Esperienze con Paramahansa Yogananda

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Esperienze con Paramahansa Yogananda

di Roy Eugene Davis

dal libro “God has given us every good thing”

Traduzione di Furio kriyayoga.it

….Notai, quando ero con il Maestro, che egli condivideva le cose con i
discepoli in base alle loro capacità di ricevere. Con me, parlava sempre di
Dio e dei maestri, del vero scopo della vita, e dell’importanza della
fermezza e della dedizione al percorso. Egli dava nuova vita alle mie
capacità dell’anima, mi arricchiva la mente e rinforzava la mia fede. Mi
diceva che ero destinato a stare con lui, e che il mio futuro sarebbe stato
splendido.

Alcuni giorni dopo il mio primo Natale con lui, nel 1949, ero nella
hall inferiore dell’edificio quando il Maestro arrivò. Aveva organizzato l’
acquisto di un tavolo da ping pong per i monaci, come regalo di natale per
loro. All’inizio, il tavolo era stato messo davanti al portico, appena sotto
la finestra della stanza del Maestro, ma il rumore causato dai vari
giocatori divertiti aveva fatto sì che il tavolo fosse spostato nella hall
inferiore. Quella notte, vide il tavolo e mi fece segno di prendere una
racchetta e di giocare con lui. Ci scambiammo la pallina alcune volte, fino
a che segnò un punto con una schiacciata. Mettendo la racchetta giù, si girò
verso le monache vicino a lui (Daya Mata, sua sorella e un paio di altre
persone), e chiese: “Chi era il campione di ping pong qui?” Esse sorrisero
ricordando. Camminando verso l’ascensore, il Maestro e gli altri entrarono.
Prima che la porta si chiudesse, egli guardò dritto nei miei occhi e disse:
“Hai un futuro splendido, Roy”. Attirò il mio sguardo per un breve momento,
poi disse: “Buona notte, Roy”.

Ricordo un’altra occasione quando il Maestro stava ritornando da una
passeggiata ed entrò nella mensa degli uomini. Alcuni di noi si sedettero al
tavolo con lui, contenti del fatto che lui condividesse il suo tempo con
noi. Ci chiese se avevamo del cibo immediatamente disponibile. Qualcuno
trovò una scatola di pane dei toast, dei fiocchi di cereali e del latte. Si
trovò una tazza, e il Maestro fu contento di questo spuntino, che consumò
mentre parlava con noi.

Ad un certo punto, vide una bottiglia di salsa piccante. “Datemela”,
disse. Questa gli fu data, egli rimosse il tappo, ne versò una quantità
generosa in un cucchiaio e l’ingoiò con apparente entusiasmo. Dopo averlo
fatto, ne mise una quantità piccola nello stesso cucchiaio e ci disse di
metterci in fila, poiché avremmo avuto un’esperienza. Così facemmo, e il
Maestro mise un po’ di quella salsa nelle nostre bocche. Stavamo tutti
ridendo, gridando e piangendo! Il Maestro rideva di gusto, e i suoi occhi
erano pieni di lacrime amorevoli di comprensione. Egli rideva, e rideva
ancora, e ci amava molto. Noi contraccambiavamo quell’amore, anche per i
preziosi momenti d’intimità e d’allegria che il Maestro ci offriva.

Il Maestro ci raccontò a quel punto di un episodio accaduto anni
prima nella sua vita, quando aveva visitato il Messico. Durante il pranzo
era stata indetta una specie di gara, per vedere chi, tra i partecipanti al
banchetto, sarebbe stato in grado di sopportare il cibo molto piccante. Il
Maestro ci disse che gli avevano servito cibo molto piccante, e aveva sempre
passato il test perché si era preparato tempo prima. A quel punto, gli altri
contendenti prepararono una trappola. Smisero di parlare della gara per
parecchio tempo, quindi, un bel giorno gli servirono un piatto pieno di
peperoncino. Rise al ricordo e disse: “Mi hanno turlupinato! Pensavo che la mia
testa stesse per esplodere!”

Paramahansaji era un lavoratore instancabile. Pressava per finire le
cose, pressava il suo corpo. Le persone intorno a lui erano guidate a
seguire il suo ritmo. A volte non dormiva e non mangiava, se c’era un lavoro
da finire. Eccelleva nel raggiungere gli scopi! Il suo motto non pronunciato
era: “Perché aspettare? Facciamolo! Dio si prenderà cura d’ogni cosa”. Egli
lavorava, quelli vicino a lui lavoravano. Dio si prendeva cura di tutto.

Egli era consapevole del destino del lavoro della sua vita. Sapeva
perché era nato nel mondo, sapeva qual’era il suo dovere, sapeva anche
quali, tra i suoi discepoli, avrebbero raggiunto i loro scopi. Continuò ad
andare avanti. Non lo vidi mai indietreggiare, e non lo vidi mai ritornare
su una decisione presa che lui sapeva essere giusta.

Quando il Maestro stava preparando il suo commento alla Bhagavad
Gita, egli dettò l’affermazione che il Mahavatar Babaji era Krishna, e
rimaneva nello stesso corpo a causa dell’esperienza del “Kaya kalpa”, una
procedura rigenerante conosciuta agli yogi. Qualcuno nella stanza esclamò:
“Oh, signore, non possiamo dire questo!” Il Maestro si alzò dalla sedia,
girò intorno alla stanza come un leone e chiese: “Perché non possiamo dirlo?
E’ vero! Babaji è Krishna! Io affermo solo la verità!”

Dopo che la latteria era stata venduta, fui trasferito al centro di
Phoenix. Organizzai i miei doveri per far sì di avere molto tempo per lo
studio e la meditazione. Di solito innaffiavo e curavo i giardini, pulivo e
facevo riparazioni negli edifici, battevo a macchina lettere commerciali, e
preparavo la cappella per il servizio della domenica. Herbert era il
ministro, e lo assistevo di tanto in tanto. Alla fine, mi fu chiesto di
condurre le discussioni della domenica sera basate sulle lezioni del
Maestro, e di insegnare occasionalmente delle posture di hatha yoga.

Stabilii la mia personale routine di meditazione, che per me
funzionava bene. Mi svegliavo alle tre del mattino, mi lavavo e andavo nella
cappella. Dopo aver acceso le candele votive sull’altare, onoravo Cristo, la
Madre Divina e la mia linea dei guru. Dopo una lunga sessione di canti
devozionali, meditavo. Dopo circa un’ora di meditazione, quando ne sentivo
il bisogno, cantavo ancora e pregavo fino a che la meditazione non iniziava
spontaneamente. Questo processo continuava fino circa alle sette del
mattino.

Dopo una leggera colazione, iniziavo il mio giorno di lavoro e
continuavo fino alle cinque del pomeriggio, con una pausa a mezzogiorno per
un’ora di meditazione seguita da un pranzo a base di frutta o di insalata.
La mia meditazione della sera iniziava alle 17:30 circa e proseguiva fino
alle nove o alle dieci di sera.

C’erano molte volte nelle quali non riuscivo a meditare facilmente.
Quando capitava pregavo di più, cantavo più a lungo, e a volte rimanevo
semplicemente seduto con gli occhi aperti, guardando l’altare e lasciando
che i pensieri fluissero, osservandoli. Rimanevo lo stesso seduto per il
periodo stabilito, indipendentemente dal fatto che la meditazione desse i
suoi frutti o meno. Questo era il mio impegno verso Dio e verso i guru.

Passai almeno due anni con questa routine, con rare eccezioni quando
dovevo svolgere dei compiti inaspettati o quando dovevo andare a trovare il
Maestro in California.

Non ho mai sofferto di allucinazioni e non ho mai avuto esperienze
di “essere in un altro mondo”. Ero calmo, centrato nell’anima, e riflessivo.
Vivendo da monaco, non avevo vita sociale. Non andavo al teatro, non leggevo
periodici, e non sentivo la radio. Leggevo l’edizione del fine settimana di
un quotidiano.

In quel periodo, lessi molte volte l’autobiografia di uno yogi, la
Bhagavad Gita, passi della Sacra Bibbia e biografie di parecchi santi
cristiani, tra i quali San Francesco, Sant’Antonio, Santa Teresa e Padre
Lorenzo.

Quanto sto per raccontare, successe durante una visita al Maestro
nel ritiro del deserto. Ero impaziente, perché sentivo che il mio progresso
era lento. Il Maestro sapeva che avevo letto, dopo il suo suggerimento, come
Sant’Antonio avesse impiegato anni di contemplazione in solitudine per
raggiungere l’illuminazione. “Roy, pensa a quanto paziente è stato lui!”
Ricevetti il messaggio, ma a quel tempo le tribolazioni di Sant’Antonio
erano l’ultima cosa a cui volevo pensare. In ogni modo, indipendentemente da
quanto fossi impaziente o incerto circa il mio futuro, anche pochi minuti
insieme a Paramahansaji erano sufficienti per rendermi coraggioso e sicuro.

Solo una volta non rispettai il consiglio del Maestro, ed egli
subito mi corresse. Il fatto successe circa sei mesi dopo che mi aveva
accettato come discepolo. Egli mi aveva istruito di leggere, per il primo
anno, solo i suoi libri e pochi altri che mi aveva raccomandato. La ragione
per questo era duplice: come prima cosa, quello che mi aveva detto di
leggere richiedeva ben più di un anno di letture e riletture per essere
pienamente apprezzato e compreso. Egli solitamente diceva: “Leggi un po’,
medita di più, pensa a Dio tutto il tempo. In secondo luogo, Paramahansaji
non voleva che i nuovi discepoli leggessero troppe cose, per non diventare
confusi.

C’era anche uno scopo più profondo. Un discepolo non deve mai
questionare la saggezza delle istruzioni del suo guru, perché quest’ultimo
sa meglio del discepolo quello che è bene per lui. Più importante di
leggere, più importante d’ogni altra cosa, è, per il discepolo, di rimanere
in sintonia con la coscienza del guru e con le sue volontà. Più di una volta
sentii il Maestro dire, a me ad altri: “Se me lo permetterai, ti rivelerò
Dio”. Tenete in mente che non stiamo parlando di un qualsiasi rapporto tra
insegnante e studente, ma esaminando la possibilità che ad un’anima appena
risvegliata fosse mostrata la via per la liberazione della coscienza.

Fo solo anni dopo, dopo che avevo già insegnato per parecchio tempo,
che compresi pienamente la responsabilità incredibile di un guru che lavora
con i suoi discepoli, di quanto pochi sono i discepoli che vanno da un guru
per quanto egli ha da offrire, se essi sono solamente pronti ad accettarlo.

Un giorno, nel periodo in cui ero ancora alla latteria, stavo
consegnando il latte ai clienti residenti nella vicina Scottsdale. Notai una
libreria nel cuore della città, e già sapevo di essere in errore a causa
delle parole del Maestro. Sapevo, guardando i titoli nella sezione riservata
ai libri sullo yoga, che stavo facendo qualcosa di sbagliato. Un libro
intitolato “Il vangelo di Ramakrishna” attirò la mia attenzione. Quell’
enorme volume era stato compilato da Mahendranath Gupta, un discepolo del
grande Maestro.

Non appena presi il libro dallo scaffale per esaminarlo, la mia
mente razionalizzò: “Oh, va tutto bene, anche il Maestro conosceva l’autore.
Quando era un ragazzo lo andava a trovare, e ricevette persino un’esperienza
spirituale attraverso il suo tocco”. In questo modo giustificai
interiormente il mio avido desiderio, e il successivo acquisto del “Vangelo
di Ramakrishna”.

Ero Così sicuro che la mia guida interiore fosse corretta che trovai
conveniente nascondere il fatto del mio acquisto a Herbert e agli altri
monaci! Leggevo il libro durante le pause, andando nella mia stanza privata
per lo scopo. Le storie raccontate nel libro erano veramente affascinanti!
Numerosi racconti di visioni, esperienze di kundalini, di samadhi e altro.
Notai però che mentre il tempo passava, pensavo più a Ramakrishna e alle sue
esperienze spirituali che non alla mia linea dei guru. Anche le mie
meditazioni ne soffrivano, perché leggere il libro occupava la maggior parte
del mio tempo libero.

Dopo poco, arrivò il tempo del mio regolare viaggio in California
per visitare il Maestro che, questa volta, era a Mt. Washington. Stavo
aspettando insieme ad altri monaci nella hall inferiore. Di solito, quando
non mi aveva visto per alcune settimane, mi salutava, mi abbracciava
gentilmente e mi diceva quanto era contento che io fossi andato lì da lui.
In quell’occasione, si comportò in maniera diversa.

Notai che il Maestro mi vide non appena entrò nell’area dove
eravamo. Sapeva che dovevo essere lì, e mi guardò con la coda dell’occhio,
ma non mi guardò direttamente e non fece nessun cenno. Nessun altro nella
stanza sapeva cosa stava accadendo tra noi, ma io sapevo perfettamente
perché mi stava evitando.

Camminò lentamente per il corridoio, parlando con i monaci. Passò
vicinissimo a me alla mia destra, continuando a non considerarmi. Eravamo
quasi spalla a spalla. Fermandosi in quel punto, si girò verso un monaco e
disse: “Roy è una prostituta spirituale!” Quindi, ci fu silenzio. Gli altri
ovviamente non avevano idea di quello che lui intendesse, ed egli non lo
spiegò. Egli stava parlando ad un altro, ma per il mio bene, sapendo che io
ero perfettamente consapevole di quello cui lui si stava riferendo. Avrebbe
potuto dire con più accuratezza che ero un adultero spirituale, poiché
leggendo del materiale che mi era stato proibito avevo parzialmente diluito
e mischiato la sua influenza spirituale nella mia coscienza.

A quel punto il Maestro si girò verso di me e, guardandomi fisso
negli occhi, disse: “Ti ho chiesto di leggere solo i miei libri e pochi
altri, per uno scopo. Quando sarai stabile nella realizzazione interiore
potrai leggere qualsiasi cosa senza perdere la tua sintonia con me o essere
confuso, ma fino ad allora dovresti fare come dico”.

Non dissi nulla, giunsi le mani e m’inginocchiai a toccare i suoi
piedi. Quando mi alzai, lui sorrise e mi toccò all’occhio spirituale.
Mormorò quindi: “Va bene, va bene”. Il suo tono era pieno d’affetto e di
perdono, e l’incidente era chiuso.

Il Maestro non dovette mai farmi delle prediche. Doveva solo dire
alcune parole, quando necessario, e io comprendevo le sue intenzioni e
quello che si aspettava da me. Lo sapeva anche lui. Una volta disse ad un
gruppo di discepoli: “Sono contento quando fate come dico. Lo sono ancor di
più quando non lo devo fare e, solo attraverso uno sguardo, il messaggio è
recepito”.

Durante quella fase di intensa meditazione, imparai molto su me
stesso e sulla validità degli insegnamenti dello yoga. Avevo sempre letto i
quattro vangeli del Nuovo Testamento con rispetto, Ma fu solamente dopo aver
sperimentato la meditazione e sentito il Maestro discutere gli insegnamenti
di Gesù, che le scritture cristiane divennero vive per me. Iniziai a vedere
chiaramente che una verità essenziale supporta le grandi tradizioni
religiose, e che la luce si diffonde attraverso tutti gli avatar e i profeti
di Dio.

C’è una gran differenza tra l’avere conoscenza di qualcosa e lo
sperimentare realmente la realtà di quello che è contemplato. Per esempio,
una cosa è riconoscere intellettualmente che l’anima è un’unità
individualizzata della coscienza onnipresente che non ha bisogno di
identificarsi con la mente o con il corpo per avere una propria realtà, un’
altra è comprendere questa verità nella propria esperienza.

Una volta, nel 1951, mentre meditavo una domenica pomeriggio,
sperimentai me stesso come un’unità di pura consapevolezza. Avevo meditato
con calma per circa un’ora, quando, da qualche parte vicino, una porta fu
sbattuta. Ero indignato che qualcuno nell’edificio fosse così poco
sensibile, perché la regola imponeva che il silenzio fosse rispettato in
tutto l’edificio.

Dopo pochi istanti diressi nuovamente la mia attenzione all’occhio
spirituale; istantaneamente, non ero più una persona con un corpo che
cercava di meditare. Ero un punto di consapevolezza cosciente, con visione
sferica, galleggiante nel vasto mare dello spazio blu. Mi sembrava che
piccole luci scintillanti brillassero distante. L’oceano della luce blu
della coscienza era fermo, eppure vibrante di vitalità potenziale. Non c’era
nessun senso di paura o di estraneità, solamente la sicurezza di essere
consapevole della situazione.

Dopo un po’ ritornai all’identificazione con il corpo. La
consapevolezza interiore dell’esperienza è viva ancora oggi. Da allora ho
ancora sperimentato percezioni simili, durante la meditazione, e quando mi
svegliavo dal sonno nel bel mezzo della notte.

C’erano delle occasioni, durante quella fase della sadhana, nelle
quali vedevo interiormente santi e personaggi di luce che non riconoscevo.
La loro influenza era sempre benevolente, come se un raggio di grazia mi
arrivasse direttamente da loro. Sperimentai altresì un grado di coscienza
cosmica, durante il quale potevo compiere i miei doveri di routine mentre,
allo stesso tempo, ero interiormente consapevole di riempire l’universo.

C’erano anche occasioni di energia spontanea che fluiva dai chakra,
e lunghi periodi di tempo nei quali sentivo che il sistema nervoso era
sintonizzato, il cervello ordinato, e la mente chiarita. Scoprii che i miei
poteri intuitivi erano più pronunciati, che ero in grado di percepire i
pensieri e le intenzioni degli altri, e che potevo comprendere i significati
interiori delle scritture. (..)

Durante un’estate, sperimentai un potente desiderio sessuale, forte
a tal punto che quando meditavo vedevo automaticamente delle belle donne e
tutte le possibilità di fare del sesso con loro. Anche se sapevo che questo
era normale, mi sentivo in colpa perché ero un monaco e perché avevo fatto
voto di castità. Non c’è niente di sbagliato o anormale nel bisogno
sessuale, e non è necessario essere in castità per ottenere il successo
nella vita spirituale, ma un monaco non dovrebbe permettere che gli istinti
sessuali e le relative fantasie possano disturbare il raggiungimento dei
suoi scopi.

Quando, dopo un po’ di tempo, visitai Paramahansaji, egli invitò me
ed Herbert vicino al suo appartamento, nella parte superiore dell’edificio.
Sedette su una sedia e parlò con noi di alcune faccende concernenti il
centro di Phoenix. Quando i problemi della chiesa furono discussi, egli
disse a Herbert: “Vai pure, voglio parlare con Roy da solo”.

Quando fu certo che non c’era nessuno, si volse nella mia direzione
e chiese: “Hai dei problemi?”

La sua domanda non giunse del tutto inaspettata, ma mi prese
comunque di sorpresa. Prima di poter rispondere, continuò: “Va tutto bene, è
normale per un uomo giovane avere simili desideri, ma nella tua situazione,
questi disturbano la concentrazione. Ti dirò io cosa fare.”. A quel punto,
mi consigliò, come un padre avrebbe fatto con il figlio, sul come dirigere
le energie sessuali verso l’alto fino al centro energetico del cuore, e
quindi al terzo occhio per tramutarle in un’energia differente.

Più avanti, un fratello discepolo che aveva lasciato la vita
monastica per sposarsi, mi raccontò di come il Maestro lo aveva consigliato,
prendendo spunto da un antico manuale indiano riguardante l’amore romantico.

Benchè Paramahansaji avesse deciso in giovane età di essere un
monaco, non era ignorante circa il rapporto uomo/donna. Per questo motivo,
era in grado di consigliare sia i monaci sia le persone sposate in maniera
molto pratica.

Ho sempre visitato Mt. Washington durante la convocazione estiva annuale,
alla quale gli studenti provenienti da tutto il paese erano invitati per
ricevere l’iniziazione al kriya yoga. Fu dopo l’iniziazione del 1951 che il
Maestro nominò San Lynn come suo successore e gli assegnò il nome di Rajarsi
Janakananda. Janaka era un antico re indiano che era anche un santo. Il sig.
Lynn era un prospero uomo d’affari altamente autorealizzato.

I monaci e le monache erano sempre invitati a presenziare al
banchetto annuale di Natale. Un altro di questi banchetti si teneva
annualmente alla vigilia del compleanno del maestro, il 5 gennaio. Fu
durante l’ultima celebrazione del compleanno, nel 1952, che parlò con noi
della sua imminente transizione. Egli disse: “Passerò del tempo nello
spazio, quindi, rinascerò nell’Himalaya e sarò con Babaji”. Quella sera
disse anche: “Ritornerò un giorno, ma non mi riconoscerete. I miei colori
saranno il blu e l’oro”.

Il blu e l’oro erano i colori preferiti di Paramahansaji. Faceva
sempre decorare le cappelle e i santuari delle chiese con i muri color blu
chiaro e oro, con aggiustamenti di bianco. Il blu chiaro ha un effetto
rilassante e aiuta a conciliare la meditazione.

Nell’autunno del 1951, mentre ero al centro di Phoenix, ricevemmo
una telefonata dal Maestro. Herbert prese la telefonata e me lo passò per un
momento. Sorella Gyanamata era appena mancata, e ci fu chiesto di assistere
al suo funerale nell’eremitaggio di Encinitas.

Gyanamata era stata una discepola devota per molti anni. Era
Americana, e Paramahansaji le aveva dato questo nome monastico che
significava “Madre di saggezza”. Una volta disse di lei: “Conosce ogni mio
pensiero”, e disse anche: “Non vivrò a lungo dopo che sorella (Gyanamata
N.d.T.) se ne sarà andata”.

Ci disse più tardi com’era avvenuta la transizione. Era molto
anziana, e aveva chiesto molte volte al maestro il permesso di lasciare il
corpo. Il maestro aveva sempre rifiutato perché, le diceva, “Ho bisogno di
te per l’ispirazione”. Voleva inoltre che lei raggiungesse la completa
autorealizzazione prima di andare via.

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