Domande e risposte sul tema del lutto

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Domande e risposte sul tema del lutto

dal ritiro in Italia con Claude Anshin Thomas

Pian dei Ciliegi, 14-18 ottobre 1999

Claude: Nei due giorni scorsi vi siete incontrati in piccoli gruppi, praticando la consapevolezza
della parola. La prima volta non c’era un argomento specifico, la seconda invece sì. Oggi, ci
ritroviamo tutti insieme e voglio farvi una domanda: vorrei che prendeste in considerazione il
lutto. Quale esperienza fate del lutto nella vostra vita e cosa fate per evitare il dolore?

D: La sofferenza c’è ogni volta che viene a mancare una persona, c’è anche prima, durante la
malattia. Quando la persona cara muore, continuo la preghiera e il mio cuore è in pace. Mi dico:
“Ora è nelle mani del Signore, io posso solo pregare”. E il lutto finisce. Questo mi è possibile
perché ho lasciato la mia famiglia quando avevo 20 anni e mi sono abituata alla separazione. Penso
che non sarebbe lo stesso se la persona mi vivesse accanto. È un paragone sciocco, ma quando è morto
il mio cane che viveva con me, il lutto è durato di più. […] Alla fine io non voglio guardare in
faccia la morte, metto via le fotografie delle persone morte e continuo a pensare a loro come se
fossero vive, non vado neanche ai funerali.

D: Vorrei parlare subito, perché questo argomento mi commuove di sicuro. Ho avuto solo l’esperienza
della morte di mio padre. Anche i funerali di persone che non ho conosciuto mi commuovono
moltissimo, fare le condoglianze è qualcosa che mi causa sofferenza…

D: A volte ascoltando la radio, mi giungono notizie di morti e mi assale la disperazione.

Claude: Le emozioni non vengono dall’esterno e le notizie non ci procurano emozioni. Non è la morte
di un amico a procurarci tristezza: queste situazioni ci offrono l’occasione per toccare la nostra
tristezza, la nostra paura, la nostra solitudine, la nostra disperazione. Quando puntiamo il dito
verso qualcuno, ci liberiamo delle nostre responsabilità, per non accorgerci della natura della
nostra sofferenza.

La mente può suggerirmi che se nascondo le foto nel cassetto, non avvertirò la perdita; se non
ascolto la radio, non proverò dolore; se non vado ai funerali non sarò triste, non piangerò. Non
sono le notizie, le fotografie a generare questi sentimenti in noi, si tratta semplicemente di
avvenimenti che accadono nel tempo e nello spazio, sono degli attimi che ci consentono di
avvicinarci alla natura della nostra sofferenza. Quando proviamo queste sofferenze e sappiamo che
sono nostre, allora finalmente c’è la possibilità per la guarigione e la trasformazione. Fino a
quando penseremo che sono le notizie, le foto, le cerimonie, possiamo anche pensare che se non
andiamo al funerale non ci sentiremo tristi. Sentirsi semplicemente tristi, questo è il Dharma;
questo è il modo in cui la pratica ci offre un servizio: addentrandoci in questa tristezza, non
sapendo da dove venga, né a cosa porti: l’insegnamento del non conosciuto.
Non ci si può distogliere dalla tristezza né trattenerla, questo è l’insegnamento della via di
mezzo. Allora saremo capaci di sperimentare il lutto. […].

Portare il lutto è un processo molto naturale. Vivere in maniera diversa vuol dire impegnarsi nel
processo di portare il lutto, di lasciare andare il desiderio egoistico, l’avidità e fare un passo
verso il non conosciuto.
Attraverso il processo della perdita, noi sperimentiamo il lutto. La perdita più grande potrebbe
essere… non so, le chiavi della macchina, non sappiamo quale potrebbe essere. Provare a
immaginarlo è sofferenza, non è abbracciare l’insegnamento del non conosciuto. […].
Portare il lutto non è sofferenza, ma guarigione e trasformazione: dategli il benvenuto,
abbracciatelo, e saprete che passerà. Il Buddha ha insegnato l’impermanenza e la mancanza di un sé
in tutte le cose. La mia natura è di invecchiare, di ammalarmi, di commettere errori, di essere
confuso, la mia natura è di illuminarmi, di vivere la gioia. La sofferenza sta nel fatto che non
siamo capaci di vivere questa natura.

Restare aperti a tutte le gioie e i dolori dell’universo, non aspettarsi che niente al di fuori di
noi ci procuri stabilità e felicità. Quando lascio andare le aspettative, solo allora ho la
possibilità di vivere la realtà del non conosciuto e di venire nutrito dall’amore e dai doni
dell’intero universo; e potrò incontrare gli altri esattamente dove sono.
Sono triste per le persone che hanno lasciato il ritiro, per alcuni un po’ meno di altri: anche
questa è la verità e vivendo nella verità di ciò che è in ognuna di queste esperienze si trova la
chiave della mia illuminazione. Senza respingere nulla e senza attaccarsi a nulla. In realtà posso
vedere quando sono attaccato e quando sto rifiutando, questo è il dono della pratica, questo è
l’aiuto che ci danno gli strumenti della meditazione e nel momento di consapevolezza posso
semplicemente permettermi di sentire il lutto.
Procedere lungo questo sentiero, indossare quest’abito, a volte mi fa sentire molto solo. Quando la
gente siede in un angolo bevendo vino e fumando, divertendosi, non sono lì. Ma sono lì quando stanno
per vomitare nel bagno, allora posso tenere loro la mano e confortarli. Posso far loro visita quando
stanno per morire di cancro. In ogni momento mi sento tremendamente triste perché non posso aiutare
nessuno a risvegliarsi, non ho alcun potere. Posso solo vivere ciò che mi è stato dato.

Quando ero molto giovane, avevo solo 18 anni, mi sono ritrovato seduto da solo nella giungla del
Vietnam, tutto intorno a me c’erano solo morti o persone che piangevano la perdita dei loro cari.
Ero coperto di sangue e sporco di fango, ero terrorizzato. Non avevo alcuna idea di come reggere ciò
che stavo vivendo e dunque costruii dentro di me una prigione con delle mura molto alte per impedire
a dei sentimenti così potenti di emergere, di avere accesso al mio sé.
Ho continuato a ricreare la violenza nella mia vita, contro gli altri, contro me stesso e tutti gli
esseri senzienti.
Quando avevo 36 anni sedevo su una spiaggia e a un tratto iniziai a piangere per il ragazzo di 18
anni a cui non era mai stato concesso di avere 18 anni. Mi sentii davvero arrabbiato, confuso perché
ormai avevo 36 anni e non più 18. Ma prima di poter vivere la mia età attuale, dovevo vivere i miei
18, 19, 20… anni, dovevo farne esperienza per la prima volta, e non nascondermi da loro. Fu questa
la pratica che mi sostenne, mi nutrì e mi incoraggiò lungo il cammino. Portando il lutto abbiamo la
possibilità di risvegliarci. […].

D: Quando una persona muore, chi le era accanto sta molto male. Dopo un certo tempo può accorgersi
che può continuare a comunicare: si tratta di una comunicazione diversa da quella precedente?
L’altro può venire disturbato da questa comunicazione?

Claude: In realtà hai fatto diecimila domande e non una sola e nella tua domanda inoltre ci sono
molte supposizioni.
Uno degli insegnamenti principali del Buddha è quello del non conosciuto: noi non possiamo conoscere
il prossimo istante e la nostra responsabilità consiste proprio nel fare un passo nella direzione
del non conosciuto e di portare testimonianza. Io non so se sia possibile o meno comunicare con i
morti, non so se ci sia una vita dopo la morte, non ne ho idea. E non ho mai incontrato nessuno che
potesse dire concretamente di aver fatto esperienza di un tale processo, del morire e rinascere di
nuovo. Non mi metto a discutere su questa ipotesi, semplicemente non lo so.
Quando parlo con qualcuno che è vivo davanti a me, non so se mi sente, se mi capisce. Deve essere
vero quindi anche nell’altro caso. L’abilità delle persone ad ascoltare è direttamente connessa alle
cause e ai condizionamenti della loro vita, alla natura della loro sofferenza. La maggior parte
delle persone non ascolta, interpreta.

Per ascoltare devo essere veramente presente e ascoltare ciò che viene detto, non ciò che penso
venga detto: ascoltare senza fare nessuna interpretazione. Qualcuno mi chiede di raccogliere una
scatola, devo soltanto tirarla su, non devo andare oltre. Ma molti, quando dico: “Raccogli la
scatola” pensano: “Ma perché mai vuole che raccolga la scatola, quali sono le sue intenzioni? È un
test?”. Questa è la natura della sofferenza; quando dico di raccogliere la scatola sto dicendo
semplicemente questo. È anche abbastanza vero che le persone non sono chiare nella loro
comunicazione, non sono dirette sul punto. Se qualcuno vuole che io raccolga quella scatola,
potrebbe però dire: “Accidenti, ma che cosa ci fa quella scatola lì?”. Al che io potrei rispondere:
“Non lo so”. E allora l’altro si arrabbierebbe perché non ho raccolto la scatola: ma non me lo ha
nemmeno chiesto.
Io rispondo semplicemente a ciò che mi viene messo davanti, non posso fare nient’altro. Non posso
essere altro da ciò che sono e impararlo è il dono della meditazione, il dono degli insegnamenti
buddhisti.

Risvegliarci alla natura della nostra sofferenza, alle cause e condizionamenti della nostra vita che
ci impediscono di vivere pienamente. Quando mi risveglio alla natura della mia sofferenza, posso
imparare ad accoglierla con benevolenza e solo allora inizierà a essere trasformata.
Nessuno muore mai veramente; si cessa di esistere in questa forma. Le persone possono non essere più
presenti davanti a me in modo da poterle toccare in senso fisico, ma sono ancora vive in me quando
penso a loro, quando le ricordo e dunque posso sentirmi libero di parlare loro.
Parlo spesso con mio padre che è morto nel 1973 e non so se mi senta o no, non importa. Gli parlo
comunque e più sarò in grado di vivere pienamente, più chiaramente potrò parlargli. Molte delle
conversazioni che faccio con mio padre non hanno nulla a che vedere con lui. Ma hanno a che fare con
me.

Durante il servizio militare in Vietnam mi sono reso responsabile della morte di diverse centinaia
di persone. Esse sono vive in me, posso vedere i loro volti, le circostanze delle loro morti e sento
profondamente la mia responsabilità per la loro morte. La mia comunicazione con loro sta nel vivere
la mia vita in modo diverso, risvegliandomi alle cause e ai condizionamenti della mia vita che mi
portarono a decidere di andare volontario in guerra e di trovarmi nella situazione di causare la
loro morte. Cammino con loro, vivendo la mia vita in modo diverso, espiando per le mie azioni, in
modo che le loro vite non siano state sprecate.
Con mio padre esamino continuamente il mio rapporto con lui, anche se è morto ormai da 26 anni.
Dobbiamo ricordarci che ci sono due tipi di karma: quello che ereditiamo e quello che creiamo noi,
non sono la stessa cosa ma non sono neanche diversi. Il karma che creo è connesso con quello che ho
ereditato. Mio padre è dentro di me, è in questo senso che comprendo la reincarnazione. Non è che
mio padre nasca nuovamente, ma nasce e vive in me e nel momento in cui guarisco, anche mio padre che
è in me guarisce.

A volte la tristezza che sento è più grande del momento e comprendo che non sto soffrendo solo la
mia tristezza, ma anche quella delle generazioni passate. Quando riesco ad accogliere tutta questa
tristezza con gentilezza amorevole, allora potrà iniziare a essere trasformata. Così posso guarire
mio padre, mia madre, che sono in me. Posso guardare tutte le generazioni passate attraverso ogni
spazio e tempo, così come quelle future. È questo il dono di vivere la mia natura del risveglio.
Quindi non mi interessano i concetti, ossia se sto disturbando il karma di qualcuno.
Risvegliandomi a ciò che mi tiene intrappolato in questa sofferenza vuol dire che smetto di fare le
cose che mi tengono intrappolato nel ciclo della sofferenza.

Come posso affrontare la realtà delle persone che ho ucciso? Non posso restituire loro la vita, ma
posso celebrare questa vita, smettere di distruggere questa vita perché attraverso di me loro sono
ancora vivi: posso sentirli non con le mie orecchie ma con tutto il mio essere. Mi stanno dicendo:
“Non permettere che le nostre vite siano state sprecate, siamo morti per mostrare al mondo che la
violenza non è la via, la violenza non è una soluzione, la guerra non è una soluzione”. Allora, per
prima cosa, devo smettere di essere violento con me stesso ed è questo il modo in cui la pratica mi
sostiene. […].

Pian dei Ciliegi, 14-18 ottobre 1999

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