano. Questo tratto distintivo è l’insegnamento
del non sé.

Talvolta questo insegnamento del non sé causa una certa confusione perché la gente si domanda come
sia possibile negare l’esistenza di un sé. In fin dei conti, diciamo “Io sto parlando” o “Io sto
camminando”, “Io mi chiamo così e così” o “Io sono il padre (il figlio) di quella certa persona”.
Come possiamo allora negare la realtà di questo “io”?

Per chiarir ciò, è importante ricordare che il rifiuto buddhista di un “io” non è il rifiuto della
designazione convenzionale del termine “io” o di un nome. E’ piuttosto il rifiuto dell’idea che il
nome o il termine “io” sottintende: una realtà sostanziale, permanente, immutabile. Quando il Buddha
disse che i cinque fattori dell’esperienza personale non sono il sé e che il sé non può essere
trovato in loro, voleva dire che, se si analizza il nome o il termine “io” non corrisponde ad alcuna
essenza o entità.

Il Buddha usò l’esempio di un carro e di una foresta per spiegare il rapporto tra il nome o il
termine “io” e le componenti dell’esperienza personale. Il Buddha spiegò che la parola “carro” è
semplicemente un nome convenzionale per indicare un raggruppamento di parti messe insieme in un
certo modo particolare. Le ruote non sono il carro, né l’asse, né la struttura e così via.

Ugualmente un solo albero non è una foresta, né lo sono un certo numero di alberi. Eppure non c’è
foresta separata dai singoli alberi, per cui il termine “foresta” è il nome convenzionale di un
raggruppamento di alberi.

Questo è il significato del rifiuto del “sé” del Buddha. Il suo è il rifiuto della credenza in
un’entità reale, indipendente e permanente rappresentata dal nome o dal termine “io”. Se ci fosse
una tale entità dovrebbe essere indipendente, dovrebbe essere sovrana come un re è sovrano di quelli
intorno a lui. Dovrebbe essere durevole, immutabile e resistente ai cambiamenti, ma una tale entità
permanente, un tale sé non si può trovare da nessuna parte.

Il Buddha usò il seguente metodo d’analisi per dimostrare che il sé non si può trovare da nessuna
parte del corpo e della mente: 1) Il corpo non è il sé perché se fosse il sé, questo sé sarebbe
impermanente, sarebbe soggetto a cambiamenti, al decadimento, alla distruzione e alla morte. Quindi
il corpo non può essere il sé. 2) Il sé non possiede il corpo, nel senso di come io posseggo una
macchina o una televisione, perché il sé non può controllare il corpo. Il corpo si ammala, si
stanca, invecchia a dispetto di ogni nostro desiderio. Il corpo spesso ha un’apparenza che non si
accorda col nostro desiderio. Perciò in nessun modo il sé possiede il corpo. 3) Il sé non esiste nel
corpo. Se ispezioniamo il nostro corpo, cominciando dalla testa fino alla punta dei piedi, in
nessuna parte troveremo il sé. Il sé non è nelle ossa o nel sangue, nel midollo spinale, nei capelli
o nella saliva. In nessuna parte del corpo possiamo trovare un sé. 4) Il corpo non esiste nel sé.
Affinché il corpo possa esistere nel sé, bisognerebbe trovare il sé separato dal corpo e dalla
mente, ma questo sé non si trova.

Allo stesso modo a) la mente non è il sé perché, come il corpo, la mente è soggetta a un continuo
cambiamento ed è agitata come una scimmia. La mente un momento è felice e il momento dopo è
infelice. Perciò la mente non è il sé, perché la mente cambia in continuazione. b) Il sé non
possiede la mente perché la mente si esalta e si deprime contro ogni nostro desiderio. Sebbene
sappiamo che certi pensieri sono positivi e altri negativi, la mente segue i pensieri negativi ed è
indifferente a quelli positivi. Perciò il sé non possiede la mente, perché la mente agisce
indipendentemente dal sé. c) Il sé non esiste nella mente. Per quanto accuratamente ispezioniamo il
contenuto della mente, per quanto accuratamente ispezioniamo le sensazioni, le idee, le tendenze, in
nessun angolo della mente o degli stati mentali troveremo il sé. d) La mente non esiste nel sé,
perché di nuovo il sé dovrebbe esistere separatamente dalla mente e dal corpo, e un tale sé non lo
troviamo da nessuna parte.

C’è un semplice esercizio che ognuno può fare. Ci sediamo tranquillamente per un po’ e guardiamo nel
corpo e nella mente; sicuramente scopriremo che non possiamo localizzare alcun sé nella mente e nel
corpo. L’unica conclusione possibile è che il “sé” è solo un nome convenzionale per un insieme di
fattori. Non c’è un sé né un’anima, un’essenza, un nucleo centrale di esperienza personale separati
dai fattori fisici e mentali dell’esperienza personale, come le sensazioni, le idee, le abitudini e
le tendenze e questi fattori sono sempre mutevoli, interdipendenti e impermanenti. Perché ci
prendiamo tanta pena per dimostrare l’inesistenza di un sé? Che benefici ne traiamo? Ne ricaviamo un
duplice vantaggio: il primo a livello mondano, nella vita quotidiana, perché diventiamo più
creativi, più aperti, siamo più a nostro agio. Fino a quando ci aggrappiamo a un sé dobbiamo sempre
cercare di difendere noi stessi, le nostre proprietà, il nostro prestigio, le nostre opinioni e
persino le nostre affermazioni. Ma una volta abbandonata la credenza in un sé indipendente e
permanente, potremo rapportarci con gli altri e con le situazioni senza paranoia.

Potremo agire liberamente, spontaneamente, creativamente. Quindi la comprensione del non sé ci aiuta
a vivere meglio.

In secondo luogo, e cosa molto più importante, capire il non sé è la chiave per l’illuminazione.
Credere in un sé è sinonimo di ignoranza e l’ignoranza sta alla base delle tre afflizioni. Il
momento che identifichiamo, che immaginiamo o che concepiamo noi stessi come un’entità,
immediatamente creiamo uno scisma, una separazione tra noi e le persone e cose che ci circondano.
Quando abbiamo questo concetto di un sé, reagiamo alle cose e persone intorno a noi con attaccamento
o avversione. In questo senso il sé è il vero cattivo della situazione.

Vedendo che il sé è la fonte e la causa di ogni sofferenza e che il rifiuto del sé è la causa della
fine della sofferenza, perché non fare del nostro meglio per respingere ed eliminare questa idea del
sé, piuttosto che cercare di difenderla, proteggerla e conservarla? Perché non riconoscere che
l’esperienza personale è come un albero di banano o una cipolla: se ad essi si toglie uno strato
dopo l’altro, se li si esamina criticamente e analizza, scopriremo infine che sono privi di un
centro essenziale e sostanziale, che sono privi di un sé?

Quando si comprende, attraverso lo studio, la riflessione e la meditazione, che tutto è
impermanente, pieno di sofferenza e primo di un sé e quando la comprensione di queste verità non è
più solo intellettuale o accademica, ma diventa parte della nostra immediata esperienza, allora la
comprensione di queste tre universali caratteristiche ci libererà da quegli errori fondamentali che
ci tengono imprigionati al ciclo di nascita e morte, gli errori cioè di vedere le cose durevoli,
soddisfacenti e che hanno a che fare con un sé. Quando si tolgono queste illusioni sorge la
saggezza, così come quando si toglie il buio sorge la luce. E quando sorge la saggezza sperimentiamo
la pace e la libertà del Nirvana.

In questo capitolo, ci siamo limitati a guardare l’esperienza personale in termini di corpo e mente.
Ora passiamo a guardare più approfonditamente l’analisi buddhista dell’esperienza personale alla
luce degli elementi del nostro universo fisico e mentale.

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