I Tre mondi inferiori e tre mondi superiori

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I Tre mondi inferiori e tre mondi superiori

del monaco buddhista Isi Dhamma

da it.dhammadana.org

“I Tre mondi inferiori e tre mondi superiori”

Vi sono, dunque, tre mondi (o sfere) inferiori. Esistono anche tre
mondi superiori. Il mondo si divide, dunque, in tre categorie di
esseri. E’ attraverso queste tre categorie che le esistenze evolvono,
nascono e muoiono. Rinascono in ognuna di queste categorie, in
funzione degli atti e delle parole che hanno tenuto durante la loro
vita; particolarmente, in funzione delle intenzioni che li hanno
motivati e dei punti di vista, delle credenze che accompagnavano
queste azioni e queste parole.

Di conseguenza, dopo la sua vita, quando una persona si è attivata a
produrre della sofferenza attorno a sè, sotto forma di atti violenti,
o di parole dolorose, essa subirà delle rinascite consecutive nei tre
mondi inferiori. Quando, invece, un essere si è essenzialmente
esercitato a compiere, nelle parole e negli atti, delle azioni
positive, sane, costruttive, sorgenti di pace e di salute, egli
rinascerà in uno dei tre mondi superiori. L’equazione è proprio
semplice come abbiamo scritto, per non chiamarla ingenua.

Come dice Buddha: “Se noi piantiamo un nocciolo di mango, otterremo un
mango; quando si tratta di un seme di mela, avremo un melo. Se
coltiviamo un nocciolo di mango, non ne verrà fuori un melo e quando
sarà un seme di mela, non otterremo un mango. Di conseguenza, gli atti
negativi grossolani e malsani offrono una rinascita nei mondi
inferiori, e gli atti positivi sani e costruttivi conducono
necessariamente a rinascere nei mondi superiori.” Non esistono
eccezioni.

– Arrestare il ciclo –

Per lui, la cosa più importante non è fare i giocolieri con il futuro,
sforzandosi di eseguire degli atti meritori, e dicendosi: “Così,
rinascerò nei mondi superiori”. Per lui, l’importante sta
nell’intraprendere il cammino che ci porti a conoscere il ciclo delle
morti e delle rinascite. Tale ciclo non riguarda solo l’apparizione
della vita in questo mondo, seguita da un decesso, che conduce ad
un’altra esistenza. Noi viviamo ad ogni istante il ciclo delle morti e
delle rinascite. Per esempio, quando diveniamo adulti, c’è un bambino
che cessa di vivere. Quest’ultimo procrea un adolescente, che perisce,
a sua volta, dopo avere dato nascita ad un adulto; che, però, sparirà,
quandro entreremo nella vecchiaia. Un vegliardo non è un bambino, nè
un adolescente, e neanche un adulto. Così, c’è un ciclo che si
perpetua. Noi attraversiamo delle fasi transitorie, che si succedono.
Ad un certo punto, non ci troviamo più nella fase precedente, e
neppure ancora in quelle che debbono seguire.

L’interesse del nostro cammino, se seguiamo l’insegnamento di Buddha,
non è quello di arrestare questo ciclo perpetuo (non è eterno, ma
perpetuo), che ci fa passare da una fase all’altra. Quando siamo
collerici, l’ìndomani ci troviamo gioiosi; la collera è morta ed è
nata la gioia. In ogni istante passiamo da una fase all’altra. Tale è
il ciclo delle morti e delle rinascite. Rinasciamo e moriamo ogni
volta che cambiamo idea, i nostri comportamenti ed i nostri umori.
Ogni volta, qualcosa sparisce e qualcosa appare. In fin dei conti,
abbiamo l’impressione di essere sempre la stessa persona,ma questo è
falso. Possiamo pensare: “Ieri, ero collerico; ero io”. Però, il
personaggio collerico non sta più là, non esiste più, è sparito. Oggi,
è quello gioioso che si sta esprimendo.
Vivere è una corvée

L’importante non è di preoccuparsi di sapere se abbiano vissuto prima
della fecondazione e se continueremo veramente a vivere dopo la morte.
Si tratta di ipotesi lontane. Ciò che interessa conoscere è che, ogni
mattina, ci alziamo e la corvée di vivere riprende di nuovo. Vivere è
una corvée e la maggior parte degli esseri umani cercano di
distrarsene, inseguendo delle occupazioni che distraggano, o
piacevoli, quando le loro condizioni glielo permettono. Alcune
persone, in certi periodi della loro vita, hanno la possibilità di
trovare dei momenti di agio, di distrazione, di piacere. Altri, in
tempi, regioni, epoche storiche diverse sono costantemente afflitti da
pene, da malattie, da guerre e da varie discordie.

In ogni caso, quando abbiamo la possibilità di procurarci del piacere,
intraprendiamo gli sforzi necessari per reggiungerlo; quando ci
aspettano delle difficoltà, agiamo nella direzione giusta per cercare
di uscirne.

All’interno della nostra quotidianità, all’interno dei momenti che
attraversiamo, noi stessi produciamo quel che ci succederà. In qualche
maniera, noi fabbichiamo il nostro avvenire. Questo, sfortunatamente,
è inevitabile.

L’importante, in ogni caso, è di preoccuparci di quanto succede qui,
oggi; o, comunque, in queste settimane. Ciò che è terminato è
terminato, anche se adesso ne dobbiamo subire le conseguenze, e quanto
deve succedere non esiste ancora, pur se oggi ne stiamo cotruendo le
cause.

Noi, così, attraversiamo, in una sola vita, dei veli, differenti
esistenze. Abbiamo vissuto dei momenti di piacere intenso, e degli
istanti di sofferenza abominevole – fisica e morale. In questa vita,
siamo passati dal paradiso all’inferno, o dall’inferno al paradiso. E’
questo, il ciclo. Il termine saṃsarā indica la nozione di ciclo. Il
ciclo si applica a tutti i fenomeni. Per esempio, quando un oggetto
cade a terra, vi è un rumore, prodotto dalla caduta. Questo rumore si
ascolta per un intero ciclo; appare, dura per un certo tempo,
sparisce: un ciclo è trascorso. Conosciamo dei cicli erstremamente
corti, come quello della palpebra che batte, stimati in un 400° di
secondo. Buddha dice che nel tempo impiegato dalla palpebra a battere,
appaiono e scompaiono milioni di attimi di coscienza, a succedersi; e
qui si tratta di cicli molto corti. Molto difficili da percepirsi e da
misurarsi. Esistono dei cicli più lunghi. Quando noi abbiamo
un’emicrania, appare un ciclo che può durare qualche minuto, o qualche
ora.

Queste sequenze si producono e si riproducono senza posa. Si vorrebbe
che non ci fossero più pensieri che ritornano. Si vorrebbero il
silenzio e la tranquillità, ma appare qualcosa che sopravviene a
disturbarli. Ecco il saṃsarā, la cui caratteristica principale è
dukkha. Letteralmente, dukkha vuol dire dolore; ed esso è dovuto non
solo al fatto che esistono dei fenomeni dolorosi – poichè ve ne sono
anche di piacevoli; ma essenzialmente perchè essi svaniscono. Molto
spesso, dei fenomeni piacevoli appaiono perchè ci siamo sforzati di
richiamarli a noi, per giustamente sfuggire la pena e la miseria del
quotidiano. Perciò, essi continuano a portare pena e dolore, alla
fine.

– Il piacere è dolore –

Quando abbiamo una ferita, noi le applichiamo una crema dal risultato
molto efficace, che sostituisce il dolore con una specie di sensazione
calda, dolce e piacevole. Immediatamente, allora, abbiamo
l’inpressione che si tratti di una buona cosa. Appena usato il
prodotto sulla nostra ferita, ne proviamo un effetto gradevole, che
restiamo ad assaporare. Dimentichiamo che quella sensazione è apparsa,
perchè, in origine, vi era una sofferenza. Paradossalmente, questa
sensazione gradevole è una copertura che abbiamo utilizzato per
nascondere il dolore. Ecco perchè diciamo che anch’essa è una
sofferenza, poichè esiste solo per cercare di mascherare la pena; è
ancora relazionata al dolore, e prodotta da esso.

Nelle nostre vite, quando cerchiamo di distrarci, di darci del
piacere, di ascoltare dei suoni gradevoli, di vedere delle immagini
piacevoli, di gustare dei sapori gustosi, si tratta, per lo più, di
mascherare una pena. In questo senso, quando proviamo un diletto, o un
benessere, si tratta ancora di dolore. La nozione di dolore, qui, è
una costrizione. Essa è intimamente legata all’ineluttabilità delle
cose: noi siamo obbligati a darci dei piaceri, o se no la vita sarebbe
un inferno. Siamo, quindi, costretti a trovare delle piccole
compensazioni.

Inoltre, per potere trovare queste compensazioni, siamo spesso
obbligati a produrre molti sforzi; ed il fatto di fornirli ci risulta
particolarmente increscioso. Inoltre, bisogna lavorare per guadagnare
del denaro, e lavorare è un fatto penoso, soprattutto quando lo si fa
in situazioni dure – cosa frequente, nelle nostre moderne società. Per
offrirsi un viaggio, una distrazione, un piacere, è necessario
lavorare, bisogna soffrire, bisogna indebitarsi. Sul momento, ci si
dimentica di tutti gli sforzi fatti per giungervi. Ecco perchè il
piacere è ancora legato alla pena.

Il piacere è comparabile un pò al fatto di deporre una borsa con
l’acqua ben calda su di un iceberg, perchè fa freddo. Questo, per
sentire un buon tepore. Il problema è che la borsa si raffredderà e,
presto o tardi, ci troveremo di nuovo faccia a faccia con il freddo
glaciale delle nostre vite quotidiane.

In tal modo, esistono nelle nostre vite dei cicli che si perpetuano; e
che noi si trascorra dei momenti di pena, o dei momenti di gioia
apparenti, siamo sempre presi in trappola. Ci troviamo in un ciclo che
pare si auto-produca. Vi sono degli esseri che, momentaneamente,
vivono in situazioni particolarmente abominevoli di sofferenza, di
tormenti intensi, psichici e fisici. Ne esistono, invece, altri che,
anch’essi momentaneamente, vivono in una felicità intensa, in una
sorta di esaltazione mentale, spirituale. Sono felici, stanno bene.
Tra i due estremi, appare la mediocrità del quotidiano; coloro che non
hanno l’imnpressione di soffrire, e neppure quella di essere felici.

Buddha ci insegna che tali persone popolano il mondo umano, ma che, al
di là di questo mondo, è possibile vivere delle sofferenze ancora più
atroci, a tale punto che nessuno le potrebbe subire, se lo dovesse
fare qui. Ci insegna che vi è la possibilità di vivere delle
esaltazioni mentali assolutamente sublimi, talmente intense che è
impossibile averle nel mondo umano, tramite il nostro corpo e la
nostra mente striminzita. Ci dice che esistono dei mondi, oltre quello
umano, ove degli esseri vivono delle sofferenze terribili e altri in
cui le persone provano condizioni totalmente paradisiache. Si tratta,
di fatto, delle tre grandi divisioni: i mondi inferiori, dove non
appare mai il piacere, mai il benessere; ed il calvario è perpetuo: vi
è il mondo umano, che sta un pò fra i due, e dove si possono
sperimentare crudeli sofferenze e intense gioie; delle pene, delle
sventure, della felicità e dei piaceri, che si succedono; infine, vi
sono i mondi divini, le sfere paradisiache, dove non si conosce
praticamente mai alcuna pena, nè il minimo stress.

Molto spesso, si divide semplicemente l’universo in due categorie – i
mondi inferiori e quelli superiori – ponendo quello umano tra i
superiori. Se è possibile sperimentarvi molti tipi di dolori, il mondo
umano è pure il primo livello, a partire dal quale si possono vivere
delle grandi gioie e dei grandi piaceri.
Descrizione dei cinque mondi
I mondi inferiori

Nei mondi inferiori, si contano essenzialmente tre categorie: i mondi
infernali, i mondi fantomatici, ed il mondo animale.

Nelle sfere infernali, gli esseri non provano mai la minima sensazione
piacevole e soffrono di abominevoli tormenti. La durata della vita è
estremamente corta. Vi si soffre talmente, che si muore subito.
Allora, si rinasce, e si muore di nuovo, un grande numero di volte,
per rimanere lì dei periodi di tempo che possono sembrare molto
lunghi. Le sofferenze sono fisicamente intense e, di conseguenza,
morali. Non si fa che soffrire, in basso. Si dice “in basso” perchè
sembra che questi piani si situino al di sotto di noi, al di sotto
della terra, al di sotto del mare, là dove ci sarebbe una palla di
fuoco.

Esistono degli esseri che vivono una condizione un pò meno atroce, ma
non molto invidiabile. Vegnono chiamati peta. Questo mondo costituisce
un serbatoio particolarmente propizio all’accoglienza degli umani dopo
la loro morte. Nel mondo dei peta non vi sono particolari dolori, e
intensi, ma la vita si svolge in modo assolutamente miserabile. Ancora
più di quella degli animali. I peta non riescono mai a nutrirsi a
sazietà e quando mangiano, ciò diviene molto penoso per loro, o anche
doloroso. Inoltre, hanno sempre fame e sempre troppo poco da mangiare.
Sono esseri molto sensibili agli odori, e per questo vengono attratti
accanto alle macellerie, alle discariche, accanto ad ogni fonte di
odori vivi. Molti dei nostri defunti, oggi sono dei peta.

Vi sono, poi, gli animali, che vivono in una condizione assai
miserabile; ma, almeno, si trovano sulla terra, e non sotto. Molti di
essi, stanno accanto all’uomo. La loro vita è penosa, ma non è certo
una sorgente di sofferenza fisica perpetua. Non sono da meno degli
esseri fondamentalmente inintelligenti, che vivono di costante
nell’aggressività. Hanno delle reazioni molto stereotipate; possono
provare delle eccitazioni, o delle gioie, che danno spazio subito ad
una collera nera. Sono degli individui particolarmente grossolani e
stupidi.

Esistono, dunque, essenzialmente, queste tre categorie di mondi
inferiori. all’interno delle quali vi è una grande quantità di specie
differenti. Le creature che costituiscono queste ultime possono essere
più o meno grandi, più o meno grosse, avere corpi svariati, che
permettono loro di spostarsi in modi diversi – certune volando, alcune
camminando, altre nuotando, altre ancora arrampicandosi.
Le azioni negative portano ai mondi inferiori

Questi mondi sono particolarmente indesiderabili e bisogna ad ogni
costo evitare di cadervi. Quando compiamo delle azioni negative
(furto, imbroglio, menzogna, ecc.), degli atti malsani, causa di pena,
di dolore, o di vergogna per il nostro ambiente, ci condanniamo a
subire le sofferenze e gli imbarazzi che abbiamo inflitto. I mondi
inferiori sono dei luoghi particolarmente propizi a tutto ciò. Quando
compiamo delle azioni malevoli, secondo il contesto, secondo
l’intenzione e la motivazione che ci hanno sospinto ad eseguirli,
allora dovremo subire dei periodi più o meno lunghi, conseguenti a
ciò. Periodi che possono essere molto lunghi, a volte diversi milioni,
o miliardi di anni, per un crimine, o per un atto di violenza.

Quando viviamo nei mondi inferiori, non abbiamo l’opportunità di
compiere delle azioni buone e positive. Ecco perché Buddha disse: “Gli
esseri che vivono nei mondi inferiori hanno pochissime possibilità di
rinascere in quelli superiori e restano a lungo nei primi”.
Il mondo umano

Il mondo umano, il più sconcertante, il più misterioso, a volte, è
quello ove noi, oggi, ci troviamo. E’ un mondo in cui possiamo
condividere pene e gioie, disgrazie e felicità. Beneficiamo di un
forte grado di libertà, riguardo alla possibilità di fare del male, o
del bene; o di subire questo male e questo bene. E’ un piano un pò
intermedio, un mondo di mezzo. Per questo si tratta, d’altronde, anche
di un mondo di una spaventosa mediocrità. La maggior parte degli
umani, come possiamo constatare, si lascia andare regolarmente a degli
atti di malevolenza, di ipocrisia, di furbizia, di disonestà. Si
garantisce, in tal modo, la sicurezza di cadere ben in basso, dopo la
sua morte. Se tornasse sempre a rinascere nel mondo umano,
conoscerebbe ogni volta delle condizionio miserabili.

Nell’umanità, vi è gente che nasce nella miseria, nella povertà
assoluta, che è malata, fragile, che vive mille turpitudini. Ce n’è
dell’altra che nasce in famiglie molto più agiate, dove ha una vita
più prospera, e dove vive più a lungo, o dove gode di migliore salute.
Ciò è dovuto al fatto che, riguardo alle sue vite passate, nel primo
caso, sono state compiute delle azioni negative, malsane, maldestre, e
nell’altro, delle azioni positive, e saggie.

– La vera generosità –

La vera pratica della carità, del dono, della generosità, non è quella
che consiste a dare delle buste ai monaci. E’ quella che dona a chi ha
bisogno, nutre chi ha fame, porge una medicina a chi è malato. E’
quella che consiste nel dare, senza preoccuparsi di sapere se chi
riceve è un monaco, o un laico, un uomo o una donna, un adulto o un
bambino; se appartiene ad una comunità religiosa, o ad un’altra; o se
abbia un’origine etnica, oppure una diversa. Si tratta del dono
gratuito, disinteressato e necessario. Vi sono delle persone che
consacrano il loro tempo a questa pratica. Posseggono la generosità
del cuore, dello spirito; istruiscono gli altri, distribuiscono il
loro sapere, la loro scienza. Tali persone avranno la possibilità di
rinascere, dopo la loro morte, nel mondo umano, in una situazione di
benessere, fortunata, o di rinascere nei mondi divini. Vi sono due
categorie di mondi divini.

– Il mondo dei deva –

Il mondo dei deva (la parola deva darà, più tardi, in latino, il
termine “deus”, che, a sua volta, forgerà il termine italiano “dio”).
Questo mondo è una sorta di paradiso, con dei giardini assolutamente
sontuosi, e dei palazzi giganteschi. Gli esseri che vi dimorano vivono
estremamente a lungo, delle decine di migliaia di anni; o anche
milioni di anni. Il loro corpo non cambia. La loro apparenza è di
adulti, molto giovani e belli, e vivono a lungo, senza una ruga. La
vecchiaia appare solo nei loro ultimi giorni. Questi esseri posseggono
una naturale fragranza, che li cosparge di profumo. Non hanno organi
digestivi, nè sessuali, perché, al loro livello, la gioia che provano
quotidianamente è sufficiente e li dispensa di dovere dedicarsi ad
atti carnali. Tuttavia, si dice che ne esistono di maschili e di
femminili. In ogni caso, non vi sono accoppiamenti nel mondo dei deva.
Vi si nasce per apparizione spontanea; senza passare da un utero, nè
da un uovo.

Vivere laggiù significa assaporare, consumare. E’ il risultato di
avere compiuto, essenzialmente nel mondo umano – al di fuori del quale
non vi è alcuna opportunità di farlo – un grande numero di azioni sane
e positive, basate sulla generosità, la spartizione, il disinteresse.
Gli esseri che vivono là non fanno il necessario per rimanervi.
Assaporano, consumano, degustano e, per questo, non provano la spinta
a compiere delle azioni positive e generose, tanto più che ciò non
sarebbe di nessun aiuto nella sfera in cui si trovano, poiché, lì,
tutti sono già felici.

Così, ecco come trascorre il ciclo; ecco come viviamo. Lo facciamo
essenzialmente tra cinque mondi: gli inferi, i peta, gli animali, gli
umani e i deva. Come un’onda, noi passiamo dall’uno dall’altro;
montiamo, ridiscendiamo;poi, quando siamo arrivati in basso,
rimontiamo, poichè, da lì, non si può che risalire; e quando siamo in
alto, non si può che ridiscendere. Non ci stabilizziamo mai. Il mondo
è sempre instabile ed in movimento. Similmente, le nostre vite si
trovano sempre in moto e sono instabili.

– L’esperienza della divinità: un percorso affascinante –

Tuttavia, esiste la possibilità – in particolare per gli uomini – di
fare un salto, di mettersi in orbita attorno al mondo. Questo percorso
è del tutto particolare. E’ affascinante ed attira, da sempre,
l’umanità. E’ l’esperienza della divinità, che chiamiamo brahmā, e che
si trova al di fuori di questi cinque mondi. Si tratta di una messa in
orbita attorno a questi cinque mondi, in assenza di peso. E’ uno stato
di coscienza del tutto assorbito, nella propria pienezza, nella
propria serenità. La coscienza resta così in estasi per delle durate
di tempo incommensurabili. Si potrebbe quasi parlare di una eternità;
delle migliaia di miliardi di anni, o dei milioni di miliardi di anni.
Ciò dura così a lungo, che noi ne ricaviamo l’impressione che non
ridiscenderemo mai più e che non siamo mai apparsi quaggiù.

La divinità è un oggetto del tutto particolare, perchè la coscienza vi
si fissa; e il fatto dà l’illusione della sua eternità. Ciò spiega
anche quanto nessuna pena possa, in questo stato, venire sperimentata,
perchè non appare nessun cambiamento. In ogni caso, non vì è posto per
la pena. Chi vive assorbito nella divinità vi resta completamente
assimilato. Gli esseri umano sono affascinati dalla prospettiva di
raggiungere un tale livello di esperienza. Poichè sono poco
intelligenti, immaginano, fabbricano numerose storie e leggende, che
concernono le divinità. Dato che hanno una tendenza all’orgoglio, essi
immaginano che queste divinità si interessino a loro. E credono che,
di tanto in tanto, si manifestino nel mondo umano, per chiamarli, per
dare loro una speranza. Immaginano che la divinità di mostri nel
mondo, per indicare loro che lei si trova lì e sta dando loro la
possibilità di raggiungerla.

E’ come un prigioniero di un goulag siberiano, che immagina di vedere
sbarcare, un bel giorno, un paracadutista americano, che sta giungendo
a liberarlo. Certi hanno dovuto credere a questo; hanno atteso a
lungo. Il fatto è che, se vi sono delle divinità, è molto poco
probabile che esistano delle possibilità che esse si interessino ad
altro, se non che a loro stesse; ed a fortiori, a noi in particolare.
Non siamo dei deva. Siamo solo degli esseri umani; dei mammiferi
appena evoluti, che hanno bisogno di nutrirsi, che hanno necessità di
copulare per sopportare la vita.
La nascita delle religioni

Immaginare che queste divinità (brahmā) possano prestarci attenzione,
o augurarsi la liberazione della nostra condizione umana è del tutto
assurdo. Esse se ne disinteressano affatto.

E’ sulla base di queste credenze che sono nate le religioni. Molti
credono che una divinità è eterna, che è una cosa al di là del mondo,
che è il luogo del riposo eterno delle anime e degli spiriti, che vi
dimorano, assorbiti in modo indissolubile.

Tutte le religioni, il buddismo mahayana, la maggioranza delle scuole
dell’induismo, dell’islam, del giudaismo, del cristianesimo, con una
moltitudine di varianti, e certamente nelle apparenti diversità
culturali e delle tradizioni umane, credono in questo.

In una maniera, o nell’altra, utilizzando un linguaggio o un altro,
una forma o un’altra, un discorso o un altro tutte le religioni
tendono a questo. E’il mito assoluto, il sogno totale. Il problema, è
che noi abbiamo la possibilità, qui in basso, nel mondo umano, di
farne l’esperienza. D’altronde, se ciò non fosse stato possibile, come
avremmo potuto supporre l’esistenza di una tale possibilità? Come
avremmo potuto immaginare una coscienza divina? Sarebbe stata pura
fantasia; ma, una fantasia persistente attraverso i secoli e le
civiltà!

Il problema è che noi, umani, abbiamo la possibilità di fare
l’esperienza della coscienza divina. E’ un problema perchè ciò ci dà
piacerer e trattiene l’umanità intera nei limiti di un sogno. E’ un
problema, perchè l’umanità è naturalmente ignorante, ed “ignorante”
significa semplicemente che possiede la disposizione naturale ad
inventare ed a credere.

L’ignoranza che caratterizza il mondo umano non è quella di non
sapere, ma, al contrario, di inventarsi i saperi. Allora, nascono le
religioni. Ecco la verità semplice ed anche triste, di tutto ciò.
Una messa in orbita provvisoria

Per Buddha, l’esperienza della divinità, che aveva fatto durante la
sua giovinezza, durante i suoi periodi di ascesa spirituale, e che
numerosi suoi contemporanei avevano anch’essi provata non è che un
fenomeno naturale, tra gli altri. Per lui, non è quella, ancora, la
soluzione; non è ancora la fine di ogni problema. Si tratta di passare
da uno stato ad un altro; dall’umano al divino, certamente; ma si
tratta solo di cambiare funzione; non è che una messa in orbita.
Secondo lui, gli esseri che vivono assorbiti, malgrado esistano per
dei tempi talmente lunghi, dei quali non si vede nè l’inizio e nè la
fine, saranno spinti, un giorno o l’altro, a riprendere nascita nel
mondo umano. In seguito potranno rivivere- e perchè no? – nel mondo
animale, in quello dei peta, ecc. Secondo Buddha, ciò che comincia,
finisce. Se si lancia una pietra verso il cielo, questa dovrà
necessariamente ricadere. Per lui, l’accesso al mondo della divinità è
una messa in orbita; lunga, ma provvisoria.

Tuttavia, gli uomini ne sognano molto. Quelli che la sognano di più
sono coloro che ne hanno fatta meno l’esperienza. E’ sempre così.
Avendo vissuto questa consapevolezza Buddha affronta la questione con
pragmatismo e ragione. Ci dice che si tratta di una cosa sublime e che
la coscienza risulta perfettamente vuota di impurità; che non
concepisce più. Però, ci aggiunge che è solo una coscienza che rimane
assorbita nella pienezza, sottomessa, come qualunque altro problema,
alle caratteristiche della non permanenza, dell’insoddisfazione e del
non controllo.

Secondo lui, quel che è utile fare, nel mondo umano, dove ci resta
probabilmente qualche anno da vivere, è di intraprendere la strada che
ci condurrà a guarirci dai mali che ci affliggono.

Sperare che dopo la morte andremo a vivere l’esaltazione divina per
l’eternità è, secondo lui, nè più nè meno che un’utopia. E’ possibile
che la proveremo per un certo periodo, ma la probabilità che questo
avvenga è infima. In più, la differenza dei cinque altri mondi non può
apparire nelle sfere divine con il solo esercizio dei nostri atti. Il
fatto non dipende dall’abituale produzione delle azioni, delle parole
e delle intenzioni. Si tratta veramente di un mondo a parte. E’,
beninteso, quello che gli esseri umani considerano come la panacea.
Come accedere al mondo di brahmā?

Il solo modo di accedere a questo mondo di brahmā è di intraprendere
degli esercizi spirituali, qui, nel mondo umano, e di consacrarvi
tutta la nostra vita. Per questo, dobbiamo andare in un ritiro ed
esercitarci a delle pratiche di meditazione intensiva, per giungere,
nella nostra vita stessa, ad avere l’esperienza della coscienza
divina. E’ solo quando saremo giunti a fare ed a stabilizzare questa
esperienza, a viverla nel quotidiano, che avremo la possibilità, nel
momento della morte, perdendo il nostro corpo, di entrare
nell’assorbimento. Nè Buddha, né Gesù, né alcun mistico che abbia
provato veramente l’esperienza della divinità ci ha mai insegnato
l’esercizio di un rito religioso. Non si sono mai espressi circa un
rito religioso, o in una pratica mistica. Mai, hanno incoraggiato ad
indossare il costume di un colore o di un altro. Mai hanno fatto
riferimento a dei simboli. Mai hanno incoraggiato l’esercizio
dell’arte.

Secondo le tradizioni dalle quali questi personaggi provenivano, essi
hanno interpretato le loro esperienze, ma sono stati unanimi nel dire
che solo sulla base di un distacco e di una rinuncia completa ai
piaceri dei sensi essa era possibile. Tutti parlano di un abbandono
delle attività mondane, della famiglia, del commercio e della
religione.

Oggi, esistono delle persone che pretendono di seguire l’insegnamento
di Buddha. Per ben esporlo cominceranno a vestire un’uniforme
particolare, una tenuta, con un piccolo simbolo, o un piccolo logo,
cucito qui, o là. Cose che Buddha rifiutava.

– I mistici –

I mistici (dire “i mistici del passato” è pressochè un pleonasma,
poichè nel presente essi probabilmente non esistono) sono delle
persone che hanno verosimilmente fatto l’esperienza della coscienza
divina. Per il tenore degli scritti che ci restano, il tenore delle
frasi che questi mistici hanno impiegato, possiamo dedurre che essi
avevano raggiunto quel che Buddha chiamava brahmā vihāra (la dimora
divina). Durante la loro vita, coinvolti di compassione e di tenerezza
per il mondo ben miserevole in cui vivevano, infuocati dal fascino di
quanto avevano appena toccato, costoro ebbero un istinto naturale;
quello di volere trasmettere al loro prossimo una tecnica affinchè
giungesse alla propria esperienza. Si tratta di un’attitudine sana e
sincera, che affonda le radici in un sentimento altruista reale.

Buddha non è sfuggito alla regola. Anche lui ha insegnato degli
esercizi di meditazione che permettessero agli uomini di fare
l’esperienza della divinità. E’ molto chiaro il fatto che non si può
raggiungere i brahmā (le sfere divine) attraverso la carità, o la
virtù, poichè noi non appariamo in questo mondo in conseguenza delle
nostre azioni o delle parole. Ci veniamo proiettati, o “aspirati”,
come diceva Santa Teresa d’Avila, in conseguienza della nostra
devozione (saddhā); cioè, dell’aspirazione. Questo vuol dire che lo
spirito è talmente aperto da aspirare alla divinità. Ci giungiamo, in
seguito ad esercizi spirituali intensi, di assorbimento sulla
compassione, sulla dimensione, sull’attenzione, sull’equanimità, o sul
concetto che scegliamo.

In certe tradizioni, noi sceglieremo una rappresentazione, oppure una
forma qualunque. Giungiamo all’esperienza della divinità, attraverso
il risultato di una tecnica, di una pratica. Ci giungiamo attraverso
il risultato della qualità dei nostri atti, che abbiamo prodotto nella
vita; situazione che crea un mondo del tutto particolare. Ciò non fa,
tuttavia, di questo mondo una liberazione completa e definitiva delle
costrizioni esistenziali. E’ qui che il theravāda, che è
l’insegnamento originale di Buddha, differisce singolarmente da quello
degli altri; in particolar modo da quello dei veri mistici; per i
quali l’esperienza della divinità era il fiorire di ogni obiettivo.

Per Buddha, la coscienza divina è ancora un fenomeno naturale che fa
parte della vita. Si tratta, forse, di una vita straordinaria, ma
legata al mondo. Intanto, perchè noi veniamo dalla terra;quindi, è il
risultato della terra, e poi perchè non ci abitiamo in eterno, perchè
finiremo per ridiscenderne.

– La divinità non è l’importante –

Per Buddha, la cosa più importante non è di arrivare al mondo delle
divinità – anche se si tratta di una cosa eccellente – ma di trovare
la via che ci conduce alla cessazione del mondo; o, più esattamente,
alla cessazione dell’esperienza del mondo. Il suo concetto non è
quello di annichilirlo – fatto inconcepibile – ma di eliminare la
possibilità di continuare a sperimentarlo. Per lui, la liberazione
finale, è di non dovere più continuare a sperimentare il mondo. E’ di
arrivare all’esperienza della fine di questo ciclo, della fine dei
cicli delle morti e delle rinascite, attraverso cinque classi
universali di esseri, che premono e giocano. E’ di arrivare anche alla
fine del ciclo di questi esseri, che non sono affatto come gli altri;
alla fine di queste coscienze divine, assorbite in una felicità
intensa.

Non più sperimentare alcuna delle sei classi è un fatto che deve
essere possibile, secondo Buddha. La questione è di sapere, al nostro
livello – noi, che viviamo qui, in basso, oggi – come ci possiamo
persuadere; oppure, in ogni caso, farci ammettere che è possibile
arrivare alla fine della miseria, senza tuttavia andare verso un luogo
vuoto di miseria. Come possiamo immaginare che la fine della pena sia
non andare più da nessuna parte, senza, peraltro, dimorare in qualche
parte? Un giorno, il monaco Gotama ha spiegato che è per il fatto che
la sofferenza esiste in questo mondo, che, di conseguenza, esiste
anche la possibilità di porvi fine. Per lui, si tratta ancora di una
legge naturale.

Prendiamo l’esempio della luce. Se, un giorno, ci trovassimo in un
luogo con della luce particolarmente sgradevole, avremmo la
possibilità di cambiarla. Potremmo trovare una luce gradevole. Ne
esiste tutta una varietà: la luce della candela, della lampadina, del
neon, del tubo catodico, la luce al sodio, al mercurio, la luce rossa,
blu, verde, la luce fissa, lampeggiante, ondulante, che si muove, ecc.
Possiamo immaginare ogni sorta di luce; possiamo immaginare anche
oltre la luce. Tuttavia, una cosa è certa; che se vi è della luce, a
filo di logica, deve esistere anche la possibilità della cessazione
della luce, qualunque ne sia la forma. Questa cessazione della luce,
che noi chiamiamo abitualmente oscurità, è la sua assenza. Di fatto,
l’oscurità non è una cosa che esiste: è una parola che noi impieghiamo
per indicare l’assenza della luce.

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