BUDDHA, LA LUCE DELL’ASIA – 3

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BUDDHA, LA LUCE DELL’ASIA – 2

SIR EDWIN ARNOLD
EDIZIONI IL PUNTO D’INCONTRO

Libro Quinto

Attorno a Rajagriha si alzavano cinque belle colline a guardia della silvana città del Re Bimbasara;
Baibhara, verde di citronella e palme; Bipulla, ai cui piedi il sottile fiume Sarsuti scivola con
tiepide increspature; l’ombrosa Tapovan, nei cui stagni fumanti si specchiano rocce nere; a sud-est
il picco dell’Avvoltoio Sailagiri e ad est Ratnagiri, la collina delle gemme.
Un sentiero tortuoso, pavimentato di lastre consumate dal passaggio, conduce attraverso campi di
cartamo e macchie di bambù, sotto ombrosi manghi e giuggioli, oltrepassando venature di roccia
bianco-latte e rupi di diaspro, profondi precipizi e giungle fiorite dove, sul fianco di quella
montagna, ad Occidente, arriva ad una caverna sopra la quale sono sospesi fichi selvatici.
Ed ecco! Tu che qui giungi, siano nudi i tuoi piedi ed abbassa il capo! Poiché in tutta questa
spaziosa terra non vi è luogo più caro e più santo. Qui il signore Buddha sedette nelle torride
estati, sotto le sferzanti piogge, durante gelide albe e tramonti; indossando per amore di tutti gli
uomini la veste gialla, mangiando come un mendicante gli scarsi pasti ottenuti casualmente dal
caritatevole; di notte rannicchiato sull’erba, senza casa, solo; mentre gli insonni sciacalli
guaivano aggirandosi attorno alla sua caverna o dal folto irrompeva il brontolio della tigre
affamata.
Di giorno e di notte qui dimorava colui che è onorato dal mondo, soggiogando quel bel corpo, nato
per la beatitudine, con digiuni, frequenti veglie e intensa ricerca di silente meditazione, così
prolungata che spesso, mentre meditava, immobile sul suo seggio come la ferma roccia, lo scoiattolo
balzava sul suo ginocchio, la timida quaglia conduceva la sua prole tra i suoi piedi e le colombe
blu beccavano i granelli di riso dalla tazza accanto alla sua mano.
Così egli meditava dal mezzogiorno, quando la terra scintillava dal calore e le mura e i templi
danzavano nell’aria piena di vapore, fino al tramonto, non notando il calare del globo
fiammeggiante, né lo scivolare della sera che purpurea e rapida si distendeva sui campi addolciti;
né si accorgeva della silente venuta delle stelle, né della vibrazione della pelle dei tamburi
nell’indaffarata città, né del grido del gufo e delle contese notturne; completamente assorbito in
sé, in acuto districare i fili del pensiero e procedendo stabile nei labirinti della vita.
Così egli sedeva finché la mezzanotte rendeva silente il mondo e solo le bestie dell’oscurità
uscivano dai cespugli e ululavano con guaiti di paura e odio, mentre la lussuria, l’avarizia e l’ira
scivolavano nelle nere giungle dell’ignoranza dell’uomo.
Allora egli dormiva per quello spazio di tempo in cui la rapida luna percorre la decima parte del
suo mare di nuvole.
Ma ancora si alzava prima dell’alba e sedeva in profonda riflessione su qualche ombrosa piattaforma
della sua collina, osservando la terra dormiente con occhi ardenti e pensieri che abbracciavano
tutti i suoi esseri viventi, mentre sopra gli ondeggianti campi si muoveva quel mormorio che è il
bacio del mattino che risveglia le terre.
Ad est quel miracolo del Giorno si raccoglieva e cresceva: da principio un chiarore così fioco che
la notte sembra ancora inconsapevole del sussurro dell’alba, ma presto, prima che il gallo della
giungla canti due volte, appare un bianco orlo che si allarga, divenendo sempre più brillante,
alzandosi verso la stella del mattino e svanendo in onde d’argento, riscaldandosi in oro pallido,
afferrando le nuvole più alte e fiammeggiando sui loro bordi, per brillare in uno splendore dorato,
arrossendo l’orizzonte di zafferano, scarlatto, cremisi, ametista; mentre il cielo brucia per poi
rivelare lo splendido blu, ecco, vestito di vesti di luce, giunge il Re della Vita e della Gloria!
Allora Buddha, alla maniera degli antichi saggi, i Rishi, glorificava il disco nascente, scendendo
poi, dopo le abluzioni, per il tortuoso sentiero nella città; e come gli antichi Rishi passava di
strada in strada, con la tazza da mendicante in mano, raccogliendo l’esiguo compenso per le sue
necessità.
Presto veniva riempita, poiché tutti gli abitanti della città gridavano: “Prendi dalle nostre
provviste, grande signore!” e “Prendi dalle nostre!” vedendo il
suo volto divino e gli occhi immersi in contemplazione; e le madri, quando lo vedevano passare,
esortavano i loro bambini a baciargli i piedi e sollevavano il lembo della sua veste per toccare con
essa le loro fronti o correvano a riempire la sua giara e gli portavano latte e dolci.
E spesso, mentre egli camminava, gentile e lento, splendente di celestiale pietà, perso nella
preoccupazione per coloro che non conosceva se non come suoi simili, i bruni occhi sorpresi di
qualche fanciulla indiana dimoravano in improvviso amore e profonda adorazione su quella maestosa
forma, come se vedessero i più teneri e puri pensieri dei loro sogni avverarsi, una grazia più
nobile di quella mortale accendeva i loro petti.
Ma egli passava oltre, con la tazza e la veste gialla, accettando tutti quei doni venuti dal cuore
con dolci parole e ritornando alle solitudini per sedere sulla sua collina con uomini santi, per
udire e chiedere della saggezza e delle sue strade.
A mezza via nei calmi boschi di Ratnagiri, al di là della città, ma al di sotto delle caverne,
dimoravano coloro che consideravano il corpo nemico dell’anima e la carne una bestia che gli uomini
devono incatenare e domare con amari dolori, finché il senso del dolore stesso viene ucciso e
torturavano i nervi fino a che non sentivano più la tortura: yogi, brahmachari, bhikshu, tutti
scarni e funerei, dimoranti in solitudine.
Qualcuno era rimasto giorno e notte con le braccia alzate fino a che, private del sangue e
disseccate dalla malattia, le giunture lentamente si disfacevano e gli arti si irrigidivano
sporgendo da spalle senza carne, come rami biforcuti da tronchi della foresta.
Altri avevano stretto le loro mani così a lungo e con così determinata forza che le unghie, simili
ad artigli, erano cresciute attraverso le palme piagate.
Alcuni camminavano su sandali da cui spuntavano aculei; altri con pietre affilate si tagliavano
petto, fronte e coscie, cicatrizzandole con il fuoco, infilando nella loro carne spine,
cospargendosi di fango e ceneri, strisciando sporchi, avvolgendo attorno al loro grembo stracci di
uomini morti.
Ce n’erano alcuni che abitavano in luoghi in cui fumavano le pire funerarie, con cadaveri per
compagnia e circondati da avvoltoi che si gettavano sui resti funebri; altri che ripetevano
cinquecento volte al giorno i nomi di Shiva, con dei serpenti avvolti attorno al collo bruciato dal
sole, coi fianchi scavati ed un piede ripiegato contro la coscia.
Così formavano una dolorosa compagnia; la cima del capo piagata dal bruciante calore, gli occhi
accecati, tendini e muscoli avvizziti, visi stravolti ed esangui come quelli di uomini uccisi da
cinque giorni.
Qui, uno era accucciato nella polvere e, giorno dopo giorno, contava mille grani di miglio, li
mangiava con affamata pazienza, seme dopo seme e così digiunava.
Là, un altro mischiava ai suoi legumi foglie amare per evitare che il palato fosse troppo
compiaciuto; e più avanti, un miserabile santo che si era mutilato, privo d’occhi, senza lingua,
senza sesso, zoppo, sordo; il corpo veniva così spogliato dalla mente, per la gloria di molta
sofferenza e per la beatitudine che vinceranno, dicono i santi libri, coloro la cui sofferenza
porta vergogna agli dei che ce la inviano e rende dei gli uomini stessi, capaci di soffrire più di
quanto l’inferno possa nuocere.
Guardandoli tristemente, Siddhartha parlò ad uno di loro, capo tra coloro che cercano la sofferenza:
“Troppa sofferenza, signore! Per molte lune ho dimorato sulla collina, cercando la Verità e ho visto
qui i miei fratelli e te così pietosamente tormentati da voi stessi; perché aggiungete sofferenza
alla vita, che già ne contiene così tanta?”
Così rispose il saggio: “È scritto che se un uomo mortificherà la sua carne fino a che la vita che
vive diventa dolore e la morte un riposo voluttuoso, tali tormenti purificheranno i suoi peccati e
l’anima, così purgata, sfreccerà dalla fornace del suo dolore, alata, verso gloriose sfere e uno
splendore che sorpassa ogni pensiero.”
“Guarda le nuvole che fluttuano nel cielo,” rispose il Principe, “adornate come la veste d’oro
attorno al trono del tuo Indra, si alzano dal mare in tempesta; ma devono ancora cadere in gocce di
pianto, correndo lentamente attraverso scoscesi e dolorosi corsi d’acqua, attraverso spaccature,
fenditure e flutti fangosi, fino al Gange e al mare, da dove sono state originate.
“Sai tu, fratello mio, se non sarà così, dopo i loro molti dolori, per i santi e la loro
beatitudine? Poiché ciò che sorge cade e quello che si acquisisce è speso; e se voi comperate il
cielo con il vostro sangue, nel duro mercato dell’inferno, quando l’affare è finito, la pena
ricomincia!”
“Può essere che ricominci?”, gemette l’eremita. “Ahimè non conosciamo questo, né, con certezza,
qualunque altra cosa; tuttavia, dopo la notte viene il giorno e dopo il tumulto la pace e noi odiamo
questa maledetta carne che si aggrappa all’anima e in alto volerebbe; così, per amore dell’anima,
paghiamo la posta di brevi agonie, nella partita con gli dei, per ottenere le gioie più grandi.”
“Tuttavia, anche se esse durassero una miriade di anni,” disse Siddhartha, “alla fine esse
svanirebbero; o, altrimenti, c’è vita allora al di sotto, al di sopra, al di là, così dissimile da
questa, che non cambi? Parla! Durano forse per sempre i tuoi dei, fratello?”
“No,” dissero gli yogi, “solo il grande Brahman: gli dei semplicemente vivono.”
Allora parlò il Signore Buddha: “Vorrete voi, essendo saggi, poiché sembrate santi e dal cuore
forte, lanciare questo amaro dado dei vostri gemiti e lamenti per guadagni che possono essere sogni
e che devono aver fine?
“Vorrete voi, per amore dell’anima, odiare così la vostra carne, così flagellarla e mutilarla, al
punto da non essere più idonea a sostenere lo spirito, cercando la casa ma cadendo sul sentiero
prima che scenda la notte, come un volonteroso destriero troppo incitato?
“Vorrete voi, tristi fratelli, smantellare e smembrare questa bella casa dove siamo giunti a
dimorare a causa di dolorosi passati; le cui finestre ci danno luce, la piccola luce per mezzo della
quale guardiamo al di là per conoscere se l’alba verrà, e dove si snoda il sentiero migliore?”
Allora essi gridarono all’unisono: “Abbiamo scelto questo come cammino e lo percorreremo, Rajaputra
(figlio di Re), fino alla fine, anche se tutte le sue pietre
fossero di fuoco, confidando nella morte. Se conosci una via più eccellente parla, altrimenti, che
la pace sia con te!”
Egli continuò, molto addolorato, osservando che gli uomini temono così tanto di morire da essere
paralizzati dalla paura, bramano così tanto di vivere da non osare amare la loro vita, piagandola
con crudeli penitenze, forse per compiacere gli dei che invidiano all’uomo il piacere; forse per
evitare l’inferno con inferni auto-inflitti; forse in santa follia, sperando che l’anima possa
irrompere meglio attraverso la loro carne martoriata.
“O graziosi fiori del campo!” disse Siddhartha, “che rivolgete i vostri teneri volti al sole, felici
della luce e grati diffondete dolci fragranze indossando vesti piene di reverenza, d’argento, oro e
porpora, nessuno di voi manca del perfetto vivere, nessuno di voi si spoglia della sua felice
bellezza.
“O voi palme che vi elevate bramose di forare il cielo e bere il vento che soffia dall’Himalaya e
dai freschi mari blu, quale segreto conoscete che crescete contente, dal tempo del tenero germoglio
al momento del frutto, sussurrando solari canzoni dalle vostre frondose corone?
“Anche voi, che dimorate così lieti negli alberi, pappagalli sfreccianti, colibrì, bulbuls, colombe,
nessuno di voi odia la sua vita, nessuno di voi considera di sforzarsi per migliorarla privandosi
dei bisogni!
“Ma l’uomo che vi uccide, essendo il signore, si considera saggio e la saggezza, nutrita di sangue,
sfocia così nel tormento di se stesso!”
Mentre il Maestro parlava, si alzava dal monte la
polvere di un calpestio: capre e pecore nere scendevano lente per il tortuoso sentiero; molte
indugiavano a brucare i ciuffi d’erba, allontanandosi dal sentiero dov’era l’acqua luccicante e
pendevano i fichi selvatici. Ma sempre, mentre esse sviavano, il pastore gridava o adoprava la sua
sferza e continuava a far muovere, verso la pianura, la sciocca moltitudine.
Nel gregge c’era una pecora con due agnellini.
Una ferita faceva zoppicare uno degli agnelli che arrancava, indietro, sanguinante, mentre davanti
il suo gemello saltellava di qua e di là e la madre perplessa correva avanti e indietro timorosa di
perdere questo o quello; quando Siddhartha vide ciò, pieno di tenerezza, prese l’agnello zoppicante
sul suo collo dicendo: “Povera madre, abbi pace! Dovunque andrai, io porterò il tuo piccolo. È
altrettanto buono lenire l’angoscia di un animale che sedere e riflettere sui dolori del mondo in
caverne solitarie, con preti che pregano.”
“Ma,” disse ai pastori, “dove, amici, conducete il gregge, sotto il sole di mezzogiorno, poiché è
alla sera che gli uomini riconducono all’ovile le loro pecore?”
E i pastori risposero: “Siamo stati inviati a procurare un sacrificio di cento capre e cento pecore
che il nostro signore, il Re, ucciderà questa notte in adorazione dei suoi dei.”
Allora disse il Maestro: “Anch’io verrò.”
Così egli camminò pazientemente, portando l’agnello, a fianco dei pastori, nella polvere e sotto il
sole, mentre la madre meditabonda belava piano ai suoi piedi.
Quando arrivarono alla riva del fiume, una donna dagli occhi di colomba, giovane, con il volto pieno
di lacrime e le mani sollevate, salutò inchinandosi profondamente: “Signore! Sei tu,” ella disse,
“colui che ieri ebbe pietà di me, qui, nel boschetto dei fichi dove vivo sola e allevo il mio
bambino.
“Aggirandosi tra i boccioli, egli trovò un serpente che si avvolse attorno al suo polso, e rise e
giocò con la rapida lingua biforcuta, aprendo la bocca di quel freddo compagno di giochi.
“Ma ahimè! Ad un tratto diventò così pallido e immobile che non potevo immaginare perché mai avesse
cessato di giocare e lasciasse che il mio seno scivolasse dalle sue labbra. Ed uno disse: ‘È
avvelenato.’ Ed un altro: ‘Morirà’. Ma io che non potevo perdere il mio prezioso bambino, li pregai
di chiamare un medico che potesse richiamare la luce ai suoi occhi; era così piccolo il segno di
quel bacio del serpente e penso che egli non poteva odiarlo grazioso com’era, né ferirlo mentre
giocava.
“E qualcuno disse: ‘C’è un sant’uomo sulla collina, e guarda! Sta arrivando proprio ora con la sua
veste gialla. Chiedi al Rishi se c’è una cura per ciò che ha colpito tuo figlio.’
– “Allora venni tremando da te, la cui fronte è come quella di un dio e piansi e aprii la veste che
nascondeva il volto del mio bambino, pregandoti di dirmi quale rimedio sarebbe stato benefico. E tu,
nobile signore, non mi respingesti, ma guardasti con occhi gentili e toccasti con mano paziente;
poi, ricoprendogli il volto, mi dicesti: ‘Sì, piccola sorella, c’è ciò che può guarire, innanzitutto
te e poi lui, se riesci a procurartela; poiché coloro che cercano i medici portano loro ciò che
viene ordinato.
“Perciò, ti prego, trova un tola (dodici grammi) di semi di senape nera; soltanto, fai attenzione
che non provenga da nessuna mano o casa in cui padre, madre, figlio o schiavo siano morti; sarà bene
se troverai tali semi.’ Così dicesti, mio signore!”
Il Maestro sorrise con grande tenerezza: “Sì, lo dissi, cara Kisagotami! Ma hai trovato i semi?”
“Andai, signore, stringendo al petto il mio bambino che diventava sempre più freddo, chiedendo ad
ogni capanna, qui nella giungla e verso la città: ‘Vi prego, datemi della senape nera, per vostra
grazia, una tola.’ E chiunque l’avesse me la diede, poiché tutti i poveri sono compassionevoli con
il povero; ma quando chiesi: ‘Nella casa del mio amico, qui, è mai per caso morto qualcuno, marito o
moglie, figlio o schiavo?’ essi dissero: ‘O sorella! Che cosa stai chiedendo? I morti sono
moltissimi e i vivi pochi!’
“Così con tristi ringraziamenti restituii la senape e pregai degli altri; ma anche gli altri
dissero, ‘Ecco i semi, ma abbiamo perso il nostro schiavo’. ‘Ecco i semi, ma il nostro buon uomo è
morto’. ‘Ecco dei semi, ma colui che li seminò è morto tra il tempo della pioggia e quello del
raccolto!’
“Ah, signore! Non ho potuto trovare una sola casa dove vi fossero dei semi di senape e nessuno fosse
morto! Perciò lasciai il mio bambino che più non si nutriva né sorrideva, sotto le vigne selvatiche
vicino al fiume, per cercare il tuo volto e baciare i tuoi piedi e pregarti di dirmi dove posso
trovare questo seme senza che vi sia morte, se ora, il mio bambino non è deceduto come temo e come
mi hanno detto.”
“Sorella mia! Tu hai trovato,” disse il Maestro,
“cercando ciò che nessuno trova, quell’amaro balsamo che io avevo da darti. Colui che tu tanto
amasti già ieri dormiva sul tuo seno il sonno della morte: oggi sai che l’intero vasto mondo piange
assieme a te il tuo dolore: l’angoscia diventa minore, per uno, quando tutti i cuori la condividono.
“Ecco! Verserei il mio sangue se potessi arrestare le tue lacrime e vincere il segreto di quella
maledizione che trasforma in angoscia il nostro dolce amore e che tra i fiori e i pascoli, come
questi inconsapevoli animali, conduce al sacrificio gli uomini loro padroni. Io cerco quel segreto:
tu seppellisci il tuo bambino!”
Così essi entrarono nella città fianco a fianco, i pastori e il Principe, quando il sole lentamente
faceva risplendere d’oro il lontano fiume Sona e gettava lunghe ombre lungo la strada e attraverso
il cancello dove gli uomini del Re stavano di guardia.
Ma quando videro Siddhartha, che portava l’agnello, le guardie arretrarono, la gente del mercato
tirò da parte le sue mercanzie, nel bazar i compratori e i venditori arrestarono la guerra delle
lingue per fissare quel dolce volto; il fabbro, con il martello alzato nella mano, dimenticò di
colpire; il tessitore lasciò la sua tela, lo scrivano la sua pergamena, il cambiamonete perse il
conto dei suoi pezzi.
Del bianco riso incustodito il bianco toro di Shiva si nutriva liberamente; il latte straripava dal
lota (dal recipiente), mentre i venditori osservavano il passaggio di Buddha che si muoveva così
umilmente, eppure con tanta bellezza e maestà.
Ma la maggior parte delle donne raccolte sulle soglie chiese: “Chi è costui che porta il sacrificio,
che
mentre passa emana così tanta grazia e pace? Qual è la sua casta? Da dove ha preso occhi così dolci?
Può egli essere Sakra o il Devaraj? E altre dissero: “È il sant’uomo che dimora con i rishi sulla
collina.”
Ma il signore camminava con l’attenzione rivolta all’interno, pensando: “Ahimè! Per tutte le mie
pecore che non hanno pastore; che vagano nella notte senza nessuno che le guidi, belando ciecamente
verso il coltello della morte; così come queste ignare bestie di simile destino.”
Poi qualcuno disse: “Là giunge un santo eremita portando il gregge che tu hai ordinato coronasse il
sacrificio.”
Il Re si alzò nella sua sala delle offerte. Da entrambe le parti, i bramini vestiti di bianco erano
schierati a mormorare i loro mantra, nutrendo il fuoco che ardeva nell’altare centrale.
Da legna profumata scaturivano brillanti lingue di fiamma, sibilando e scoppiettando mentre
lambivano i doni di ghi e spezie e il succo di soma, la gioia di Indra, il Re degli dei.
Attorno all’altare, fumava e correva un lento, spesso e scarlatto, rivolo, risucchiato dalla sabbia,
ma costantemente in corsa, il sangue delle vittime belanti.
Una di queste, una capra maculata, dalle lunghe corna, la testa legata all’indietro con erba munja,
giaceva mentre un sacerdote premeva sulla sua gola un coltello e mormorava: “Questo, venerabili dei,
di molti sacrifici è il coronamento, da parte di Bimbasara: rallegratevi nel vedere il sangue
versato e compiacetevi del profumo della ricca carne arrostita nelle fragranti fiamme; che i peccati
del Re siano deposti su questa
capra e che il fuoco li consumi bruciandola, poiché ora colpisco.”
Ma Buddha dolcemente disse: “Che egli non colpisca, grande Re! E quindi sciolse i legami della
vittima senza che nessuno lo arrestasse, tanto era grande la sua presenza. Poi, implorando di dargli
ascolto, parlò della vita che tutti possono prendere, ma nessuno può dare, la vita che tutte le
creature amano e si sforzano di mantenere, meravigliosa, cara, piacevole a ciascuno, anche al più
infimo; sì, un regalo per tutti quando c’è la pietà, poiché la pietà rende il mondo dolce per il
debole e nobile per il forte.”
Alle mute labbra del suo gregge egli prestò tristi, imploranti parole, mostrando come l’uomo che
prega per ricevere la misericordia degli dei è egli stesso privo di misericordia, essendo simile a
un dio per le sue vittime; sebbene tutta la vita sia legata e affine e ciò che uccidiamo ci abbia
dato un umile tributo di latte e lana, ponendo la fiducia nelle mani assassine.
Parlò anche di ciò che i santi libri sicuramente insegnano, come alla morte qualcuno sprofonda per
rinascere come uccello e bestia e come questi evolvano per diventare uomini nel vagabondaggio della
scintilla divina che diviene fiamma purificata.
Così il sacrificio è un nuovo peccato se il destinato passaggio di un’anima viene arrestato. Né,
disse ancora, uno dovrebbe lavare il suo spirito con il sangue; né rallegrare gli dei se sono buoni,
con sangue; né corromperli se sono malvagi; anzi, non si dovrebbe porre sulla fronte dell’innocente
bestia legata il peso di un solo capello, per quella risposta che tutti dovranno dare per le cose
commesse anche casualmente o erroneamente.
Poiché soli, ognuno per se stesso, si dovrà dar conto per mezzo della fissa aritmetica dell’universo
che misura il bene con il bene e il male per il male, quantità per quantità, in azioni, parole e
pensieri; vigile, consapevole, implacabile, inamovibile; rendendo di ogni futuro il frutto di tutto
il passato.
Così parlò, alitando parole così pietose, con tale alta nobiltà di aspetto e diritto che i preti
nascosero sotto le loro vesti le mani macchiate di sangue e il Re si avvicinò, stando in piedi con
palme giunte, a riverire Buddha; mentre Buddha continuava, insegnando come sarebbe bella questa
terra se tutti gli esseri viventi fossero legati dall’amicizia e dall’uso comune di cibi non
macchiati dal sangue e puri; il grano dorato, i brillanti frutti, le dolci erbe che crescono per
tutti, le acque correnti che insieme formano cibo e beveraggio sufficiente.
Quando udirono tutto questo, quando la potenza della gentilezza così li conquistò, i sacerdoti
stessi distrussero le fiamme dei loro altari e gettarono via il coltello sacrificale; e per tutta la
terra, il giorno successivo, circolò un decreto proclamato dagli araldi e in questo modo inciso
sulle rocce e sulle colonne: “Questa è la volontà del Re: c’è stata carneficina per i sacrifici e
uccisione per la carne, ma d’ora in poi nessuno verserà il sangue della vita, né gusterà carne,
vedendo che la conoscenza cresce e la vita è una e la misericordia giunge al misericordioso.”
Così diceva l’editto e da allora in poi la pace si diffuse tra tutte le specie viventi, l’uomo e le
bestie che lo servono e gli uccelli, su tutte le rive del Gange
dove il nostro Signore insegnò con la sua santa misericordia e dolci parole.
Poiché era sempre così pietoso, il cuore del Maestro, per tutti coloro che respirano questo respiro
di vita fuggevole, uniti in una comunanza di gioie e dolori.
Nei santi libri è scritto come in un’epoca antica, quando Buddha rivestì la forma di un bramino
dimorando sulla roccia chiamata Munda, vicino al villaggio di Dalidd, la siccità inaridì tutta la
terra: il giovane riso morì prima che potesse nascondere la quaglia; nelle radure della foresta un
ardente sole prosciugava le pozze d’acqua; erbe e piante medicinali si ammalavano e tutte le
creature del bosco scappavano cercando sostentamento.
A quel tempo, tra i cocenti muri di un nullah, allungata su nude pietre, il nostro Signore vide,
mentre passava, una tigre affamata. Nelle sue orbite la fame scintillava con fiamma verde; la sua
lingua arida si allungava di una spanna oltre le fauci rantolanti e le mascelle scavate; i suoi
fianchi striati pendevano raggrinziti dalle costole, come quando, tra le travi, sprofonda un tetto
di paglia marcito dalle piogge; e ai poveri, magri, capezzoli, due cuccioli che guaivano affamati
spingevano e succhiavano quel petto senza latte ridotto a niente, mentre lei, la loro emaciata
madre, leccava colma di materno affetto i rumorosi gemelli, cedendo loro il suo fianco e soffocando
un gemito, poiché l’amore era più forte del bisogno.
Dopo aver soffocato il primo selvaggio grido, ella appoggiò il suo affamato muso sulla sabbia e
ruggì con un selvaggio e tonante appello di dolore.
Vedendo quell’amara difficoltà e non ascoltando
null’altro se non l’immensa compassione di un Buddha, il nostro Signore pensò: “Non c’è che un solo
modo per aiutare questa assassina dei boschi. Al tramonto sarà morta non avendo più carne; non c’è
alcun cuore vivente che abbia pietà di lei, avida di prede sanguinanti, magra per mancanza di
sangue. E allora, se la nutrirò io, chi ci rimetterà all’infuori di me e come può l’amore perdere,
donando agli altri tutto ciò che ha?”
Così dicendo, Buddha, silenziosamente mise da parte i sandali e il bastone, il suo sacro filo, il
turbante e la veste e avanzò da dietro il cespuglio sulla sabbia dicendo: “Ecco, madre, qui c’è
carne per te!”
E la bestia morente diede un rauco grido e allontanandosi dai suoi cuccioli gettò a terra quella
volontaria vittima straziandola con tutti i suoi affilati artigli, strappandone la carne e
affondando le sue gialle zanne nel sangue, mentre il bruciante respiro del grande felino si
mischiava con l’ultimo sussurro di tale indomito amore.
Grande era il cuore del maestro già molto tempo prima, non soltanto allora, quando col suo grazioso
gesto fece cessare la crudele adorazione degli dei.
E il Re Bimbasara pregò molto Buddha, venendo a sapere della sua nascita reale e della sua santa
ricerca, di fermarsi in quella città, dicendo:
“Il tuo stato principesco potrebbe non sostenere tali digiuni; le tue mani furono fatte per reggere
scettri, non per elemosinare.
Rimani con me, che non ho figli, a governare e insegna al mio regno la saggezza fino a che morirò,
alloggiato nel mio palazzo con una bella moglie.”
Ma così parlò Siddhartha, dalla stabile mente
“Queste cose ebbi molto tempo fa, nobile Re, e le lasciai, per cercare la Verità che ancora cerco e
troverò; non per essere fermato, anche se il palazzo di Sakra mi aprisse le sue porte e la perla tra
le devi, le dee, spasimasse per me.
Vado a costruire il Regno della Legge, soggiornando a Gaya e all’ombra della foresta dove, penso, la
luce verrà a me; poiché non è qui, tra gli asceti, che arriva quella luce, né da coloro che
conoscono le scritture, né dai digiuni sopportati fino a che il corpo crolla, tormentato dall’anima.
Tuttavia c’è una luce da raggiungere e una verità da conseguire; e sicuramente, o vero amico, se io
la conseguirò ritornerò e compenserò il tuo amore.”
Allora il Re Bimbasara girò tre volte attorno al Principe, chinandosi riverentemente a toccare i
piedi del Maestro e lo lasciò partire.
Così si allontanò Buddha, dirigendosi verso Uravilva non ancora appagato, con il volto affilato e
debole da sei anni di ricerca.
Ma sulla collina e nel bosco, Alara, Udra e i cinque asceti lo fermarono, dicendo che tutto era
chiaramente descritto nelle sante scritture e che nessuno poteva guadagnare nulla di più di ciò che
era rivelato nelle Sruti e nelle Smriti, nemmeno i più grandi tra i santi!
Infatti, come poteva un uomo mortale essere più saggio delle Jnana-Kand, le scritture che rivelano
come Brahman sia al di là della forma e al di là dell’azione, al di là della passione, calmo, non
qualificato, immutabile, pura vita, puro pensiero, pura gioia?
O come poteva, l’uomo, essere migliore del Karma-Kand, che rivela come egli possa liberarsi della
passione e dell’azione, spezzare i vincoli dell’ego e così, oltre la sfera mortale, essere Dio e
fondersi nella vasta divinità, volando dal falso al vero, dalle guerre dei sensi alla pace eterna
dove vive il silenzio?
Ma il Principe li ascoltò non ancora appagato.

Libro Sesto

Tu che vuoi vedere dove alla fine albeggiò la luce, segui la valle del Gange in direzione
nord-ovest, dai “Mille Giardini”, fino a che i tuoi passi ti porteranno sulle verdi colline dove
sgorgano quei due affluenti gemelli, il Nilajan e il Mohana; seguili mentre si snodano al di sotto
degli alberi mahua dalle larghe foglie, in mezzo ai cespugli di sansar e bir, finché i due
splendenti fratelli gemelli si incontrano nel letto del Phalgu, fluendo in mezzo a sponde rocciose
fino a Gaya e alle rosse colline Barabar.
Vicino a quel fiume si estende un deserto spinoso che nei giorni antichi era chiamato Uruwelaya,
spezzato da colline di sabbia; mentre alla sua estremità, nel bosco, ondeggia un mare verde che
sembra toccare il cielo e alla sua base scorre un tranquillo flusso d’acqua pieno di boccioli di
loto blu e bianchi e popolato di rapidi pesci e tartarughe.
Vicino ad esso sorgeva il villaggio di Senani, con i suoi tetti di erba, annidato tra le palme,
pacifico, con
gente semplice immersa in occupazioni pastorizie.
Là, nelle solitudini silvane, una volta ancora visse il signore Buddha, riflettendo sui dolori degli
uomini, le vie del fato, le dottrine dei libri, le lezioni delle creature del bosco, i segreti del
silenzio da cui tutto viene, i segreti dell’oscurità in cui tutto va, la vita che giace in mezzo a
questi come quel ponte lanciato da nuvola a nuvola, attraverso il cielo, che come pietre ha la
nebbia e come pilastri i vapori, che si fonde ancora nel vuoto pur essendo così bello, con le sue
sfumature di zaffiro, granata e crisopazio.
Luna dopo luna, nostro Signore sedette nel bosco, meditando, così da dimenticare spesso l’ora del
cibo, levandosi da una contemplazione prolungata oltre l’alba e il mezzogiorno, per vedere la sua
tazza vuota e doversi nutrire di frutta selvatica caduta dai cespugli sovrastanti, fatta cadere da
scimmie o strappata da pappagalli color porpora.
Perciò la sua grazia sbiadì; il suo corpo, sciupato dalle battaglie dell’anima, perdeva giorno dopo
giorno i trentadue segni che indicano il Buddha.
Quella foglia, così secca e avvizzita, che fluttuava ai suoi piedi dall’alto del ramo dell’albero
sal, assomigliava ai teneri e verdi germogli della primavera più di quanto lui assomigliasse a colui
che era il fiore tra i Principi di tutta la terra.
E un giorno, il Principe esausto cadde a terra in un mortale svenimento, consumato come un cadavere
che non ha più respiro o una goccia di sangue, tanto era spento, immobile.
Ma per quella via passò un giovane pastore che vide Siddhartha giacere con le palpebre serrate e i
segni di un indicibile dolore sulle labbra, mentre il cocente sole di mezzogiorno bruciava il suo
capo.
Allora il ragazzo strappò ramoscelli dagli arbusti di rosa canina e li intrecciò fittamente tra loro
per farne un riparo che ombreggiasse il sacro volto. Poi versò sulle labbra del Maestro gocce di
latte tiepido, spremuto dal suo otre di pelle di capra per non toccarlo, essendo di bassa casta e
per non far torto a colui che aveva un aspetto così nobile e santo.
Ma i testi raccontano come questi ramoscelli così piantati rinacquero a nuova vita in una profusione
di foglie e fiori e di frutti rigogliosi, strettamente intrecciati, cosicché divennero come una
tenda di seta piantata per un Re andato a caccia, decorata con incastonature argentee e borchie
d’oro rosso.
E il ragazzo lo adorò, scambiandolo per un Dio; ma nostro Signore, riguadagnando il respiro, si alzò
e chiese il latte che era nel recipiente del pastore. “Ah, mio signore, non posso dartelo,” disse il
ragazzo; “vedi, io sono un Sudra e il mio contatto contamina!”
Allora colui che il mondo onorò disse: “La pietà e il bisogno rendono tutti simili. Non v’è casta
nel sangue, che ha un solo colore; né casta nelle lacrime, che sono salate per tutti; né uomo nasce
col segno del tilak impresso sulla fronte, né col sacro filo al collo. Colui che compie giuste
azioni è il due volte nato, il bramino, e colui che compie cattive azioni è il fuori-casta.
“Dammi da bere, fratello mio, poiché se arriverò alla fine della mia ricerca, ciò ti porterà del
bene.”
Allora il cuore del pastore fu rallegrato e diede ciò che gli era stato chiesto.
Un altro giorno passò per quella strada un gruppo di vistose ragazze, danzatrici del locale tempio
ad Indra, con i loro musici; uno che suonava un tamburo adornato di penne di pavone, un altro che
suonava il flauto e uno che arpeggiava con un sitar a tre corde.
Camminavano con passo agile e leggero, scendendo di ciglio in ciglio attraverso i sentieri, diretti
verso qualche allegra festa, mentre le campanelle d’argento tintinnavano dolcemente sui piccoli
piedi bruni e i braccialetti che portavano al braccio e al polso rispondevano col loro suono
peculiare; nel frattempo, colui che suonava il sitar ne faceva vibrare le corde di ottone e una
ragazza al suo fianco cantava:

“La danza è bella quando il sitar è intonato; non accordarlo né troppo basso, né troppo alto e
faremo danzare i cuori degli uomini.
La corda troppo tesa si spezza e la musica vola via; la corda troppo lenta è muta e la musica muore;
accorda il sitar né troppo basso né troppo alto. “

Così cantava la ragazza al suono del flauto e delle corde, volteggiando come una leggera e colorata
farfalla di radura in radura lungo il sentiero della foresta, non immaginando che le sue leggere
parole echeggiassero alle orecchie di colui, quel sant’uomo, che sedeva così rapito sotto il ficus a
fianco del sentiero.
Ma Buddha, mentre i dissoluti passavano, alzò la fronte e disse: “Lo sciocco qualche volta insegna
al saggio; forse tendo troppo questa corda della vita con l’intento di trarne la musica che porterà
la salvezza.
“Ora che cominciano a scorgere la verità, i miei occhi sono offuscati, la mia forza è svanita,
proprio
ora che ne ho maggiormente bisogno; dovrei avere quell’aiuto di cui l’uomo non può far senza,
poiché, altrimenti, colui la cui vita era la speranza di tutti gli uomini morirà.
Vicino a quel fiume, dimorava un proprietario terriero pio e ricco, padrone di molti greggi, un buon
capo, amico di tutti i poveri; e dalla sua casa il villaggio prendeva il nome “Senani”.
Egli viveva piacevolmente in pace, avendo come moglie Sujata, la più graziosa fra tutte quelle
figlie della pianura dagli occhi scuri; gentile e veritiera, semplice e cortese, di nobili
attitudini, con una graziosa parola per tutti, di bell’aspetto, una perla tra le donne, che
trascorreva sereni anni di felicità domestica a fianco del suo signore in quella tranquilla dimora
indiana, a parte il fatto che nessun figlio maschio benediva la loro unione d’amore.
Con molte preghiere ella aveva invocato Lakhsmi e molte notti di luna piena aveva girato attorno al
grande Lingam, nove volte nove, con offerte di riso e ghirlande di gelsomino e olio di sandalo,
pregando per un figlio maschio.
Sujata aveva anche espresso un voto che se questo fosse accaduto, avrebbe fatto un’offerta di cibo
al dio del bosco, abbondante, delicata, in una tazza d’oro sotto al suo albero; un cibo quale solo
le labbra degli dei possono gustare e ottenere.
E così fu: poiché le era nato un bellissimo bambino che ora aveva tre mesi e che riposava sul suo
petto, mentre camminava con grati passi verso l’altare del dio del bosco; con un braccio stringeva
il suo sari cremisi ad avvolgere il bambino, quella gioia tra le sue
gioie, mentre con l’altro braccio graziosamente curvato teneva fermi sul capo la ciotola e il piatto
che contenevano le squisite offerte per il dio.
Ma Radha, mandata innanzi a spazzare il terreno e a legare i fili scarlatti intorno all’albero,
venne di corsa gridando: “Ah, cara padrona! Guarda! C’è il dio del bosco seduto al suo posto,
apparso con le mani appoggiate sulle ginocchia. Guarda come la luce risplende attorno alla sua
fronte! Quanto dolce e grande sembra, con occhi celestiali! È grande e buona fortuna incontrare così
gli dei.”
Così, ritenendolo divino, Sujata si avvicinò tremante, baciò la terra e disse dolcemente, col volto
chino: “Voglia il Santo che abita il suo bosco, elargitore di bene, misericordioso con me, la sua
ancella, che ha rivelato ora la sua presenza, accettare questi nostri poveri doni di candido latte
cagliato, appena fatto con latte bianco come l’avorio intagliato!”
Poi versò nella tazza d’oro il latte e sulle mani di Buddha, da una bottiglietta di cristallo, versò
dell’attar, l’essenza di rose, distillata dai cuori delle stesse; ed egli mangiò, senza dire una
parola, mentre la madre contenta stava da parte riverentemente.
La virtù di quel pasto era così meravigliosa che Siddhartha sentì nuova forza e vita ritornare, come
se le notti di veglia e i giorni del digiuno fossero trascorsi in sogno; come se anche lo spirito,
assieme alla carne, condividesse quel buon pasto e rispuntassero nuove piume sulle ali, come un
uccello deliziato di fronte ad un improvviso corso d’acqua, dopo uno stancante volo su interminabili
distese di sabbia, nel quale lava la polvere del deserto dal collo e dalle piume.
E ancor più Sujata lo adorò vedendo il nostro Signore diventare sempre più bello e il suo aspetto
più brillante: “Sei tu invero il dio?” chiese a bassa voce. “E il mio dono ha trovato il tuo
favore?”
Ma Buddha disse: “Che cosa mi hai portato?”
“Oh santo!” rispose Sujata: “Dai nostri armenti ho preso il latte di cento madri che avevano appena
partorito e con quel latte ho nutrito cinquanta mucche bianche, poi con il loro ne ho nutrite
venticinque e con il loro altre dodici e poi ancora con il loro latte ho nutrito le sei più nobili e
migliori di tutte le nostre mandrie.
“Ho bollito il loro latte con sandalo e spezie preziose in recipienti d’argento, aggiungendo riso
ben cresciuto da seme scelto, posto in terreno appena arato, così scelto che ogni granello era come
una perla. Ho fatto questo con tutto il cuore, perché avevo votato, sotto il tuo albero, che se
avessi avuto un figlio, avrei, per la mia gioia, fatto un’offerta. Ed ora ho mio figlio, e tutta la
mia vita è beatitudine!”

Siddhartha allora aprì dolcemente il panno cremisi e ponendo sul piccolo capo quelle mani che
avrebbero aiutato il mondo disse: “Sia lunga la tua beatitudine! E cada leggermente su di lui il
peso della vita! Poiché tu mi hai aiutato, io che non sono un dio, ma un tuo fratello; in precedenza
un Principe ed ora un pellegrino che in questi sei duri anni ha cercato notte e giorno quella luce,
che da qualche parte splende per illuminare l’oscurità degli uomini, se essi la scoprissero!
“E io troverò quella luce! Sì, ora è albeggiata gloriosa e utile, quando la mia debole carne è
mancata e
questo puro cibo, bella sorella, l’ha rinvigorita. Cibo attinto attraverso vite per dare la vita,
mentre essa stessa passa in molte nascite verso altezze più felici, purificandosi dai peccati.
Tuttavia, trovi davvero sufficientemente dolce il solo vivere? Possono la vita e l’amore bastare?”

Rispose Sujata: “O tu, degno di adorazione! Il mio cuore è piccolo e una piccola pioggia riempirà la
coppa del lillà, seppur a malapena inumidisce il campo.
“È sufficiente per me sentire il sole della vita splendere nella grazia del mio signore e nel
sorriso del mio bambino, per creare l’amorevole primavera della nostra casa.
“Piacevoli passano i miei giorni riempiti di occupazioni domestiche; dal sorgere del sole, quando mi
sveglio e lodo gli dei, dispenso il grano, poto la pianta di tulsi e metto al lavoro le mie ancelle,
fino al mezzogiorno, quando il mio signore pone il suo capo sul mio grembo, cullato da dolci canzoni
e dall’oscillare del ventaglio; fino al tempo della cena nel quieto tramonto quando al suo fianco
servo il cibo.
“Allora le stelle accendono le loro lampade d’argento per il sonno, dopo il tempio e le
chiacchierate con gli amici.
“Come potrei non essere felice, così tanto benedetta, avendogli dato questo bambino la cui minuscola
mano condurrà la sua anima al cielo, se sarà necessario? Poiché i santi libri insegnano che se un
uomo pianta degli alberi affinché i viandanti trovino ombra e scava un pozzo per il conforto dei
contadini e dà la nascita ad un figlio, ciò sarà benefico per lui dopo la
sua morte; e ciò che i libri dicono, io umilmente credo, non essendo più saggia di quei grandi
dell’antichità che parlavano con gli dei e conoscevano gli inni e i mantra e tutte le vie della
virtù e della pace.
“Inoltre, penso che il bene debba venire dal bene e il male dal male, sicuramente, a tutti, in ogni
luogo e tempo, vedendo che il dolce frutto cresce dalle radici integre e le cose amare crescono da
quelle velenose; sì, vedendo inoltre come il rancore porti l’odio e la gentilezza amici e la
pazienza pace anche quando siamo in vita; e quando il destino vorrà la nostra morte, non dovrà
essere altrettanto buono com’è ora?
“Quanto migliore dovrà essere! Poiché un granello di riso dà origine a una verde piuma gemmata con
cinquanta perle e tutto lo stellato gelsomino bianco e oro si nasconde in quei piccoli, nudi, grigi,
germogli primaverili.
“Ah, Signore! So che ci potrebbero essere dolori la cui sopportazione farebbe disperare la pazienza
fino a farle nascondere il volto nella polvere; se questo mio bambino morisse prima di me, penso che
il mio cuore si spezzerebbe, quasi spero, che il mio cuore si spezzerebbe! Cosicché lo stringerei
morto e attenderei il mio signore, in qualunque sia il mondo in cui dimorano le mogli fedeli ed
obbedienti, nell’attesa che giunga l’ora del compagno.
“Ma se la Morte chiamasse Senani, salirei sulla pira funeraria e metterei quella cara testa sul mio
grembo, nel mio solito modo, rallegrandomi quando la torcia accendesse quella rapida fiamma, dando
l’avvio al fumo soffocante. Poiché è scritto che se una moglie indiana muore così, il suo amore darà
all’anima di suo
marito dieci milioni di anni Swarga, in cielo, per ogni capello che ha sul suo capo.
“Perciò io non temo. E perciò, santo signore, la mia vita è appagata, pur non dimenticando quelle
altre vite dolorose e povere, malvagie e miserabili, alle quali gli dei concedano misericordia! Ma
per quanto mi riguarda, qualunque cosa buona io vedo, umilmente cerco di metterla in pratica e vivo
obbediente alla legge, confidando che ciò che verrà e deve venire, verrà per il meglio.”
Allora parlò il Signore Buddha: “Tu insegni a coloro che insegnano, più saggia della saggezza, nella
tua semplice conoscenza. Sii appagata di non conoscere, conoscendo così il tuo sentiero di
rettitudine e dovere: cresci tu, fiore, con la tua gentile dolcezza all’ombra pacifica; la luce di
mezzogiorno del sole della verità non è per le foglie tenere che devono allargarsi in altri soli,
sollevando, in vite più tarde, una testa coronata verso il cielo.
“Tu che mi hai adorato, io adoro te! Cuore eccellente! Che conosce non sapendo, come la colomba che
è volata a casa seguendo soltanto il suo amore. In te si vede perché c’è speranza per l’uomo e dove
possiamo arrestare a volontà la ruota della vita. Sia con te la pace e il conforto in tutti i tuoi
giorni!
“Come tu hai realizzato la tua vita, possa io raggiungere lo scopo della mia!
“Colui che tu ritenesti Dio ti chiede di augurargli questo!”
“Possa tu raggiungerlo,” ella disse, china con occhi premurosi sul suo bambino che allungò le sue
tenere mani verso il Buddha, conoscendo, come conoscono i bambini, più di quanto stimiamo e
riverendo il nostro Signore.
Ma egli si alzò, reso forte da quel puro pasto, dirigendo i suoi passi dove cresceva un grande
albero, l’albero della Bodhi (che da allora in poi non si sarebbe più dissolto, per restare per
sempre oggetto di venerazione del mondo), sotto alle cui foglie era scritto che la Verità sarebbe
albeggiata al Buddha: e che ora il Maestro sapeva; perciò egli si avviò con passo misurato, stabile,
maestoso, verso l’Albero della Saggezza. Oh voi Mondi! Rallegratevi!

Mentre entrava nell’ampia ombra dell’albero, simile ad un porticato, con colonne di rami che si
allungavano al suolo e tetti a volta di verde scintillante, la conscia terra lo adorò con erba che
ondeggiava e un improvviso spuntare di fiori ai suoi piedi.
I rami della foresta si chinarono a fargli ombra; dal fiume emanavano freschi aliti di vento carichi
dei profumi del loto, alitati dagli dei dell’acqua.
Grandi occhi, pieni di sorpresa, delle creature del bosco, la pantera, il cinghiale e il daino, in
pace al crepuscolo, fissarono intenti il suo volto benigno dalla caverna e dal folto.
Dalla sua fredda fenditura il chiazzato e mortale serpente fece danzare le sue spire in onore del
Signore; brillanti farfalle svolazzavano agitando le loro ali azzurre, verdi e oro come a fargli da
ventaglio; il fiero falcone lasciò cadere la sua preda e lanciò il suo grido; lo scoiattolo striato
corse di ramo in ramo a vedere: l’uccello tessitore cinguettò dal suo nido oscillante; la lucertola
corse; il koil cantò il suo inno; le colombe si affollarono intorno; persino gli esseri striscianti
erano consapevoli e felici.
Voci dalla terra e dall’aria si unirono in una sola canzone che alle orecchie che udivano diceva:
“Signore ed Amico! Amante Salvatore! Tu che hai soggiogato l’ira e l’orgoglio, i desideri, le paure,
i dubbi, tu che per ciascuno e per tutti hai dato te stesso, vai all’albero! Il triste mondo ti
benedice, tu che sei il Buddha che calmerà i suoi dolori. Vai, Venerato ed Onorato! Fai il tuo
ultimo sforzo per noi, Re e grande Conquistatore! La tua ora è giunta! Questa è la Notte che le
epoche hanno atteso!”
Allora, mentre il Maestro sedeva sotto quell’Albero, cadde la notte. Ma colui che è il Principe
dell’Oscurità, Mara, sapendo che quello era il Buddha venuto a riscattare gli uomini e che quella
era l’ora in cui avrebbe dovuto scoprire la Verità e salvare i mondi, diede azione a tutti i suoi
poteri malefici.
Perciò, si affollarono da ogni profondo abisso i demoni che combattono la Saggezza e la Luce, Arati,
Trishna, Raga e la loro legione di passioni, orrori, ignoranza e lussuria.
I figli delle tenebre e del terrore; tutti odiavano il Buddha e cercavano di scuotere la sua mente;
nessuno può dire, nemmeno il più saggio, come quei demoni infernali combatterono quella notte per
tenere lontana la Verità dal Buddha: qualche volta con i terrori della tempesta, raffiche provocate
da armate di demoni che oscuravano l’aria, con tuoni e con accecanti lampi lanciati come giavellotti
di ira purpurea dai cieli che si squarciavano; talvolta con stratagemmi e parole che risuonavano
piacevoli in mezzo a foglie
sussurranti e brezze dolci, con forme di incantevole bellezza; canzoni ammalianti, sussurri d’amore;
qualche volta con tentazioni reali di offerte di comando; qualche volta con dubbi di scherno che
rendevano vana la verità.
Ma che tutto questo accadesse all’esterno e fosse visibile o che Buddha combattesse con spiriti
crudeli nei recessi del suo cuore, giudicate voi: poiché io scrivo ciò che gli antichi testi hanno
descritto.
Vennero i dieci Peccati principali, i più potenti, di Mara, gli angeli del male. Innanzitutto
Attavada, il Peccato del Sé che, nell’Universo, come in uno specchio, vede soltanto il suo volto e
gridando “io” vorrebbe che il mondo dicesse “io” e che tutte le cose periscano se questo deve
essere, affinché egli possa continuare.
“Se tu devi essere il Buddha,” disse, “che gli altri brancolino nel buio, privi di luce. È
sufficiente che tu sia immutabile; alzati e accetta la beatitudine degli dei che non cambiano; non
darti pena, non sforzarti.”
Ma Buddha disse: “Il giusto, in te è meschino, l’errore, in te è una maledizione; inganna coloro che
amano soltanto se stessi.”
Poi venne l’arido Dubbio, che tutto nega, il peccato che schernisce e questi sibilò all’orecchio del
Maestro: “Tutte le cose sono spettacoli transitori e vana è la conoscenza della loro vanità; tu non
fai altro che inseguire l’ombra di te stesso; perciò alzati e vai, non c’è modo migliore della
paziente derisione, né alcun aiuto per l’uomo, né alcun arresto di questa ruota turbinante.”
Ma citò il nostro Signore: “Tu non hai nulla a che
fare con me, falso Visikitcha, tu che sei il più sottile dei nemici dell’uomo.”
E per terza arrivò colei che dà agli oscuri credi il loro potere, Silabbat-paramasa, l’incantatrice,
meravigliosamente vestita, in molte terre adorata come fede inferiore, ma che sempre gioca con le
anime che inganna con riti e preghiere; guardiana di quelle chiavi che chiudono gli inferni e aprono
i cieli.
“Oserai,” ella disse, “mettere da parte i nostri sacri libri, spodestare i nostri dei, svuotare i
templi, scuotere quella legge che nutre i preti e sostiene i regni?”
Ma Buddha rispose: “Ciò che tu mi esorti a sostenere è la forma che passa, ma la libera Verità
rimane; ritorna nella tua oscurità.”
Poi si avvicinò fieramente un tentatore ancor più abile, Kama, il Re delle passioni, che ha dominio
sugli dei stessi, signore di tutti gli amori, sovrano del Regno del Piacere.
Arrivò ridendo all’albero, portando il suo arco d’oro inghirlandato di boccioli rossi e le sue
frecce del desiderio appuntite con cinque delicate fiamme che feriscono il cuore più acutamente
delle frecce avvelenate: e con lui giunse, in quel luogo solitario, un corteo di brillanti forme con
occhi celestiali e labbra che cantavano con graziose parole le lodi dell’Amore, con
l’accompagnamento della musica di invisibili dolci corde, così accattivanti che sembrava che la
notte fosse immobile per ascoltarle e che le stelle e la luna arrestassero le loro orbite mentre
veniva cantato al Buddha di perdute delizie, di come un uomo mortale non trova nulla di più caro,
nei tre vasti mondi, dell’arrendevole e amorevole fragrante seno della Bellezza e dei suoi rosei
boccioli, i rubini dell’amore.
Di come non potrà trovare, il tatto, nulla di più alto di quella dolce armonia di forma che si vede
nelle linee e nel fascino della grazia indicibile e che tuttavia parla, anima ad anima e fa
sussultare il sangue, adorata dalla volontà che si slancia per conseguirla, conoscendo che questo è
il cielo migliore, più vero, dove i mortali sono simili a dei, Creatori e Padroni, che questo è il
dono dei doni, sempre nuovo e per il quale si possono pagare mille pene.
Poiché chi si è angosciato quando tenere braccia l’hanno stretto al sicuro e tutta la vita si è
sciolta in un felice sospiro e tutto il mondo è stato abbandonato in un dolce bacio?
Così esse cantavano, con lieve danzare di mani che richiamavano, occhi accesi da fiamme d’amore,
sorrisi allettanti; in graziosa danza i loro flessuosi fianchi ed arti si rivelavano e si
nascondevano, come boccioli che mostrano il loro colore, ma ancora nascondono i loro cuori.
Mai così incomparabile grazia deliziò l’occhio, mentre schiere dopo schiere di queste danzatrici
della mezzanotte ondeggiavano sempre più vicine all’Albero, ognuna più bella dell’altra, mormorando:
“O grande Siddhartha! Io sono tua, assaggia la mia bocca e vedi se la gioventù non è dolce!”
E quando ancora nulla muoveva la mente del Maestro, ecco: Kama ondeggiò il suo magico arco e il
gruppo di danzatrici si aprì e la forma più bella ed altera del gruppo si mostrò nella forma della
dolce Yasodhara.
Nella tenera passione, quei dolci occhi bruni sembrarono brillare di lacrime; bramando, quelle
braccia aperte si estesero verso di lui; e musica era quel gemito con cui la magnifica ombra chiamò
il suo nome singhiozzando: “Mio Principe! Io muoio per la tua mancanza! Quale cielo hai scoperto
simile a quello che conoscevamo vicino al brillante Rohini, nella casa dei piaceri, dove in tutti
questi lunghi anni io ho pianto per te?
“Ritorna, Siddhartha! Ah, ritorna! Ma tocca ancora le mie labbra, lascia che io appoggi il mio capo
sul tuo petto una volta ancora e questi infruttuosi sogni termineranno! Ah, guarda! Non sono forse
colei che tu amasti?”
Ma Buddha disse: “Bella e falsa ombra, è vano il tuo implorare per quella tua dolce creatura; non ti
maledico, poiché rivesti una forma così cara; tuttavia, proprio come sei tu, così sono tutti gli
spettacoli terreni. Ritorna ancora nel tuo vuoto!”
Poi un grido echeggiò attraverso la foresta e tutta quella moltitudine svanì una scia di fiamme
ondeggianti e sentieri di vapori nebbiosi.
Poi, sotto i cieli che si oscuravano e nel rumore di nascente tempesta, arrivarono Peccati più
sinistri: l’ultimo tra i dieci, Patigha, l’Odio, con serpenti avvolti attorno ai fianchi che
succhiavano latte velenoso dai suoi seni pendenti e mischiavano i loro irati sibili con le sue
maledizioni.
Ma poco ella poté restare accanto a quel Santo che con i suoi calmi occhi rese mute le sue amare
labbra, mentre i suoi neri serpenti, ritraendosi, nascondevano i loro denti.
Poi venne Ruparaga, la lussuria, quel peccato
sensuale che per avidità di vita dimentica di vivere; poi venne l’avidità della fama, la più nobile
Aruparaga, il cui incantesimo affascina il saggio, madre di azioni audaci, battaglie e sforzi.
E venne l’altezzoso Mano, il demone dell’orgoglio; e Uddhachcha, la fierezza della propria
rettitudine; poi, con un mostruoso gruppo di cose vili e senza forma che strisciavano e svolazzavano
come pipistrelli, comparve l’ignoranza, la Madre della Paura e dell’Errore, Avidya, orribile strega
i cui passi rendevano la notte più buia mentre le montagne venivano scosse, i venti ululavano, le
nubi squarciate lasciavano cadere torrenti di pioggia illuminati dalla saetta, le stelle cadevano
dai cieli, la solida terra tremava come se tra le sue ferite fossero state accese le fiamme.
L’aria annerita era piena di ali sibilanti, di grida e urla, di volti maligni che spiavano, di vasti
profili terribili e maestosi, signori dell’inferno che da mille limbi guidavano le loro truppe a
tentare il Maestro.
Ma Buddha non prestò attenzione, sedendo sereno, con perfetta virtù a protezione, simile a una
fortezza, con cancelli e bastioni.
Persino il sacro Albero, l’Albero della Bodhi, in mezzo a quel tumulto non si mosse, ma ciascuna
foglia scintillava immobile come quando, nelle sere di luna piena, nessuna brezza fa cadere le
brillanti gemme di rugiada; poiché tutto questo clamore infuriava all’esterno dell’ombra diffusa da
quei rami intrecciati a forma di chiostro.

Alla terza veglia, mentre la terra era tranquilla, le legioni infernali fuggirono e, mentre la luna
calante
alitava una dolce brezza, il nostro Signore conseguì Samma-sambuddh.
Per mezzo di quella luce che risplende al di là del mondo mortale, egli vide la lunga fila di tutte
le sue vite in tutti i mondi, lontano, più lontano e ancora più lontano, cinquecentocinquanta vite.
Come colui che riposando sulla cima di una montagna osserva il suo sentiero che si snoda a fianco di
precipizi e burroni, passando attraverso fitti boschi ridotti ad una macchia; attraverso paludi che
brillano di un falso verde; giù nelle cavità dove s’affannò senza respiro; su vertiginosi strapiombi
dove i suoi piedi scivolarono; al di là dei prati assolati, la cascata, la caverna e la pozza
d’acqua, al di là di quelle pianure oscure da dove balzò a raggiungere il cielo blu.
Così Buddha scorse gli scalini della vita che si innalzavano, collegati l’uno all’altro da livelli
inferiori dove il respiro è meschino, fino alle più alte pendici dove le dieci grandi Virtù
attendono per condurre l’arrampicatore verso il cielo.
Inoltre, Buddha vide come la nuova vita raccoglie ciò che la vecchia vita ha seminato; come dove
s’interrompe la sua marcia quella nuova ricomincia, trattenendo il guadagno e rispondendo della
perdita; e come in ciascuna vita il bene produce ulteriore bene, il male un nuovo male.
La morte segna il debito e il credito, cosicché il conto di meriti o demeriti vengono registrati con
sicuri conti aritmetici, dove nulla è lasciato cadere, certo e giusto, e si ritrova in ogni nuova
vita; per la quale si trovano riuniti e calcolati i passati pensieri e le passate azioni, gli sforzi
e i trionfi, le memorie e i segni di vite
dimenticate.
Nella veglia mediana, il nostro Signore conseguì Abhidjna: vasta conoscenza che si erge al di là di
questa sfera, fino a regioni senza nome, sistema dopo sistema, in innumerevoli mondi e soli che si
muovono in spazi splendidi, raggruppati nella loro divisione, una sola cosa e tuttavia separati,
isole d’argento in un mare di zaffiro senza rive, inscandagliabile, senza limiti, percorso da onde
che si srotolano in irrequieti cavalloni di mutamento.
Egli vide quei Signori della Luce che vincolano a sé i loro mondi per mezzo di legami invisibili e
come essi stessi girano obbedienti attorno ad orbite più potenti, che servono splendori più
profondi, mentre da stella a stella lampeggia l’incessante splendore della vita, da centri che
continuamente si muovono in cerchi che non conoscono limite.
Di tutti quei mondi, ciclo dopo ciclo, egli scorse con visione priva di sigilli tutta la storia di
kalpa e mahakalpa, termini di tempo che nessun uomo afferra, anche se sa contare le gocce del Gange
dalla sua sorgente al mare.
Il modo in cui essi nascono e muoiono; come ciascuno, in questa schiera celeste, realizza la sua
splendente vita e muore in modo oscuro; tutto ciò per cui la parola non trova misure, sakwal dopo
sakwal, egli attraversò profondità e altezze trasportato nell’infinito blu.
E dietro ad ogni modalità di espressione, al di sopra di tutte le sfere, al di là del bruciante
impulso di ogni orbita, egli scorse quel fermo decreto che, lavorando silenziosamente, ordina
l’evoluzione del buio
verso la luce, della morte verso la vita, del vuoto verso la pienezza, per formare ciò che non ha
ancora forma, l’evoluzione del bene verso il meglio e del meglio verso il migliore, con un editto
senza parole; dove non c’è nessuno ad ordinare, nessuno a proibire, poiché questo è al di sopra di
tutti gli dei, immutabile, indicibile, supremo; un Potere che costruisce, distrugge e costruisce
ancora, governando tutte le cose secondo la regola della virtù che è bellezza, verità ed evoluzione.
Cosicché tutte le cose fanno il bene quando servono il Potere e il male quando lo ostacolano; il
verme segue il bene obbedendo alla natura della sua specie; il falco segue anch’egli la sua natura
quando trasporta prede sanguinanti ai suoi piccoli; la goccia di rugiada e la stella splendono
fraternamente, assumendo forma di globo, nel lavoro comune; e l’uomo, che vive per morire, muore per
vivere bene se guida i suoi passi in modo impeccabile, con la ferma volontà di non ostacolare, ma di
aiutare tutte le cose grandi e piccole che sopportano le pene della vita. Questo vide il Buddha
nella veglia mediana.
Ma quando venne la quarta veglia arrivò il Segreto del Dolore, che con il male ostacola la legge,
come il metallo e le scorie ostacolano il fuoco dell’orefice.
Allora il dukha-satya, la verità del dolore, la prima delle “Nobili Verità” gli si aprì; vide come
il Dolore è l’ombra della vita e si sposta con essa.
Non potrà essere messo da parte fino a che uno non metterà da parte il vivere, con tutti i suoi
stati mutevoli, la nascita, la crescita, il decadimento, l’amore, l’odio, il piacere, il dolore,
l’esistere e il fare.
Vide come nessuno può evitare queste tristi delizie e piacevoli angosce se manca di quella
conoscenza che gli permette di conoscere le loro trappole; ma colui che conosce avidya – l’illusione
– scioglie quei lacci, non ama più la vita, ma insegue la liberazione.
Gli occhi di costui sono spalancati; egli vede che l’Illusione nutre Sankhara, la Tendenza Perversa:
Vidnnan – l’Energia delle Tendenze – dalle quali viene Namarupa, forma, nome e incarnazione,
mettendo l’uomo con i sensi nudi di fronte al sensibile, specchio impotente di tutti gli spettacoli
che attraversano il suo cuore; e così cresce Vedana – il senso della vita – falso nella sua
contentezza, crudele nella tristezza, infelice o contento, la Madre del Desiderio, Trishna, quella
sete che fa sì che il vivente si abbeveri sempre più profondamente nelle false onde saline dove
fluttuano i piaceri, le ambizioni, la ricchezza, la gloria, la fama o la dominazione, la conquista,
l’amore; ricchi cibi e sontuose vesti, magnifiche dimore e l’orgoglio di antiche dinastie; giorni
lussuriosi e intensa aspirazione alla vita e i peccati che fluiscono da essa, alcuni dolci, alcuni
amari.
Così la sete della vita viene calmata con bevande che raddoppiano questa sete; ma colui che è saggio
strappa dalla sua anima questo Trishna, non nutre più i sensi di falsi spettacoli, impegna la sua
ferma mente a non cercare, a non sforzarsi, a non cadere nell’errore, sopportando docilmente tutti i
mali che fluiscono da errori di un lontano passato e frena le passioni, cosicché esse muoiono per
mancato nutrimento.
Cosicché tutta la somma della vita, il Karma – tutto quell’insieme di un’anima che consiste delle
cose che fece, dei pensieri che ebbe, il “sé”, che fu tessuto con
collane di invisibile tempo, tessuto nell’ordito non scrutabile degli atti – non diventi puro e
senza peccati; cosicché non abbia mai più bisogno di trovare un corpo e un luogo o che la nuova
esistenza trovi il fardello sempre più leggero, per diventare inesistente e così “terminare il
Sentiero”.
Libero dagli inganni terreni, sciolto dalle armature della carne; spezzati i legami – gli Upandanas-
salvato dal vorticoso girare della ruota; risvegliato e sano come un uomo uscito da odiosi sogni;
finché – più grande dei Re, più felice degli dei! – termina la folle agonia del vivere e la vita
scorre, al di là della vita in una quiete senza nome, in una gioia senza nome, nel beato Nirvana –
al di là dei peccati, nel perfetto riposo – in quel cambiamento che non cambia mai!
Ecco! L’alba si levò con la vittoria di Buddha! Ecco! All’Oriente fiammeggiarono i primi fuochi di
un magnifico giorno che si riversano attraverso le fuggevoli pieghe del nero mantello della Notte.
In alto, nel vasto blu, la stella del mattino sbiadiva in un pallido argento, mentre si levavano
sempre più brillanti strisce di un chiarore rosato.
In lontananza, le colline in ombra videro il Grande Sole e prima che il mondo ne fosse consapevole,
le loro creste si rivestirono di cremisi; i fiori, uno dopo l’altro, cominciarono a sentire il caldo
alito del mattino e ancora dischiusero i loro teneri petali.
Sull’erba lucente si allungava a rapidi passi la graziosa Luce, volgendo le lacrime della Notte in
gioiose gemme, decorando la terra di splendore, ricamando le nuvole di tempesta con un orlo dorato
mentre svanivano; rilucendo come oro sulle palme che ondeggiavano in felice saluto; scoccando raggi
d’oro nelle radure; toccando con magica bacchetta il fiume, traendone riflessi color rubino;
trovando nella macchia i dolci occhi delle antilopi, dicendo loro: “È giorno”; toccando, nei nidi,
le piccole teste coperte da molte ali e sussurrando loro: “Figli, lodate la luce del giorno!”
Al che, tutti gli uccelli cinguettarono le loro canzoni! La canzone flautata del koil, l’inno del
bulbul, il “mattino” del tordo, il cinguettio dell’uccello-sole che si slanciava a trovare il miele
mentre le api erano fuori, il gracchiare del corvo grigio, l’urlo del pappagallo, i colpi del
picchio verde, il trillo del myna, i discorsi d’amore senza fine delle colombe: sì! Così santa era
l’influenza di quella elevata alba in cui giunse la vittoria che, lontano e vicino, nelle case degli
uomini si sparse una pace sconosciuta.
L’assassino nascose il suo coltello; il rapinatore abbandonò la sua preda; l’usuraio tralasciò il
suo interesse; tutti i cuori malvagi diventarono gentili, i cuori gentili ancor più puri, mentre il
balsamo di quel divino albeggiare illuminava la Terra.
I Re impegnati in crudeli guerre annunciarono una tregua; gli uomini ammalati si alzarono ridendo
dai loro letti di dolore; il morente sorrise come se sapesse che quel Felice Mattino era sgorgato da
fontane più lontane del lontano Oriente; e nel cuore della triste Yasodhara, che sedeva sconsolata
sul letto del Principe Siddhartha, venne improvvisa la beatitudine, come se l’amore non potesse
fallire, né il dolore mancare di terminare nella gioia.
Il Mondo era così contento – sebbene non sapesse perché – che negli aridi deserti risuonarono
canzoni di gioia, la voce dei Preta e dei Bhuta (spiriti e fantasmi) senza corpo che annunciavano il
Buddha; e i Deva, gli dei, nell’aria, gridavano: “È finito, è finito!”
E i preti stettero con il popolo meravigliato nelle strade ad osservare quegli splendori dorati che
inondavano il cielo, dicendo: “Dev’essere accaduto qualcosa di grandioso.”
Persino nella giungla, quel giorno, crebbe l’amicizia tra le creature: il daino maculato pascolava
senza timore dove la tigre nutriva i suoi cuccioli e il chitah, il leopardo, lambiva lo stagno al
fianco del cervo; sotto la roccia dell’aquila scorrazzavano le lepri brune, mentre il suo crudele
becco riposava sotto un’ala oziosa; il serpente riscaldava i suoi gioielli al raggio del sole con le
mortali spire ritirate; il falcone lasciava passare il fringuello; gli alcioni di smeraldo sedevano
sognanti mentre i pesci giocavano al di sotto; il merlo non sfrecciava più, sebbene le farfalle –
cremisi, blu e ambra – svolazzassero numerose attorno al suo ramo.
Lo Spirito del Buddha si distendeva potente sull’uomo, sull’uccello e sulla bestia, anche mentre
egli meditava sotto quell’albero della Bodhi, glorificato dalla Conquista guadagnata per tutti e
illuminato da una Luce più grande di quella del Giorno.
Poi egli si alzò – radioso, beato, forte – al di sotto dell’Albero e levando alta la sua voce parlò
così, affinché tutti i Tempi e tutti i Mondi udissero:

Anekajatisangsarang
Sandhawissang anibhisang
Gahakarakangawesanto
Dukkajatipunappunang
Gahakarakadithosi;
Punagehang nakahasi;
Sabhatephasukhabhagga,
Gahakutangwisang khitang;
Wisangkharagatang chittang;
Janhanangkhayamajhaga.

MOLTE CASE DI VITA MI TRATTENNERO, MENTRE SEMPRE HO CERCATO COLUI CHE CREO QUESTE PRIGIONI DEI
SENSI, PIENE DI DOLORE; SOFFERENTE FU IL MIO INCESSANTE SFORZO!
MA ORA, COSTRUTTORE DI QUESTO TABERNACOLO, – TU! – TI CONOSCO! NON COSTRUIRAI MAI PIÙ QUESTE MURA DI
DOLORE, NE RIALZERAI IL TETTO E L’ALBERO DEGLI INGANNI, NE POSERAI NUOVE TRAVI SULL’ARGILLA; È
CROLLATA LA TUA CASA E L’ARCHITRAVE È SPEZZATA!
ERA STATA FORMATA NELL’ILLUSIONE! SICURO M’INCAMMINO OLTRE, PER OTTENERE IL RISCATTO.

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