Impermanenza, insostanzialità e sofferenza del samsara

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Impermanenza, insostanzialità e sofferenza del samsara

di autore sconosciuto

Nel Samsanra, l’esistenza materiale e mentale (cioè, ogni oggetto esistente : cose, persone, esseri,
fenomeni, situazioni) è l’interazione di una pluralità di forze o eventi o elementi, i quali sono
tutti ulteriormente analizzabili, detti “dharma”. Essi sono impermanenti, attivi, condizionati,
ossia soggetti a nascita e distruzione. Il processo del mondo è pertanto un processo di cooperazione
di vari tipi di dharma : tutto è combinazione di qualche cosa, di condizioni, che si uniscono e poi
si separano di nuovo, senza per questo avere natura ed essenza proprie. E’ dall’impermanenza
(anitya) che derivano le altre due caratteristiche dell’esistenza : insostanzialità (anõtman) e
sofferenza (duhkha).

IL DIVENIRE E LA TRANSITORIETA’.

I dharma dunque sono manifestazioni momentanee, lampeggiamenti effimeri che durano soltanto per un
momento singolo, dato che scompaiono non appena sono comparsi, per essere seguiti da un’altra
esistenza nel momento seguente. Come i dharma sono separati nella dimensione spaziale (non essendo
legati l’un l’altro da nessuna sostanza onnipervadente), altrettanto avviene nella dimensione
temporale :

due momenti non possono unirsi, quindi non c’è durata reale, non c’è tempo aldifuori del momento. Un
elemento è perciò simile ad un punto spazio-temporale.

Impressionato dalla transitorietà e dall’incessante mutazione e trasformazione delle cose, Sakyamuni
Buddha considera tutti gli oggetti e fenomeni della natura quali forze, movimenti, sequenze e
processi, adottando così una concezione dinamica della realtà. Il mutamento, il divenire, è la
stoffa stessa della realtà :

qualunque cosa abbia una causa deve perire, perchè contiene in se stessa l’implicita necessità della
dissoluzione.

Nel mondo non vi è nè permanenza nè identità. Non vi è nulla di stabile, di duraturo e di permanente
: il sole e la luna sorgono e poi tramontano, il giorno è seguito dalla notte, le stagioni si
alternano senza posa. Il ricco diventa povero e il povero ricco, l’amico diventa nemico e viceversa.
Tutto cambia, d’ora in ora, di minuto in minuto, d’istante in istante, come il corso d’una cascata
che – benchè ci appaia sempre uguale – è tuttavia in continuo cambiamento, poichè l’acqua vi si
rinnova incessantemente e non una goccia resta al suo posto.. Impermanenza significa che tutti i
fenomeni (cose, esseri, sensazioni, emozioni, pensieri, situazioni) sono soggetti a nascere, durare
un certo tempo e passar via o sparire. Ogni cosa esistente è un insieme di elementi in relazione tra
loro, transitori e soggetti ad un continuo cambiamento. Tutto ciò che ha inizio, ha fine.

L’impermanenza è appunto questo processo di continua creazione e distruzione dei fenomeni. Essa ha
due aspetti :

grossolano : è la cessazione, morte o scomparsa dei fenomeni ;

1 ‘Momento’ è convenzionalmente la più piccola particella di tempo concepibile.

2 Quando il cambiamento cessa è la fine: l’acqua che scorre è pulita e limpida, quando smette di
scorrere stagna ed imputridisce.

. sottile : è la continua trasformazione dei fenomeni, istante per istante. Senza impermanenza, la
vita non sarebbe possibile : un seme di grano non potrebbe crescere, un bambino non potrebbe
diventare adulto, non si potrebbe cambiare un certo tipo di governo.

E’ errato pensare che Bergamo esista oggi come l’anno scorso, così come sarebbe sbagliato credere
che io sia oggi lo stesso di quando ero nel ventre di mia madre. E tutto ciò che esiste,
ineluttabilmente finirà : i mondi verranno distrutti dal fuoco, dall’acqua e dall’aria e gli esseri
moriranno. Ciascun dharma infatti viene influenzato simultaneamente da 4 forze (saËskõra)
differenti, che sono quelle

. della genesi (utpõda), nascita o produzione ; . della conservazione o mantenimento (sthiti) ; .
del decadimento (jarõ) ; . della distruzione (anityatõ), morte od estinzione.

Queste forze influenzano – sempre insieme e contemporaneamente – ognuno dei suddetti elementi
(dharma) in ogni momento della sua esistenza.

Anche la nostra personalità, il nostro io, la nostra individualità non è un fatto reale ed ultimo,
bensì solo un nome, che copre una moltitudine (un flusso) di elementi psicofisici (dharma)
interconnessi e in relazione tra loro – non limitati alla vita presente ma radicati in esperienze
passate e proiettati in quelle future. L’individuo è solo una combinazione di forze od energie
psico-fisiche, che mutano continuamente, definibili in 5 gruppi o aggregati (skandha) :

-la materia fisica -l’aggregato delle sensazioni -l’aggregato delle percezioni o discriminazioni
-l’aggregato delle strutture mentali -l’aggregato della coscienza

che operano in modo condizionato ed interdipendente (pratútyasamutpõda). I termini “io” o
“individuo” sono solo nomi dati convenzionalmente alla combinazione di questi aggregati, che in un
determinato momento si trovano ad esistere. Tale io è condizionato, soggetto a cambiamento, perituro
e impermanente e, di conseguenza, insoddisfacente. Quando i 5 skandha operano insieme nasce l’idea
di “io”, a cui l’uomo si aggrappa per avere sicurezza, ma essa è falsa perchè non c’è nulla aldilà
del fatto che questi aggregati operino insieme.

Del resto, tutta la realtà fenomenica è un complesso di fattori interdipendenti e condizionati
aldilà dei quali non c’è nulla : nessuna sostanza si nasconde dietro la generazione (o produzione),
la mutazione (o cambiamento) e la distruzione (o cessazione) di un fenomeno. Tutto ciò porta alla
legge di produzione interdipendente (pratútyasamutpõda) : non c’è una causa prima nè una sostanza
inerente, e i fenomeni esistono non in quanto cose ma in quanto avvenimenti : a determinate cause e
condizioni corrispondono determinati effetti, a loro volta causa e condizione di altri effetti in
una catena ininterrotta.

Ma come avviene che in questo divenire senza inizio nè fine giungiamo ad immaginare cose piuttosto
che processi ? ciò càpita perchè chiudiamo gli occhi davanti alla successione degli eventi : il che
pratica dei tagli nell’incessante corrente del mutamento e li denomina “cose”. La vita non è una
cosa, nè uno stato, ma un continuo movimento e mutamento : nulla è ora lo stesso di come era un
attimo fa.Il nostro stesso “io” è un complesso di sensazioni, idee, pensieri, emozioni e volizioni
in continua trasformazione ed evoluzione. Un fenomeno si presenta istantaneamente e dà luogo ad un
altro, così come un pensiero ne fa sorgere un altro.

Come non riusciamo a distinguere la trasformazione della panna in burro, così non siamo in grado di
percepire il fluire costante degli oggetti che compongono il tutto.

Una cosa non è altro che una serie di stati, il primo dei quali viene considerato come causa del
secondo, perchè sembrano della medesima natura. L’apparente identità fra un momento e l’altro
consiste in una continuità di momenti, sempre diversi : ma lo spettatore crede erroneamente che
l’universo sia un’esistenza permanente – proprio come un bastone ardente, agitato in circolo,
produce l’apparenza di un cerchio completo ; o come la proiezione di un film, pur avvenendo con
interruzioni (24 immagini al secondo), alla nostra retina sembra avvenire con continuità1. Che cosa
ci insegna l’impermanenza.

L’impermanenza porta il praticante a creare un atteggiamento mentale diverso dal consueto.
Innanzitutto, quando consideriamo l’impermanenza, apprezziamo di più le cose e le situazioni : una
stella cadente è molto bella perchè il tempo in cui la possiamo vedere è brevissimo ; anche il
tramonto è bello perchè non dura tutto il giorno.

Ma l’impermanenza ci insegna soprattutto a guardare le cose e le situazioni così come sono, senza
sviluppare sentimenti di attaccamento o di avversione. Noi soffriamo non perchè l’impermanenza sia
di per sè sofferenza, ma perchè non riusciamo ad accettare che le cose cambino. Nel nostro desiderio
di stabilità, ci riteniamo traditi quando ci accorgiamo che il saËsõra è un complesso di fenomeni in
continua evoluzione, che non ci è possibile controllare completamente e nel quale non si trova una
realtà ultima dotata di una natura permanente ed immutabile in cui possiamo confidare.

Secondo l’opinione corrente, la permanenza dà sicurezza, l’impermanenza no. Pensiamo che cambiamento
equivale a perdita e sofferenza : vogliamo disperatamente che tutto continui così com’è. In realtà,
invece, l’unica cosa durevole è paradossalmente proprio l’impermanenza. E la nostra lotta per
trattenere le cose così come oggi sono non solo è impossibile, ma – ironicamente – ci provoca
proprio quella sofferenza che vogliamo evitare. L’errore sta nel fatto che – per essere felici – ci
afferriamo a ciò che è per natura inafferrabile2. Invece di aggrapparci disperatamente alle cose e
tenerle strette dovremmo imparare ad allentare la presa e a lasciar andare : accettiamo
l’impermanenza, gustando nello stesso tempo la vita senza possessività : col tempo, avverrà una
trasformazione nel nostro modo di vedere le cose.

L’insegnamento buddhista sull’impermanenza e sul non-sè è una chiave per considerare le cose per
quelle che sono : la povertà non è meno transitoria della ricchezza, la stupidità non lo è meno
della saggezza. Una tale visione ci libera dall’attaccamento alle cose del mondo e ci infonde il
coraggio di affrontare – senza avversione – gli inevitabili cambiamenti che intervengono nella vita
: dalla perdita della giovinezza (e della vita stessa) ai mutamenti legati agli affetti, al lavoro,
alla salute.

1 In realtà, il mondo è come il susseguirsi dei fotogrammi di una pellicola cinematografica : non
c’è nessuna sostanza che abbia una durata ; e gli elementi non mutano, ma scompaiono. Ne consegue la
negazione del movimento : un elemento non può muoversi, poiché scompare non appena è apparso e
quindi non c’è tempo perché possa muoversi. In effetti, quello che chiamiamo movimento è una serie
di manifestazioni separate o lampeggiamenti che sorgono contiguamente l’uno all’altro, cioè
apparizioni consecutive di nuovi elementi in nuovi posti. Tale divenire non esclude però
l’impressione di una durata o continuità che – in realtà – non esiste.

2 E’ impossibile possedere le cose (o le situazioni) perché queste ci fuggono in virtù della
transitorietà e dell’impermanenza. E chi crede di riuscirci, si illude come colui che tenta di
fermare il tempo spaccando l’orologio. Comprendere l’impermanenza porta ad accettare il presente :
quello che sappiamo è di essere “qui ed ora”, la nostra consapevolezza riguarda il momento presente,
senza dar spazio e proiezioni per il futuro e senza “ricamare” sui ricordi del passato. E siccome è
sempre il momento presente, accettare il presente significa accettare la vita.

LA CAUSALITA’. Per rendere ragione della continuità del mondo in mancanza di un substrato
permanente, ci si deve basare sulla legge della causazione (pratútya-samutpõda). I dharma sono
elementi separati ma connessi tra loro : questa interconnessione però non deriva da una sostanza che
si estenda nello spazio e che duri nel tempo, bensì in virtù del rapporto di causalità. Causalità
significa che l’origine di una cosa è in dipendenza di un’altra, e quindi si risolve tutto in un
procedimento, in un divenire (fisico o psichico). Nel flusso della vita e nel vortice del mondo non
vi è alcun centro di realtà nè alcun principio di permanenza : non vi è nel mondo alcun essere
immutabile ed auto-esistente, bensì soltanto il divenire. In tale stato di cose, la realtà suprema è
la legge del cambiamento, cioè la causalità.

Se non c’è persistenza nè continuità, vi è – di contro – successione e causalità : una morte produce
(e non può non produrre) una nascita, in relazione alla legge di causalità, e la nascita non può che
esser l’altra faccia di una morte. Nulla si perde, nulla si crea sia nella natura fisica sia nel
piano psichico, mentale, spirituale. Il processo del mondo è pertanto un processo di cooperazione
tra i vari tipi di elementi sottili ed effimeri : questa attività di cooperazione è controllata
dalle leggi di causalità.

Ad es., una relazione causale tra i dharma è quella che si ha quando il momento seguente è proprio
lo stesso di quello trascorso, evocando pertanto nell’osservatore l’idea di durata ; in altre
parole, il passato è visto come causa di omogeneità tra momenti consecutivi. Un altro esempio è la
relazione di causalità simultanea o reciproca, che lega la mente ai fenomeni mentali : il citta
(mente) non appare mai senza essere contemporaneamente accompagnato dai caittadharma (fattori
mentali). In un mondo dove tutto passa e non si concepiscono sostanze, l’Assoluto non può essere che
considerato come “legge”, cioè come la legge universale e sovrana della causalità : l’Essere è il
procedimento (governato da tale legge) del divenire che in ogni momento si distrugge e di nuovo si
ricrea.

L’ INSOSTANZIALITA’. Se ogni fenomeno è transitorio, vuol dire che è privo di una qualsiasi essenza,
sostanza o identità inerente. Quindi, i dharma non esistono come realtà ultime, assolute, come vere
sostanze.

a) Non vi è nessuna vera sostanza oltre i dati sensoriali (r¾pa) : aldilà di essi non c’è
assolutamente nulla a cui poter attribuire il nome di sostanza materiale. Un tavolo, un libro, ecc.
sono finzioni verbali ed empiriche perchè ogni oggetto materiale non è che uno spazio immenso
popolato da atomi separati da distanze relativamente fantastiche in rapporto alle loro dimensioni. A
loro volta, gli elettroni, i protoni e le particelle subatomiche che compongono gli atomi possono
unirsi ed annientarsi l’un l’altro, risolvendosi in un’energia che si trasforma ad ogni frazione di
secondo : attrazioni e repulsioni determinano diversi equilibri ;

b) analogamente, non c’è nessuna vera sostanza spirituale (o anima) oltre gli elementi mentali
(idee, volizioni, sensazioni affettive, ecc.). Infatti, anche la coscienza è un complesso costituito
da fuggevoli stati mentali. Ognuno di essi, una volta passato, non ritorna e non è assolutamente
identico a quello che era prima. Questi stati cambiano continuamente, ma noi – che siamo oscurati
dal velo dell’illusione – interpretiamo a torto questa continuità apparente come un’entità
inalterata ed eterna, come un’individualità costante, sostanziale, immutabile e definita. E’ un po’
come la riva del mare, costituita in realtà da un numero infinito di particelle di sabbia, che però
ci appaiono come un’immensa spiaggia unita, solida e compatta.

L’io o essere, quindi, non è che questo processo di fenomeni psico-fisici in continuo apparire e
sparire, collegati tra loro dalla forza karmica di ogni singolo individuo ma non legati ad alcuna
sostanza (o principio) stabile – il che toglie ad essi ogni permanenza di fissità : questo flusso
ininterrotto o continuità di fenomeni psico-fisici ha la sua origine nel passato infinito e la sua
continuazione nel futuro nel senso che, con la morte, la coscienza non muore che per dare origine
alla nuova coscienza in una nuova vita. Questo nuovo essere non è identico al precedente (i suoi
skandha non sono gli stessi aggregati del suo predecessore), ma non è nemmeno un qualcosa di diverso
da esso in quanto vi è una continuità di vita, una successione di stati concatenati (il nuovo
individuo fa pur sempre parte della stessa corrente di energia karmica) : l’essere che muore
trasmette la sua forza karmica al nuovo e quest’ultimo è condizionato dal karma dell’essere che l’ha
preceduto.

Vi è dunque una personalità in senso puramente empirico e relativo : saËtõna è appunto il flusso di
fatti interconnessi che – in questo senso – indica l’individuo. Tale flusso i 18 dhõtu, cioè gli
elementi sia fisici che mentali, gli elementi del proprio singolo corpo e gli oggetti esterni in
quanto costituenti l’esperienza di una data personalità. I 18 dhõtu sono tenuti insieme da una forza
speciale detta “prõpti”, che agisce soltanto nei limiti di un singolo flusso e non oltre.

LA SOFFERENZA. 1 Questo flusso di elementi tenuti insieme e non limitati alla vita presente, ma
radicati in esperienze passate e proiettati in quelle future, è la controparte buddhista dell’anima
o del “sè” di altri sistemi. “Ignoranza” è non vedere le cose come realmente sono nelle loro 3
caratteristiche fondamentali, cioè come impermanenti, insoddisfacenti e prive di un proprio sé. Ora,
da una simile cecità non proviene che dolore : infatti, o le cose e le persone ci procurano fin
dall’inizio sensazioni spiacevoli, per cui ci irritiamo e le avversiamo con ostilità e violenza
(odio) ; oppure ci dànno invece sensazioni piacevoli, per cui ci si attacca ad esse come se fossero
eterne – e da qui sorge il timore di perderle (se si possiedono) o il desiderio di possederle (se
non si hanno ancora) : in un continuo susseguirsi di ricerche di cose o situazioni che ci si illude
siano durevoli e in un perpetuo alternarsi di delusioni quando esse decadono inevitabilmente e ci
sfuggono di mano.

I fenomeni dell’esistenza sottomessi alla causalità e trascinati nel divenire si succedono in serie
e non durano che un momento ; destinati alla sparizione, essi sono transitori e di conseguenza
dolorosi. Il fatto di non riconoscere nella nostra ignoranza e quindi di non accettare il dato di
fatto che i fenomeni sono effimeri, ma di desiderare che tutto resti immutabile cercando di fermare
il cambiamento, provoca sofferenza, insoddisfazione, frustrazione.

La natura fondamentale della nostra mente è da sempre libera da qualsiasi forma di sofferenza : è
intelligenza, amore, compassione, comprensione, gioia. Queste qualità sono da sempre presenti
nell’essere umano, mentre l’odio e le altre emozioni negative non sono inerenti alla mente umana,
sono soltanto frutto di un’erronea comprensione. Che cosa allora impedisce di godere di uno stato di
perenne felicità ?

un errore della mente nella percezione di sè e del mondo, errore consistente nel considerare reale
ciò che reale non è : l’esistenza di un io intrinsecamente esistente.

La consapevolezza ordinaria di se stessi è superficiale, distratta, appoggiata su un’identità
auto-costruita e quindi impossibilitata ad accedere alla comprensione di “come le cose
effettivamente accadono”.

Se ci si basa su persone che oggi ci sono amiche o su una situazione attualmente favorevole per
riprometterci benefìci duraturi ed immutabili, ci si affida a qualcosa di effimero, di inautentico e
di continuamente cangiante. Nel momento in cui si chiede loro quello che non sono, non possono che
diventare inaffidabili, anche se il difetto sta nelle nostre aspettative e non in ciò a cui ci
abbandoniamo fiduciosi : le cose e le persone sono molto raramente come noi vorremmo che fossero e
sono invece, più spesso, tutto l’opposto. La caratteristica principale del regime dell’ “io – mio” è
quella di aspettarci la felicità da ciò che non è in grado di darla.

Accecato dall’illusione della molteplicità fenomenica, l’uomo si aggrappa al miraggio d’una felicità
che appare a portata di mano, immaginando di poter conquistare per sempre i piaceri della ricchezza,
della bellezza, della cultura, dell’amicizia, del potere ; ma alla fine egli si ritrova deluso e,
spesso, sommerso dai frammenti di un progetto che assume il senso di un naufragio esistenziale.

Le nostre azioni si fondano sull’illusione di avere qualcosa da difendere e di dover lasciare un
segno nel mondo, indispensabile per affermare la nostra esistenza separata e senza il quale pensiamo
di non avere valore. La causa della sofferenza risiede proprio nel volerci costruire un’identità
separata, temendo che non ci resterà nulla o che ciò che ci resterà sarà un’uniformità insipida, uno
stato senz’anima, senza fantasia nè spirito.

I vari tipi di sofferenza. 1 Infatti, manipolare le cose o le circostanze esteriori nel tentativo di
risolvere i nostri problemi, se ciò non è accompagnato da una profonda trasformazione mentale può
avere solo un successo temporaneo.

L’effettiva realtà della sofferenza consiste nel fatto che – qualunque cosa facciamo – la vita
contiene insoddisfazione e pena : se godiamo il piacere, abbiamo paura di perderlo o ci sforziamo di
aumentarlo o prolungarlo ; se non lo godiamo, ci preoccupiamo di cercarlo ; e se soffriamo un
dolore, vogliamo cacciarlo. C’è un continuo darsi da fare, un’incessante ricerca del momento
successivo, un vorace aggrapparsi alla vita, uno stato di agitata e tumultuosa irrequietezza.

a) Tre tipi di sofferenza riguardano tutti gli esseri senzienti : 1. – “la sofferenza della
sofferenza” (duhkha-duhkhatõ) è quella che subiamo concretamente nell’infelicità e nel dolore, cioè
il dolore fisico o mentale che è provato realmente : ad es., il dolore fisico del mal di testa o
l’ansia per un amico in difficoltà ;

2. – “la sofferenza [come effetto] del cambiamento” (vipariÐõma-duhkhatõ) è dovuta all’impermanenza
di tutte le cose e situazioni del saËsõra, per cui un fenomeno piacevole tende col tempo a cambiare
e a deteriorarsi, divenendo spiacevole (ossia, il piacere prolungato si trasforma in dolore): per
es., se abbiamo fame ci procuriamo degli alimenti che da principio ci soddisfano, ma l’eccessivo
attaccamento al piacere del cibo ci fa mangiare troppo e così stiamo male ; oppure : passando
dall’ombra al sole, inizialmente godiamo il calore, ma dopo – quando abbiamo troppo caldo –
cerchiamo di nuovo il refrigerio dell’ombra ; oppure : il rilassarci dopo le fatiche del lavoro ci
dà un certo piacere, che però – se troppo prolungato – finisce con l’annoiarci ;

3. – “la sofferenza onnipervadente” (saËskõra-duhkhatõ) è la sofferenza potenziale, latente, che è
insita ed implicita nella stessa esistenza di questo corpo e di questa mente, cioè nella nostra
natura. Infatti, tutto ciò che è composto, prodotto o condizionato ha una natura insoddisfacente per
la dipendenza e precarietà della sua stessa esistenza. Per gli uomini si tratta dunque della
sofferenza di possedere questo tipo di corpo e mente [umani], che sono soggetti ad attirare il
dolore come una calamita attrae il ferro : il solo fatto di possedere questo corpo e questa mente
contaminati è la fonte di tutti i nostri guai. Per es., un caso di “sofferenza del soffrire” è il
mal di pancia ; ma il fatto che la nostra pancia funzioni in modo tale da potersi ammalare, questa è
la “sofferenza che tutto pervade”.

Nessuna delle 6 classi di esseri è esente da questi 3 tipi di sofferenza ; inoltre, ciascuna di esse
ne subisce dei tipi che le sono più propri (ad es., la fame e la sete dei preta), descritti nella
trattazione dei 6 regni samsarici.

b) Otto tipi di sofferenza sono sopportati dall’umanità : gli esseri umani hanno cioè la sofferenza
. della nascita (anzi, l’embrione soffre fin dal momento del concepimento) ; . della vecchiaia ; .
della malattia ; . della morte ; . di esser separati da ciò che desideriamo o a cui siamo attaccati
(amici, parenti, beni luoghi, ecc.) ; . di trovarci in situazioni indesiderate od ostili (incidenti,
persone nemiche) ; . di non riuscire a realizzare tutti i propri desideri, cioè di non incontrare la
felicità cercata (benefìci economici, fama, amori, ecc.) ; . di avere un corpo samsarico (che mentre
subisce le sofferenze provenienti dalle azioni karmiche, produce un ulteriore karma che causa la
sofferenza delle vite future).

c) Inoltre, dal punto di vista psicologico, l’uomo può sperimentare gli stati d’animo e le
sofferenze – oltre che del proprio stato samsarico – anche degli altri 5 regni d’esistenza : la
sofferenza di ciascuno di questi ultimi ha la sua controparte psicologica nel regno umano. Così
quando si dubita di sè e del proprio mondo e si pensa che ci sia qualcosa fuori di noi da attaccare,
combattere e vincere, si è adirati ed aggressivi contro qualcosa e si cerca di distruggerlo cosicchè
più è forte la nostra ostilità e più l’ambiente circostante risponde con uguale aggressività (per
cui il processo diventa autodistruttivo) : diveniamo l’odio stesso e perseguitiamo noi stessi
continuamente.

Questa aggressività è l’inferno : esso non è qui considerato come un luogo fisico, ma come una
condizione (o stato) della mente e precisamente come un mondo di fantasie nevrotiche ed allucinate
in cui si entra e che poi si considera reale1 ;

2. si sperimenta il mondo animale quando ci comportiamo con brutalità e testardaggine o quando
tiriamo avanti faticosamente ed ottusamente (ci limitiamo a sopravvivere), aggrappati al nostro
mondo che è sicuro, metodico e tranquillo, ci è familiare e con cui abbiamo dimestichezza, ignorando
volutamente ciò che ci sta attorno e chiudendo le orecchie ai messaggi e alle situazioni
imprevedibili che potrebbero compromettere la sicurezza di seguire modi consueti, gretti ed
unilaterali ;

3. si vive la condizione di asura quando ci si sforza di realizzare condizioni ideali di piacere e
di superiorità, ossessionati dal voler misurare il nostro progresso e dal volerci paragonare agli
altri : si lotta sempre per controllare l’egemonia della propria posizione, si è decisi a difendere
ed a mantenere la propria felicità, preoccupandoci che gli altri tentino di strapparcela ; per cui
si ha la tendenza a sospettare di ognuno e di ogni cosa, cosicchè ogni esperienza della vita è
considerata una minaccia e si agisce esclusivamente nell’intrigo, nella gelosia e nell’invidia.
L’esistenza degli asura è come la competizione e la rivalità negli affari e nella politica ;

4. se invece si ha la brama insaziabile di accumulare, possedere, indossare o mangiare, la gioia del
possesso – una volta che possediamo – non dà più soddisfazione e siamo costantemente alla ricerca di
qualcosa di nuovo da acquisire. Si intravede una possibilità di soddisfazione, si fa per realizzarla
ed è subito delusa ; ma la brama è così esigente che non ci si scoraggia e si continua così senza
tregua. E’ come l’analogia secondo cui il giardino del vicino è sempre più verde : appena il
giardino diventa nostro, la gioia o l’apprezzamento della sua bellezza come la vedevamo prima non ci
sono più. I preta sono come quelle persone immensamente ricche ma mai soddisfatte, che si gettano in
operazioni economiche una dopo l’altra o trascinano estenuanti processi giudiziari causati dalla
loro avidità ;

5. la vita del regno dei deva si verifica infine allorchè l’atteggiamento è l’orgoglio, cioè quando
si ha la soddisfazione di “essere” qualcuno (si diviene consapevoli della propria individualità), si
raggiunge il successo o la meta agognata (si diventa miliardari, ministri, artisti celebri….) e ci
si rende conto che ce l’abbiamo fatta, che siamo arrivati, e ci sentiamo “in paradiso”. I deva sono
come quelle persone ricche e tranquille, che conducono una vita di agi senza aver mai bisogno di
lavorare col cervello perchè non costretti ad affrontare vicende difficili o dolorose,

1 L’interpretazione della realtà fatta dalla mente costituisce ciò che sentiamo e come ci sentiamo.
Solo quando miglioriamo la nostra visione della realtà, sperimentiamo una realtà migliore. ma
talmente anestetizzati da non aver alcuna consapevolezza della loro reale situazione. Tutto il sè è
quindi soggetto al dolore, inteso questo in senso lato e quindi comprensivo di sofferenza,
afflizione, angoscia, angustia, disperazione, dispiacere, pena, frustrazione, disagio e di ogni
altro tipo d’infelicità. L’insegnamento della sofferenza. Nell’ambito del ssè la condizione umana è
tipica, perchè è l’unica specie di esseri che è fornita di un potenziale per la propria
trasformazione spirituale : lo sprona a questa trasformazione è proprio costituita dalla sofferenza,
allorquando operano nell’uomo l’intelligenza e la consapevolezza di cui è dotato. Quindi, la
sofferenza è un fattore molto importante perchè ci induce a rivolgerci al Sentiero spirituale e a
seguire il Dharma, facendoci infine ottenere la felicità – vera e permanente – dell’Illuminazione.

Ma la sofferenza ci può insegnare molto per diventare felici anche ad un livello puramente
samsarico. Così, dovremmo esser consapevoli della nostra buona salute (quando l’abbiamo) e di
apprezzarla, e non di considerarla come una cosa scontata : quando abbiamo mal di denti, soffriamo
molto e pensiamo che non averlo sia una cosa stupenda ; ma quando non l’abbiamo più, non ne gioiamo
molto. Ci sono molte altre condizioni di felicità intorno a noi (il fatto di non esser disoccupati,
di essere liberi, ecc.), ma non sapendo entrarci in contatto perpetuiamo la nostra sofferenza.

Ma soprattutto l’infelicità può farci diventare più compassionevoli : il nostro dolore ci fa capire
quello degli altri, che soffrono al pari di noi e, spesso, più di noi e che quindi meritano il
nostro aiuto. Il modo più pratico per liberarsi dal proprio dolore è il dedicarsi il più possibile
agli altri. Dobbiamo cioè cambiare l’attitudine di prendere a cuore noi stessi con quella di
preoccuparci delle altre persone. Dedicarsi agli altri è l’unico modo per essere veramente felici.

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