Attaccamento ed equanimità

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Attaccamento ed equanimità

POMAIA 2 SETTEMBRE 1999. A CURA DI TITTI MARCELLO

Domande e risposte con Corrado Pensa

Abbiamo deciso di pubblicare quasi integralmente la sessione di
domande e risposte che si è svolta durante il ritiro della scorsa
estate (1999) a Pomaia, perché a volte questa modalità consente un
approccio più immediato ad alcune questioni che vengono considerate
cruciali dai praticanti nel corso del cammino interiore.

È ovvio che proprio perché si tratta di temi importanti e complessi
non è possibile che vengano esauriti in un tempo così circoscritto.

L’attaccamento porta sofferenza ed è comunque una cosa sbagliata. Ma
come si fa a non essere attaccati a un figlio o alla vita? Come
riconoscere dove confina un giusto amore con l’attaccamento?

È facile sviluppare attaccamento nei confronti delle persone che ci
sono vicine, come nel caso dei figli, ma non è certo l’unica
possibilità di rapporto con essi. Se c’è totale attaccemento per una
persona, ad esempio un figlio, saremo completamente identificati,
avremo molta possessività, vorremo che faccia determinate cose, che
sia in un certo modo e non in un altro, avremo un’enorme paura che
soffra, anche riguardo a quelle sofferenze utili e necessarie alla
crescita. Questa è, appunto, una forma di attaccamento totale.

Possiamo poi immaginare una forma intermedia, in cui c’è amore di
attaccamento ma c’è anche una forma molto diversa di amore, ovvero
l’amore di sollecitudine: che ci induce anzitutto a dare tempo ed
energia per la crescita dell’altro. Qualcosa di molto attivo, non
basato sulla paura e sull’identificazione, come è invece
l’attaccamento. Oppure possiamo pensare a un’ulteriore situazione,
certamente più rara, in cui l’amore di sollecitudine è quello che
prevale.

Quindi non credo che nei riguardi di un figlio, o di esseri umani
comunque a noi vicini, le due uniche possibilità siano essere
attaccati o essere irresponsabilmente indifferenti. In realtà c’è
tutta una serie di possibilità di rapporto che vanno da quelli basati
su attaccamento, possessività, identificazione totali – molto legati
quindi al prevalere in noi di spinte egoiche – a un rapporto di
sollecitudine che, oltre a essere curativo, ha l’importante
caratteristica di manifestare il nostro grado di libertà,
comunicandolo anche alla persona in questione.

Dato che questa problematica viene posta di frequente, mi è venuto da
riflettere sul fatto che a volte sembra che chi fa questo tipo di
domande, pensi: “È estremamente chiaro quello che è l’attaccamento, mi
rimane da risolvere questo dubbio: e con un figlio come la mettiamo?
Per il resto è tutto chiaro”. Perciò vorrei prendere lo spunto –
avrete notato come noi insegnanti insistiamo molto sui temi
dell’attaccamento, dell’avversione, eccetera – per dire che
l’attaccamento in realtà è un po’ come un pianeta sommerso che
attraverso la pratica è tutto da scoprire. Noi immaginiamo di
conoscere più o meno, all’ottanta per cento, le storie, l’entità dei
nostri attaccamenti. Ma tra le sorprese della pratica (a volte
gradite, a volte meno, ma sempre importanti), c’è quella di farci
vedere quanto poco in realtà sappiamo sul nostro attaccamento, su come
funziona, su come ci condiziona. Vorrei fare soltanto due esempi:
tutto ciò che riguarda la nostra reattività è qualcosa di
profondamente radicato nel nostro attaccamento. Inoltre, svariate
abitudini di vita e numerose abitudini mentali facilmente sono
un’altra espressione forte, complicata e vischiosa del nostro
attaccamento. Può darsi che noi conosciamo la dolorosità insita in
alcune delle nostre abitudini, ma altre, più sottili, non le
conosciamo e le scopriamo proprio in virtù della pratica: piano piano
il pianeta sommerso dell’attaccamento ci si rivela, con i frutti di
conoscenza e di liberazione che questo comporta.

È quindi certamente importante comprendere la differenza tra
attaccamento e amore di sollecitudine, ma, messo in chiaro questo,
deve cominciare il lungo viaggio della pratica per incontrare, capire
e trascendere tanti nostri attaccamenti.

Un’ultima precisazione: la parola attaccamento può creare a volte una
specie di blocco, perché evoca un senso di indegnità. Allora usiamo
magari un’altra parola, però andiamo alla sostanza: che cosa indica
l’attaccamento? come funziona? come ci imprigiona? cerchiamo cioè di
percepire in prima persona le sabbie mobili dell’attaccamento. Se ci
facciamo spaventare dalla parola, se la viviamo moralisticamente,
rischiamo di non procedere.

Oltre alla pratica formale c’è qualche tecnica o suggerimento per
sostenere la consapevolezza nella vita di ogni giorno? Qualche libro?

Questo tema è molto importante. Nella vita quotidiana le Quattro
Dimore Sublimi, i quattro brahmavihara – metta, karuna, mudita,
upekkha – sono ottimi agganci. Anche praticate in maniera informale,
secondo modalità sintetiche e ridotte, sono ottimi modi di ricordarci
della pratica del Dharma, dell’essere presenti qui e ora, di quello
che conta. Quindi raccomando sempre la pratica di metta o di karuna o
di mudita o di upekkha, non solo nelle sedute, ma anche in azione. E
sono contento ogni volta che mi viene data l’occasione di
raccomandarlo di nuovo, perché è una pratica di una importanza
estrema, oltre a essere di grande bellezza.

Un altro modo è quello di praticare con il ‘respiro in azione’, cioè
ricordandoci della possibilità di essere attenti al respiro anche
quando siamo in azione. Ovviamente non si può pretendere grande
continuità in questo, ma, come molti di voi sanno, bastano a volte uno
o due respiri consapevoli, per rinvenire alla consapevolezza da uno
stato di confusione o di reattività.

Un terzo punto che vorrei sottolineare è la possibilità di rifarsi al
corpo: se stiamo camminando, attraverso la consapevolezza del
camminare, se stiamo seduti, attraverso la consapevolezza dei punti di
contatto sulla sedia. Richiamarsi al corpo, a parti del corpo, ci
rende più vivi, è un varco abbastanza immediato per la consapevolezza.

Un ulteriore punto tra i vari possibili è la consapevolezza delle
nostre emozioni negative, della nostra tendenza giudicante (ossia
compulsivamente critica e censoria), della nostra reattività, cioè di
tutti i momenti in cui proviamo emozioni negative, come frustrazione,
rabbia, paura, anche se molto piccole. Anzi, meglio se molto piccole,
perché sono più facili da investire con la consapevolezza rispetto a
quelle molto potenti. Le piccole frustrazioni, i piccoli disappunti
sono di grande utilità per addestrare la consapevolezza, perché il
grande disappunto è come una grande onda che ci travolge e magari
quando ci ricordiamo della pratica siamo già scoraggiati, per cui la
pratica ci cade di mano, l’andiamo a raccogliere esitanti e ci ricade
di mano un’altra volta. Se invece stiamo davanti a qualcosa di più
piccolo e modesto l’addestramento è più possibile.

Quindi non lasciamoci sfuggire le reazioni, i giudizi mentali, le
emozioni, soprattutto se non sono dirompenti, perché, se ci
addestriamo con quelle piccole e medie, a un certo punto potremo far
fronte anche a quelle dirompenti.

Con la pratica da una parte sento sempre di più che le chiavi per la
felicità sono dentro di me, dall’altra sono sempre più cosciente di un
qualcosa di insostituibile che avviene nel rapporto tra insegnante e
studente, al di là dell’insegnamento di tecniche o nozioni. Potresti
dire qualcosa riguardo al rapporto, all’importanza dell’insegnante
nella pratica?

Questo tema ha una rilevanza diversa a seconda delle tradizioni: per
esempio nel buddhismodella tradizione tibetana l’importanza del lama,
che significa maestro, è molto forte. E così avviene in altre scuole,
induiste, nei sistemi basati sulla centralità del guru o maestro. Nel
buddhismo classico, che poi continua nel buddhismo Theravada odierno,
c’è una minore sottolineatura, si parla piuttosto di kalyanamitta che
vuol dire amico spirituale, buon amico. Quindi si tende più a un
rapporto di amicizia-guida spirituale, piuttosto che a un rapporto più
‘regale’, che è invece tipico dei sistemi in cui il maestro è
centrale.

Penso che, come in tutte le discipline, figure di insegnanti, di
guide, che hanno fatto perlomeno un buon tratto di strada e siano in
grado di illustrarcelo, siano fondamentali, ma non escludo la
possibilità di persone che nascono con un tale carisma spirituale che
sono praticamente maestre o maestri nati. Diciamo però che
costituiscono l’eccezione e quindi la grandissima maggioranza degli
aspiranti spirituali ha un serio bisogno di guida per camminare nel
sentiero.

Nei casi in cui la figura del maestro, del lama, del guru, ha un ruolo
centrale si presuppone che un legame forte crei un sostegno molto
importante per il discepolo. E in effetti in molti casi questo
rapporto costituisce un aiuto straordinario. Però le cose sono sempre
a doppio taglio, perché un rapporto così forte può anche creare grande
dipendenza dalla quale il discepolo potrà avere molta difficoltà a
liberarsi. Quindi ci sono vantaggi e svantaggi.

L’approccio con una figura meno enfatizzata del maestro – io
preferisco usare il termine ‘insegnante’ – da un lato rende meno
presente questo pericolo di fortissima dipendenza, ma dall’altro può
fare smarrire persone che invece, con un rapporto molto forte,
sarebbero fiorite. Quindi entrambe le vie hanno un senso, e la scelta
giusta dipende dalle inclinazioni e dalle affinità di ciascun
individuo, tenendo presenti i vantaggi e gli svantaggi.

Del resto la stessa pratica, se perseguita con interesse e fedeltà,
rende più intuitivi e aumenta il nostro discernimento sulle qualità di
un insegnante, di qualcuno che si propone come guida in campo
spirituale. All’inizio di un cammino infatti possiamo essere
facilmente più ingenui e ci possono impressionare cose che col tempo
si rivelano più esteriori. Può darsi che siamo molto attratti da un
insegnante, soltanto perché alcuni nostri amici ce ne hanno parlato
molto bene, e quindi siamo sotto questo fascino condiviso, ma poi,
progredendo, ci accorgiamo che questo insegnante non va per noi.
Allora occorre il coraggio, l’elasticità di mettere in discussione
questo rapporto ed eventualmente di lasciarlo perdere.

Altre volte sentiamo che un insegnante ci può dare cose importanti
nell’ambito del cammino, ma abbiamo molta paura che se ci affidiamo a
questa persona, poi non siamo più liberi. In realtà si sono verificati
casi in cui un cieco abbandono a personaggi che poi si sono rivelati
tutt’altro che spirituali ha creato molto dolore. Quindi la cautela è
sempre ragionevole. Però se la cautela è, piuttosto, un timore
costante, se davanti a qualsiasi figura di guida sentiamo questa paura
di darci, perché pensiamo che se ci diamo poi siamo finiti, allora c’è
un nodo psicologico da investigare.

Si possono dire tante cose in questo campo, per esempio la nascita
della gratitudine per chi ci ha insegnato qualcosa di importante.
Questa gratitudine da un lato è personale, ma se il nostro è un vero
rapporto di Dharma, se la persona è un vero insegnante di Dharma e noi
siamo dei veri studenti di Dharma, questa gratitudine diventa più
ampia, cioè passa dalla gratitudine alla persona, a una gratitudine al
Dharma, al fatto che esiste la possibilità della liberazione. Questo
passaggio dal personalistico al più ampio, mi pare molto specifico di
un percorso spirituale e anche questo è un segno della ‘dharmicità’
sia dell’insegnante sia dello studente e della sua maturazione.

Per riassumere, la questione è di tale complessità e delicatezza che
non può in nessun modo essere semplificata: bisogna travagliarsi un
po’ nella ricerca di chi da un lato sia qualificato a insegnare e
dall’altro ci sia in qualche modo affine, perché possiamo stare
davanti a ottimi insegnanti ma non sentirli affini. E possiamo magari
stare davanti a insegnanti meno famosi e sentirli più affini a noi e
allora proprio da questi possiamo prendere di più.

Aiutami a capire le differenze tra accettazione e passività. E per
favore qualche sassolino che indichi la via per imparare a perdonarsi.

Questo tema è talmente centrale nel cammino spirituale che rispondere
a questa domanda è come illustrare la pratica dall’inizio alla fine.

Tante volte in questi giorni si è parlato del giudicarsi, del dubbio
su se stessi, cioè del contrario di perdonarsi, di come sia frequente
questo atteggiamento di svalutazione di sé, di sfiducia in se stessi.
È un tema cruciale. Da un lato lo è sempre stato, ma forse oggi c’è
qualche cosa in più. Sono finite o stanno finendo le società
tradizionali, nelle quali c’è una gran quantità di supporti per ogni
individuo, dai ruoli ai riti, eccetera. Oggi l’individuo è più libero
di scegliersi la propria vita, ma è molto più privo di supporti, di
punti di riferimento e questo aumenta l’ansia, la sfiducia, la
facilità a sentire di non valere, con tutto il disorientamento che
questo comporta.

Tutto il cammino della pratica, poiché ci porta gradualmente a
cogliere qualche cosa di grande valore che è dentro di noi, e che, al
tempo stesso, non è personale, va nella direzione di ingenerare
fiducia, sia nel senso di fiducia in se stessi, sia in un senso più
grande, di fiducia incondizionata, radicale. E questo senso di fiducia
si manifesterà anche come capacità di perdonarci, e dunque di essere
meno giudicanti, innanzitutto verso di noi e di conseguenza,
organicamente, verso gli altri.

Poi naturalmente, oltre a coltivare la nostra pratica abituale,
possiamo prendere iniziative specifiche: rivolgere la metta verso noi
stessi e rivolgere parole di perdono esplicite verso noi stessi. Anche
questa è una vera e propria pratica: rivolgere parole di perdono verso
noi stessi. È un aiuto. Però senza il fondamento di una pratica che va
avanti un mese dopo l’altro, un anno dopo l’altro, è difficile che
queste cose possano andare in profondità; infatti il condizionamento
della nostra mente è molto forte e di esso fa parte, non di rado, la
facilità ad autodisprezzarci: non è una tendenza di cui ci liberiamo
tanto facilmente.

Occorre dunque da un lato il lavoro lungo e paziente della pratica nel
suo complesso, dall’altro occorre una pratica specifica: la metta
verso di sé, il perdono verso di sé. C’è bisogno di tutto questo per
aiutarci a sviluppare una comprensione sempre più profonda di quanto
inutilmente doloroso sia il nutrire l’avversione per noi e per altri.
Tale comprensione ci porta in primo luogo a riconoscere l’odio per se
stessi. Poi a comprendere quale carico di dolore ciò porti con sé e
poi – per usare la terminologia del buddhismo classico – a concepire
un sereno disincanto nei confronti di questa tendenza negativa che ci
abita. Allora questa tendenza si comincia a indebolire, mentre i
nostri intenti positivi guadagnano spazio, perché c’è stata questa
comprensione e questo primo naturale moto di non attaccamento nei
confronti di quello che ci fa male, proprio perché l’abbiamo
verificato attraverso l’esperienza.

Accettazione è un nome che la spiritualità contemporanea, non soltanto
buddhista, usa per indicare dimensioni che, nel linguaggio spirituale
classico, sono indicate con equanimità e pazienza, in campo buddhista,
e con abbandono, umiltà e pazienza, in campo cristiano. Oggi si usa
molto la parola accettazione, che da un lato ha il pregio di essere
una parola meno logora, dall’altro ha il difetto di potersi confondere
con quello che non ha niente a che fare con l’accettazione, ossia la
passività. Ma quale virtù particolare potrebbe esserci nella
passività? La passività fa capo alla paura, la quale è un ‘oggetto’ da
investigare seriamente con la pratica della consapevolezza.
L’accettazione è un atto di coraggio, la passività è un atto di paura.
L’accettazione non significa né subire a tutti i costi, né
inghiottire, ma, davanti a una ingiustizia, significa la
consapevolezza del turbine interno che questa ci suscita e quindi la
capacità di rispondere a essa, non da una dimensione di reattività
(che crea solo un’altra ingiustizia), ma di equanimità e di
accettazione. Ora, avere come punto di partenza l’accettazione invece
della reattività rende molto più alte le probabilità di rispondere con
un’azione giusta, non violenta e giusta. Da tutto ciò si può
comprendere come l’accettazione sia esattamente il contrario della
passività.

L’accettazione, il calore, la tenerezza, sono parti integranti della
consapevolezza che si sviluppa. Tanto che noi possiamo definire la
consapevolezza come una dimensione discernente e accettante, che ha
insieme luce e calore, soprattutto quando si sviluppa e matura.

Che rapporto ha upekkha con le altre tre meditazioni?

Upekkha, l’equanimità, è fondamentale per gli altri tre brahmavihara,
è alla base della benevolenza (metta), della compassione (karuna),
della gioia compartecipe (mudita). Cioè senza l’equanimità non
possiamo avere una benevolenza autentica, una compassione autentica,
una gioia compartecipe autentica perché senza l’upekkha saremo
inevitabilmente parziali e reattivi. Quando si parla di metta si
intende una capacità di benevolenza sempre più incondizionata, ma se
non abbiamo uno sfondo di equanimità non potrà essere incondizionata e
sarà basata invece su preferenze. La metta, invece, deve essere sempre
più qualcosa che abbraccia tutti allo stesso modo. Anche la
compassione, se non ha una forte base di equanimità, non è la
compassione vera, serena, dotata di una specifica forza di sostegno:
è, piuttosto, cordoglio, angoscia e smarrimento per il dolore altrui.

È realmente ciascuno “possessore del proprio karma?” Può realmente la
felicità di ciascuno dipendere solo dalle proprie azioni? È un’idea
che istintivamente rifiuto. Il bambino che vive vicino alla centrale
elettrica e per questo ha contratto una malattia ai polmoni, quale
responsabilità può avere? Non si preclude la sua felicità a causa
della malattia, ma certo essa è più difficile. Sono portato a credere
che la responsabilità e la felicità di tutti sia condivisa, ciò mi fa
sentire anche meno impotente di fronte alla infelicità e alla malattia
altrui.

Non mi trovo bene con le frasi tradizionali sull’equanimità, per il
semplice fatto che non le posso sperimentare in prima persona, come
suggerisce il Buddha. L’infelicità di alcune persone mi sembra anche
causata dalle azioni di altri, vedi violenze subite in tenera età.
Devo per forza credere a vite precedenti, o ci sono forme meno
tradizionali di coltivare l’equanimità senza ricorrere alla parola
karma?

La meditazione di equanimità è basata su affermazioni e non su un
augurio. Tali affermazioni mi lasciano però confuso. Che vuol dire “io
possiedo il mio karma”? Se tutto è interconnesso e non esiste nulla a
sé stante, nulla di io-mio, in che senso il karma è posseduto?

Cercherò di dire qualcosa di essenziale su questa tema. Anzitutto
esistono frasi meno tradizionali di upekkha e sono state menzionate
anche queste; ad esempio: “Che tu possa accettare te stesso così come
sei”, “Che tutti gli esseri possano accettare le cose così come sono”.
Anche queste sono perfette frasi di equanimità, che tuttavia non
coinvolgono il karma.

Penso che nella pratica di upekkha ci sia un richiamo molto forte e
preciso alla responsabilità delle proprie azioni, fisiche, vocali e
mentali e lo sviluppo di questa responsabilità presuppone un lungo
cammino interiore. In piccola misura si può benissimo diventare più
responsabili delle proprie azioni dopo aver ascoltato un’esortazione
di questo genere, ma ciò intaccherà solo la superficie. Occorre un
lungo lavoro interiore per imparare anzitutto a discernere le azioni e
il loro carico: perché esse sono anzitutto mentali, come ad esempio il
nostro coltivare la mente giudicante o il risentimento. Queste azioni
creano infelicità e richiedono molto tempo per essere viste e
comprese, e perché scatti il disincanto nei loro confronti, perché si
diventi meno ipnotizzati e meno assuefatti a esse. Allora la pratica,
la dottrina dell’upekkha, dell’equanimità, comincia anzitutto a
richiamarci a una responsabilità nei confronti delle nostre azioni,
intese in questo senso globale. Ma per questo bisogna conoscere e
comprendere come queste azioni funzionano ed essere capaci di accedere
a una progressiva liberazione da quelle negative.

Vorrei fare un esempio: a causa di una persona che guida una macchina
in stato di ubriachezza, vengo investito e rimango menomato. Da questo
momento ci sarà molta più infelicità nella mia vita. Dobbiamo
ricordarci che il discorso relativo all’upekkha è un discorso che si
fa in ambito di pratica. Allora il mio punto di partenza è quello di
una persona menomata a causa di un brutto incidente stradale, in cui
io non ho alcuna responsabilità. Bene, in ambito di pratica da questo
punto di partenza si possono sviluppare due tragitti completamente
diversi. Uno è quello di una maledizione continua di quel momento e di
quello che è successo, quindi la costruzione di un abbrivio energetico
negativo e di grandissima infelicità. L’altra possibilità, volendo
guardare i due estremi, è quella invece di coltivare la pratica. E
sappiamo bene che da condizioni di grande difficoltà, di menomazione,
di malattia, eccetera, sono nate storie spirituali di grande
autenticità.

È pure vero che nella teoria completa del karma si dice anche che se
io sono oggetto di un incidente, questo ha a che fare con qualcosa che
io ho fatto in vite precedenti. Ma mentre questa è una credenza, la
comprensione del karma qui e ora, in questa vita, è un’esperienza di
portata notevole quanto a capacità trasformante. Dunque vedere e
comprendere che se coltiviamo certe azioni fisiche, vocali e mentali,
coltiviamo felicità; se coltiviamo azioni fisiche, vocali e mentali di
segno opposto, coltiviamo infelicità. Questo è il nucleo portante
della dottrina del karma. Poi il buddhismo ci dice che il karma si
estende oltre una vita – e a me questa sembra un’ipotesi importante –
ma quello che è fondamentale dal punto di vista della pratica è
lavorare col karma ora qui.

L’espressione ‘possessore del karma’, ‘erede del karma’, io penso (e
non sono l’unico a pensarlo) che sia un modo di dire, un modo di
esprimersi, anche perché presupporrebbe un ‘io’ che possiede il karma,
se lo porta appresso e via dicendo.

La dottrina antica relativa al karma sostanzialmente dice che noi
compiamo in questa vita azioni – karma significa azione – ancora una
volta, fisiche, vocali e mentali, che producono un’energia. Quando
moriamo questa energia prodotta non muore, ma continua e foggia in
qualche maniera un altro individuo. Allora questo individuo è lo
stesso o è un altro? La scuola antica dice: è lo stesso ed è un altro.
Allora a rigori non mi sembra che si possa parlare letteralmente di
una persona che possiede il karma, poiché questa persona si dice è la
stessa, ma anche che non è la stessa, per cui la frase tradizionale
verosimilmente è solo una modalità di esprimere qualcosa di complesso:
“Siamo possessori del nostro karma, siamo eredi del nostro karma”,
quindi è soprattutto un richiamo alla responsabilità, cioè alla
comprensione saggia e compassionevole delle azioni mentali, vocali e
fisiche che compiamo.

Che cosa dobbiamo comprendere, l’impermanenza o la sua cessazione?

La comprensione sempre più vissuta, intuitiva, cioè non intellettuale
o razionale, dell’impermanenza, del carattere cangiante e fluttuante
delle cose, è molto importante. Questa comprensione deve avere come
suo effetto evidente non un minor rapporto con la vita, ma un maggior
rapporto con la vita. Perché comprendendo l’impermanenza, il fluttuare
continuo delle cose, tendiamo meno ad attaccarci, a solidificare, a
identificarci, quindi c’è meno sofferenza, più contatto con la vita e
più apprezzamento. Se invece, poiché tutto è impermanente, per noi la
vita perde di significato, non abbiamo capito l’impermanenza, siamo
semplicemente depressi.

“Cos’è che dobbiamo comprendere, l’impermanenza o la sua cessazione?”.
Dobbiamo comprendere entrambe. Infatti è vero che un canto dice “la
comprensione di questa cosa porta la felicità” e un altro canto parla
di “cessazione dell’impermanenza”, in riferimento al nirvana, che è al
di là di permanenza o impermanenza. Diciamo quindi che la comprensione
sempre più profonda dell’impermanenza, attraverso la pratica, ci porta
a stati progressivi di liberazione, per accedere infine a una
dimensione definita akaliko, ‘al di là del tempo’, e al di là del
tempo non c’è più né permanenza né impermanenza. Quindi entrambe le
cose sono importanti, ma quella più accessibile è una comprensione
sempre più vissuta dell’impermanenza.

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