BUDDHA, LA LUCE DELL’ASIA – 2

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BUDDHA, LA LUCE DELL’ASIA – 2

SIR EDWIN ARNOLD
EDIZIONI IL PUNTO D’INCONTRO

Libro Terzo

Così nella serena dimora dell’amore e di una esistenza felice, Buddha trascorreva la sua vita non
conoscendo la tristezza, il bisogno, il dolore, le piaghe, la vecchiaia, la morte, se non come
quando i dormienti navigano nei mari dei loro sogni e approdano stanchi sulle spiagge del giorno,
portando con sé strane mercanzie da quell’oscuro viaggio.
Così, alle volte, quando giaceva con il gentile capo posato sul petto di Yasodhara, mentre le sue
mani accarezzavano lente le sue ciglia dormienti, egli sussultava all’improvviso e gridava: “Il mio
mondo! Oh, mondo! Ho sentito! So! Vengo!”
Allora ella, coi grandi occhi in preda al terrore, chiedeva: “Che cosa tormenta il mio signore?”
Poiché alle volte la compassione nel suo sguardo era senza limite e il suo viso era come quello di
un dio.
Allora egli nuovamente sorrideva per calmare le sue lacrime e faceva suonare la vina; ma un giorno
misero sulla soglia uno strumento a corde su cui il vento
poteva attardarsi, suonando a volontà le sue note. Strana musica suona il vento su corde d’argento e
i presenti udirono soltanto questo. Ma il Principe Siddhartha udì il suono degli dei e al suo
orecchio essi cantarono parole di questo genere:

Noi siamo le voci del vento che vaga, che anelano al riposo ed il riposo non possono mai trovare;
come il vento è la vita mortale, un lamento, un singhiozzo, un sospiro, una tempesta, una battaglia.

Dove andiamo e da dove veniamo non possiamo sapere, né da dove ha origine la vita, né dove la vita
se ne va; noi siamo come voi, fantasmi del vacuo; quale piacere ricaviamo dai nostri mutevoli
dolori?

Quale piacere ricavi dalla tua costante beatitudine? Se l’amore durasse, in questo vi sarebbe gioia;
ma il sentiero della vita è come quello del vento, tutte queste cose non sono altro che brevi voci
suonate su corde mutevoli.

O figlio di Maya! Poiché ci aggiriamo per la terra ci lamentiamo su queste corde; noi non siamo
allegri, poiché tanti dolori vediamo in molte terre, così tanti occhi che piangono e mani che si
contorcono.

Eppure mentre esprimiamo il nostro lamento, così li scherniamo, poiché essi dovrebbero conoscere che
questa vita a cui si aggrappano è soltanto uno spettacolo vuoto; ed è come se si volesse arrestare
una nuvola o trattenere un fiume impetuoso con la mano.

Ma tu che sei destinato ad essere il salvatore, la tua ora è vicina! Il triste mondo attende nella
sua miseria, il cieco mondo inciampa nel suo giro di dolore; alzati figlio di Maya! Risvegliati! Non
assopirti più!

Noi siamo le voci del vento itinerante: vaga anche tu, o Principe, per trovare il tuo riposo; lascia
l’amore per l’amore degli amanti, per amore dei sofferenti abbandona la tua condizione e riscattali
dal dolore.

Questo è il nostro sospiro, mentre attraversiamo le corde d’argento, per te che ancora non conosci
le cose terrene, così parliamo, schernendo, mentre ci allontaniamo, queste graziose ombre con le
quali stai giocando.

Poi accadde che egli sedette al crepuscolo in mezzo alla sua magnifica corte, tenendo per mano la
dolce Yasodhara e una fanciulla narrò un’antica storia per trascorrere l’ora in cui il sole
tramonta, alternando intrecci musicali quando la sua bella voce si affievoliva.
Era una storia d’amore, di un cavallo magico e di terre meravigliose e lontane dove dimoravano
popoli dal volto pallido e dove il sole, alla notte, sprofonda nei mari.
Allora egli parlò sospirando: “Con questa bella storia, Chitra mi riporta alla mente la canzone del
vento che sussurrava tra le corde d’argento. Yasodhara, dalle la tua perla come ringraziamento. Ma
tu, perla mia! C’è davvero un mondo così vasto? C’è una terra che vede il grande sole sprofondare
nelle onde e vi sono cuori come i nostri, innumerevoli, sconosciuti,
non felici forse, che potremmo soccorrere se li conoscessimo?
“A volte mi chiedo meravigliato, mentre il signore del giorno percorre dall’Oriente la sua reale
strada dorata, chi siano i figli del mattino che per primi, sull’orlo del mondo, hanno salutato il
suo raggio. Spesso, persino nelle tue braccia e sul tuo petto, splendida moglie, ho intensamente
anelato, al declino del sole, di seguirlo in quel rossastro Occidente e vedere i popoli della sera.
Ce ne devono essere molti che dovremmo amare, come può essere altrimenti?
“In quest’ora m’invade un dolore che le tue tenere labbra non possono scacciare: o fanciulla! O
Chitra! Tu che conosci le terre dei sogni! Dov’è nascosto il veloce destriero del racconto?
“Il mio regno per un giorno sul suo dorso, per poter a lungo cavalcare e vedere la vastità della
terra! Anzi, se avessi le piume di quell’avvoltoio, quell’erede di regni più vasti del mio, come
volerei sulla più alta vetta himalayana, dove lo scintillio rosato della luce si attarda su quelle
nevi! Come forzerei il mio sguardo alla ricerca di ciò che è attorno! Perché non ho mai visto e non
ho mai cercato? Dimmi che cosa si estende al di là dei nostri portali di bronzo!”
Allora qualcuno rispose: “Innanzitutto la città, bel Principe! I templi e i giardini, i boschetti e
poi i campi e poi nuovi campi e poi la giungla e poi il regno del Re Bimbasara e poi il vasto e
piatto mondo con centinaia di milioni di persone.”
“Bene,” disse Siddhartha, “sia dato ordine che Channa prepari il mio cocchio. A mezzogiorno di
domani uscirò a vedere.”
Allora raccontarono al Re: “Nostro signore, tuo figlio vuole che il suo cocchio sia preparato a
mezzogiorno, affinché egli possa viaggiarvi per vedere la razza umana.”
“Sì!” disse l’attento Re, “è tempo che egli veda! Ma che gli araldi vadano innanzitutto ad
annunciare, da ogni parte, che la mia città si prepari, cosicché egli non incontri nulla di
sgradevole, che nessun cieco o menomato, che nessun ammalato, né alcuno piegato dall’età, nessun
lebbroso e nessun infermo esca.”
Perciò le pietre furono spazzate e i portatori d’acqua lavarono tutte le strade; le donne sparsero
fresco kumkum, la rossa polvere sacra di buon augurio, sulle soglie delle loro case, infilarono
ghirlande di fiori freschi e potarono i sacri cespugli di tulsi di fronte alle loro porte. Le
pitture sui muri furono rinfrescate con abbondanti pennellate, gli alberi riempiti di stendardi, le
statue delle divinità indorate; in tutte le direzioni, Suryadeva e i grandi dei risplendevano in
mezzo ad altari di foglie, cosicché la città sembrava la capitale di qualche terra incantata.
I banditori passavano con tamburi e gong, proclamando sonoramente: “Ascoltino tutti i cittadini, il
Re comanda che oggi non si veda nulla di spiacevole, che nessun cieco, nessun menomato, nessuno che
sia ammalato o piegato dall’età, nessun lebbroso e nessun infermo esca. E che nessuno metta i suoi
morti sulla pira funeraria, né li porti fuori fino a che non sia caduta la notte. Così comanda
Suddhodana.”
Così tutto era bello e le case decorate in tutta Kapilavastu, mentre il Principe usciva sul cocchio
dipinto, trainato da due buoi bianchi come la neve, con
le enormi gobbe appoggiate contro il giogo intarsiato e laccato.
Era bello vedere la gioia della gente che salutava il suo Principe e sempre più felice era
Siddhartha alla vista di tutti quei sudditi fedeli ed amichevoli, vestiti sfarzosamente e sorridenti
alla vita.
“È bello il mondo,” egli disse, “mi piace! Sereni e gentili sono questi uomini che non sono Re e
dolci sono le mie sorelle che faticano e si occupano dei figli; che cosa ho fatto per loro e per
renderli così? Se io li amo, quei bambini dovrebbero saperlo? Vi prego fate salire quel grazioso
fanciullo sakya che ci lancia dei fiori e lasciatelo procedere con me sul mio cocchio. Com’è bello
regnare su reami come questo! Com’è semplice il piacere, se tutti sono compiaciuti per il solo fatto
che sono uscito! Di quante cose non ho bisogno se cose così piccole sono sufficienti a rendere la
nostra città piena di sorrisi! Vai avanti, Channa! Oltrepassa i cancelli e lasciami vedere di più di
questo grazioso mondo che non ho mai conosciuto.”
Così attraversarono i cancelli in mezzo ad una folla gioiosa che si accalcava tra le ruote, mentre
qualcuno correva davanti ai buoi lanciando ghirlande ed altri accarezzavano i loro fianchi di seta;
qualcuno portò per loro riso e dolci e tutti gridavano: “Gloria! Gloria al nostro nobile Principe!”
E tutti i sentieri avevano un aspetto allegro e pieno di bellezza, poiché così era stata la parola
del Re.
Ma all’improvviso, in mezzo alla strada, uscendo barcollando da un tugurio dov’era rimasto nascosto,
si trascinava un miserabile, vestito di stracci, dall’aria smarrita e repellente, un uomo molto
vecchio, la cui
pelle raggrinzita, bruciata dal sole, pendeva dalle ossa scarne, come dal fianco di una bestia. La
sua schiena era incurvata dal peso di molti anni, le cavità dei suoi occhi arrossate dalla ruggine
di antiche lacrime, le sue pupille offuscate dalla cataratta, le sue mascelle senza denti si
contorcevano per il tremito e l’angoscia nel vedere così tanta gente e tanta gioia.
Una mano scarna era aggrappata ad un bastone consunto per aiutare i suoi arti vacillanti ed un’altra
premeva sul petto, da dove veniva ansante il pesante e doloroso respiro. “Fate la carità!” egli
gemeva, “Date, buona gente! Poiché morirò domani o il giorno dopo!”
Poi la tosse lo strozzava, ma ancora allungava la mano battendo le palpebre e gemendo tra i suoi
spasimi: “Fate la carità!”
Allora coloro che gli erano vicini gli diedero uno strattone facendolo vacillare sui suoi instabili
piedi e lo allontanarono dalla strada dicendo: “È il Principe! Non vedi? Torna al tuo covo!”
Ma Siddhartha gridò: “Lasciatelo! Lasciatelo! Channa! Che cos’è questo essere, che sembra uomo e
tuttavia sicuramente lo sembra soltanto, essendo così ricurvo, così misero, così orribile, così
triste? Gli uomini nascono forse così qualche volta? Che cosa intendeva quando gemeva: ‘Domani o il
giorno dopo morirò?’ Non trova forse cibo, poiché le sue ossa spuntano così? Quale calamità si è
abbattuta a questo miserabile?”
Allora rispose il cocchiere: “Dolce Principe! Questo non è null’altri che un uomo anziano.
Ottant’anni fa la sua schiena era dritta, i suoi occhi brillanti ed il suo corpo di bell’aspetto:
ora i furtivi anni hanno risucchiato la sua linfa e la sua forza e piegato la sua volontà e il suo
ingegno. La sua lampada ha perduto il suo olio, lo stoppino si è annerito. La vita che ancora
mantiene è soltanto una povera scintilla che si attarda tremolante, pronta alla fine: tale è la
vecchiaia. Perché Vostra Altezza se ne rattrista?”
Allora il Principe chiese:
“Ma questo accadrà anche ad altri, o a tutti, o è raro che uno diventi così?”
“Nobile Principe,” rispose Channa, “come lui diverranno anche tutti questi, se vivranno così a
lungo.”
“Ma,” disse il Principe, “anch’io, se vivrò così a lungo, sarò così? E se Yasodhara vivrà
ottant’anni, anche lei troverà la vecchiaia, anche Jalini, la piccola Hasta, Gautami, Ganga e le
altre?”
“Sì, grande signore!” rispose il cocchiere.
Allora il Principe disse: “Torniamo indietro e riportami alla mia casa! Ho visto ciò che non pensavo
di vedere!”

Riflettendo su questo, Siddhartha ritornò malinconico nella sua bella corte, triste nell’aspetto e
nello stato d’animo. Non toccò i candidi dolci né i frutti che gli furono offerti alla festa della
sera; nemmeno una volta guardò le migliori danzatrici del palazzo che si sforzavano di incantarlo.
Non parlò per tutta la sera, se non quando Yasodhara afflitta cadde ai suoi piedi piangendo e
singhiozzando: “Non trova dunque il mio signore conforto in me?”
E allora disse tristemente: “Ah, mia cara! Trovo in te un tale conforto che la mia anima è lacerata,
pensando che ciò terminerà, poiché dovrà terminare ed entrambi diventeremo vecchi, Yasodhara! Privi
d’amore, non amati, deboli, vecchi e piegati. Anzi, pur avendo imprigionato l’amore e la vita con
labbra così strette e così vicine che la notte e il giorno e i nostri respiri sono diventati una
sola cosa, il tempo riuscirà ad intromettersi tra noi, per portar via la mia passione e la tua
grazia, così come la nera notte ruba quei picchi, nel roseo bagliore che invisibilmente svanisce nel
grigio.
“Ho scoperto questo e tutto il mio cuore è rabbuiato da questa minaccia, è occupato nel riflettere
su come l’amore potrà salvare la sua dolcezza dall’uccisore, il tempo, che rende vecchi gli uomini.”
Così, per tutta la notte egli sedette insonne, senza poter trovare conforto. E per tutta quella
notte il Re Suddhodana ebbe degli incubi. La prima visione ad incutergli paura fu quella di una
grande bandiera, gloriosa, che scintillava al riflesso dorato del sole, il marchio di Indra, il Re
degli dei. Ma si levò un forte vento, che la lacerò e la gettò nella polvere.
Poi, sopraggiunse una schiera di ombre che prese la seta macchiata e caduta e la portò verso
Oriente, attraverso i portali della città.
La paura sorse una seconda volta quando dieci enormi elefanti, con zanne d’argento e zampe che
scuotevano la terra, calpestarono la via che porta a sud procedendo con marcia possente; e colui che
sedeva sull’animale più illustre era il figlio del Re, mentre gli altri lo seguivano.
La terza paurosa visione fu un cocchio che risplendeva di luce accecante, tirato da quattro
destrieri che esalavano fumo bianco e masticavano schiuma infuocata; e nel cocchio sedeva il
Principe Siddhartha.
La quarta paura fu provocata da una ruota che continuava a girare, con il mozzo d’oro scintillante e
i raggi ingioiellati. Strane cose erano scritte sul cerchio esterno che, mentre girava, sembrava sia
fuoco che musica.
La quinta paura venne con un potente tamburo posto a metà strada tra la città e le colline, su cui
il Principe batteva con una mazza di ferro, cosicché il suono sembrava quello del tuono che rullava
nel cielo lontano.
La sesta paura venne nella forma di una torre che si alzava sempre più alta al di sopra della città,
finché la sua sommità maestosa risplendeva coronata dalle nubi e sulla cima si ergeva il Principe
che spargeva con entrambe le mani, da questa e da quella parte, gemme dalla luce meravigliosa, come
se piovessero giacinti e rubini e venne l’intero mondo a sforzarsi di afferrare quei tesori, mentre
cadevano nelle quattro direzioni.
Ma la settima paura si avvicinò con il suono di un lamento ed il Re scorse sei uomini che piangevano
e digrignavano i denti, premendosi le mani sulla bocca e camminando sconsolati.
Queste sette paure riempirono i suoi sogni, ma nessuno fra tutti i suoi più saggi interpreti poté
decifrarne il significato.
Allora il Re adirato disse: “Sulla mia casa giunge la sventura e nessuno di voi ha l’abilita di
aiutarmi a conoscere ciò che le grandi divinità annunciano, inviandomi questi messaggi.”
Così, nella città, gli uomini erano addolorati, perché il Re aveva sognato sette segni di paura che
nessuno poteva interpretare. Ma ai cancelli della città giunse un anziano vestito di pelle di daino
dall’aspetto di eremita, sconosciuto a tutti. Egli gridò: “Portatemi di fronte al Re, poiché sono in
grado di interpretare la visione che ha disturbato il suo sonno.”
Quando gli furono narrati i sette misteri del sogno di mezzanotte, egli s’inchinò reverente e disse:
“O Maharaj! Rendo omaggio a questa dinastia favorita dagli dei, da dove sorgerà uno splendore che
offuscherà quello del sole! Queste sette paure sono sette gioie, di cui la prima, nella quale
vedesti uno stendardo vasto e glorioso, adornato dall’emblema di Indra, abbattuto e trascinato
fuori, significa la fine delle vecchie fedi e l’inizio di una nuova, poiché c’è cambiamento tra gli
dei non meno che tra gli uomini e come passano i giorni così passano anche i kalpa, le ere.
I dieci grandi elefanti che scossero la terra indicano i dieci grandi doni della saggezza, con la
cui forza il Principe lascerà il suo stato e scuoterà il mondo con il passaggio della Verità.
I quattro cavalli del cocchio che alitavano fiamme sono quelle quattro indomite virtù che porteranno
tuo figlio, dal dubbio e dalla malinconia, alla più felice luce.
La ruota che girava con il mozzo d’oro scintillante era quella preziosa ruota della legge perfetta
che girerà alla vista di tutto il mondo.
Il potente tamburo su cui batté il Principe, cosicché il suono riempì tutte le terre, significa il
tuonare della predicazione della Parola che egli annuncerà.
La torre che toccava il cielo rappresenta la crescita del vangelo di questo Buddha e quei rari
gioielli
sparsi in ogni direzione sono gli inenarrabili tesori di quella buona legge, desiderabile e cara
agli dei ed agli uomini. Tale è l’interpretazione della torre.
Per quanto concerne quei sei uomini piangenti, con le bocche serrate, essi sono i sei principali
insegnanti che tuo figlio convincerà della loro sciocchezza per mezzo della brillante verità e di un
linguaggio che non può essere contestato.
O Re! Rallegrati, la fortuna del mio signore, il Principe, è più grande di quella di interi regni e
i suoi stracci da eremita saranno superiori a vesti d’oro.
Questo fu il tuo sogno! E queste cose accadranno nel giro di sette notti e sette giorni.”
Così parlò il sant’uomo, facendo le otto prostrazioni e toccando tre volte terra, poi si volse e se
ne andò.
Ma quando il Re ordinò di raggiungerlo con ricchi doni, i messaggeri dissero: “Siamo entrati dove
lui era entrato, in un tempio dedicato a Chandra, ma all’interno non c’era nessuno, se non un grigio
gufo che svolazzò dal santuario.” Qualche volta gli dei vengono così.
Ma il Re, triste e meravigliato, ordinò che nuove delizie venissero escogitate per incantare il
cuore di Siddhartha, tra quelle danzatrici del suo palazzo di piacere e inoltre raddoppiò la guardia
a tutti i portali di bronzo. Ma chi potrà mai chiudere le porte al destino?

Ancora una volta si risvegliò nel Principe il desiderio di vedere il mondo che è al di là dei suoi
portali, questa vita d’uomo, così piacevole se le sue onde non corressero ad esaurirsi tristemente
sulle sabbie asciutte del tempo.
“Vi prego di lasciarmi vedere la nostra città così com’è.” Tale fu la sua preghiera al Re
Suddhodana.
“Vostra maestà, nel suo affetto per me, aveva avvertito il popolo, in precedenza, di nascondere
tutte le cose brutte ed ogni male, di mostrare volti allegri per rendermi felice e che tutto avesse
un aspetto gioioso; tuttavia ho appreso che questa non è la vita quotidiana. E se sono colui che è
più vicino a voi ed al regno, allora vorrei conoscere la gente e le strade, i loro semplici usi
comuni, il lavoro giornaliero e le vite di quegli uomini che non sono Re.
“Permettetemi, caro padre, di andare in incognito al di là dei miei felici giardini, ritornerò
ancora più felicemente alla loro pace, o se non più appagato, padre, almeno più saggio. Perciò, vi
prego, lasciatemi andare liberamente per le strade, domani, coi miei servi.”
E il Re, ai suoi ministri, disse: “Sembra che questo secondo volo possa riparare ai danni del primo.
Notate come il falcone sussulta ad ogni nuova visione del suo cappuccio, ma com’è quieto l’occhio
che ha trovato la libertà; che mio figlio veda tutto e che mi siano portate notizie riguardo a ciò
che pensa.”
Così l’indomani, quando il sole era già alto, il Principe e Channa attraversarono i cancelli che si
aprirono vedendo il sigillo del Re. Tuttavia, coloro che fecero scorrere sui loro cardini le grandi
porte non sapevano che nella veste di mercante si celava il figlio del Re e in quelle di contabile
il suo cocchiere.
Così essi si allontanarono per la comune via a piedi, mischiandosi con tutti i cittadini sakya e
cercando le cose felici e tristi della città: le colorite strade
ravvivate dal trambusto del mezzogiorno, i commercianti seduti a gambe incrociate tra le loro spezie
e le loro granaglie, gli acquirenti col denaro nella borsa, la guerra di parole per abbassare il
prezzo di questo o di quello, le grida per liberare la via, le enormi ruote di pietra, i forti e
lenti buoi e i loro carichi di pietre, i portatori cantilenanti coi loro palanchini, le donne che si
recavano ad attingere l’acqua al pozzo, con le anfore in equilibrio sulla testa e coi bimbi dagli
occhi neri aggrappati al fianco.
Videro i negozi di dolci con sciami di mosche, il tessitore al suo telaio con il cotone che vibrava,
le macine che macinavano il grano, i cani che raspavano alla ricerca di cibo, l’esperto armiere che
con tenaglie e martello legava gli anelli dell’armatura, il fabbro che arroventava, assieme, nei
suoi carboni, la zappa del contadino e la lancia del guerriero, la scuola dove seduti a mezzaluna
attorno al loro Guru, al loro maestro, i bambini sakya cantavano i mantra e imparavano a conoscere
gli dei superiori ed inferiori.
Osservarono i tintori che stendevano stoffe ad asciugarsi al sole, impregnate di sfumature
arancioni, rosa e verdi; i soldati che sfilavano con spade e scudi, i cavalieri dei cammelli che
ondeggiavano sulle loro groppe, l’orgoglioso bramino, il marziale kshatrya, l’umile sudra che
fatica.
Qui, una folla si riuniva a guardare qualche incantatore di serpenti che attorno ai suoi polsi aveva
la vivente gioielleria di aspidi e serpenti o affascinava la morte a spire costringendola a irate
danze al suono dei suoi strumenti; là, una lunga parata di tamburi e corni, i cui suonatori
procedevano insieme a colorati
destrieri e ad ombrelli di seta che portavano a casa la giovane sposa.
Qui, una moglie che si affrettava con dolci e ghirlande dalla divinità, per pregare affinché suo
marito ritornasse salvo dai suoi commerci, oppure per invocare la nascita di un bambino; vicino alle
loro bancarelle i vasai battevano l’ottone per le lampade e i recipienti; di là, il Principe e
Channa si diressero verso le mura del tempio e ai cancelli, fino al fiume e al ponte che era sotto
le mura della città.
Avevano appena superato questo, quando dal ciglio della strada si levò una voce gemente: “Aiuto,
padroni! Aiutatemi a rimettermi in piedi; oh, aiutatemi! Altrimenti morirò prima di raggiungere la
mia casa!”
Era un pover’uomo affranto, la cui forma tremante, colpita da qualche piaga mortale, giaceva nella
polvere contorcendosi, con pustole sanguinanti e purulente; gocce di sudore freddo bagnavano la sua
fronte, la sua bocca era contorta da spasimi di dolore; gli occhi selvatici nuotavano in un’interna
agonia.
Annaspando, afferrava l’erba per rialzarsi e dopo essersi sollevato a metà, sprofondava con arti
deboli e tremanti in mezzo a grida di terrore, urlando: “Ah, che dolore! Buona gente, aiutatemi!”
Siddhartha accorse, rialzò l’uomo gemente con mano delicata, con sguardo dolce appoggiò la testa
ammalata sulle sue ginocchia e, mentre il suo tenero tocco confortava il miserabile, chiese:
“Fratello, che cosa ti accade, quale malattia ti ha colpito? Perché non ti alzi?”
“Perché, Channa, egli annaspa e geme, rantola per parlare e singhiozza così pietosamente?”
Allora il cocchiere disse: “Grande Principe! Quest’uomo è colpito da qualche pestilenza; i suoi
elementi sono tutti in disfacimento; nelle sue vene, il sangue che corre come un fiume in piena,
sobbalza e ribolle come un’inondazione di fuoco; il suo cuore, che un tempo era così regolare, batte
ora come una pelle di tamburo mal suonata, ora lento ora veloce; i suoi nervi sono come una corda
d’arco allentata; la forza se n’è andata dalle sue gambe, dal suo grembo, dal suo collo e tutta la
grazia e la gioia della virilità è sfuggita; questo è un uomo ammalato, su cui incombe la morte.
“Guardate come egli si sforza di fermare la sua angoscia e come rotea le sue orbite macchiate di
sangue, digrignando i denti e spingendo il suo respiro come se fosse fumo soffocante.
“Ecco, ora morirà, ma non fino a quando la peste non avrà completato il suo lavoro, uccidendo i
nervi che muoiono prima della vita; poi, quando sarà stato spezzato dall’agonia e tutte le sue ossa
saranno svuotate dalla percezione del dolore, la peste lo lascerà per posarsi da qualche altra
parte. Oh, signore! Non è bene sorreggerlo così! Il male può trasmettersi e colpire voi, anche voi.”
Ma il Principe, ancora confortando l’uomo, disse: “E vi sono degli altri, ce ne sono molti così?
Potrebbe accadermi la stessa cosa che ora accade a lui?”
“Grande signore!” rispose il cocchiere, “Questo tocca agli uomini in molte forme; angosce e ferite,
malattie e piaghe, paralisi, lebbra, febbri che ardono, emorragie, suppurazioni, toccano ogni corpo
e possono entrare ovunque.”
“Tali malattie vengono senza preavviso?” chiese
il Principe.
E Channa rispose: “Esse vengono come il furtivo serpente che morde prima ancora di essere visto;
come la tigre assassina che attende di balzare dal cespuglio karunda, nascosta a fianco del sentiero
nella giungla; o come il lampo che colpisce questi e risparmia quegli altri, così come vuole il
caso.”
“Allora tutti gli uomini vivono nella paura?”
“È così che vivono!”
“E nessuno può dire: questa notte dormirò sano e felice e allo stesso modo mi risveglierò?”
“Nessuno lo può dire.”
“È la fine di molti dolori che vengono inaspettati, quando vogliono, è questa: un corpo a pezzi, una
mente triste, la vecchiaia?”
“Sì, se gli uomini vivono così a lungo.”
“Ma se non possono sopportare le loro agonie, o se non le sopporteranno e cercheranno una fine; o se
le sopporteranno e saranno come quest’uomo troppo deboli, se non per lamentarsi e così vivranno e
diventeranno vecchi, sempre più vecchi, quale sarà la fine?”
“Essi moriranno, Principe.”
“Moriranno?”
“Sì, alla fine giunge la morte, in qualunque modo, qualunque sia l’ora. Pochi diventano vecchi, la
maggior parte soffre e cade ammalata, ma tutti devono morire. Guardate, ecco che giunge la Morte!”
Allora Siddhartha alzò gli occhi e vide avanzare velocemente verso la riva del fiume un gruppo di
persone che si lamentavano, primo fra tutti uno che ondeggiava un recipiente di terracotta con
carboni ardenti. Dietro seguivano i congiunti, a capo rasato, con
segni di lutto, senza cintura, che ad alta voce gridavano: “Oh Rama, Rama, ascolta! Invochiamo Rama,
fratelli.” Poi seguiva la bara, fatta di quattro aste di bambù strettamente legate sulla quale
giaceva il defunto, nudo e rigido, coi piedi in avanti, il viso allungato, magro, gli occhi fissi, i
fianchi scavati, cosparso di kumkum, la polvere sacra, rossa e gialla.
Al quadrivio girarono la barella, affinché il morto avesse la testa in avanti e, invocando: “Rama,
Rama!”, procedettero verso una pira funeraria che era stata preparata vicino al fiume; là essi lo
deposero, ammucchiando il combustibile.
Buon sonno per colui che dorme su quel letto! Non si risveglierà per il freddo, anche se giace nudo
ed esposto ai venti, poiché presto accenderanno la rossa fiamma ai quattro angoli che crepitando e
lambendo troverà la sua carne e si nutrirà di essa con rapide e sibilanti lingue, la pelle
rinsecchita crepiterà ed usciranno di posto le giunture, finché l’untuoso fumo si assottiglierà e le
ceneri scarlatte e grigie sprofonderanno, mentre qui e là resterà qualche osso, bianco, in mezzo al
grigio: ciò che resta dell’uomo.
Allora il Principe disse: “È questa la fine che tocca a tutti coloro che vivono?”
“Questa è la fine che tocca a tutti”, citò Channa. “Colui che è sulla pira, sui cui resti così
miserabili i corvi gracchiano affamati per abbandonare poi il festino infruttuoso, mangiò, bevve,
rise, amò e visse amando la vita. Poi arrivò – chissà? – un soffio di vento dalla giungla, un
inciampare sul sentiero, una contaminazione nel pozzo, un morso di serpente, una mezza spanna di
irato acciaio, un brivido di freddo, una lisca
di pesce o una tegola cadente e la vita ebbe fine e l’uomo morì.
“Egli non ha più appetiti, piaceri, né dolori; il bacio sulle sue labbra non trova più reazioni, il
bruciore del fuoco è ridotto a un nulla; egli non sente più l’odore della sua carne che brucia, né
quello del sandalo o delle spezie; il gusto ha lasciato la sua bocca, l’udito delle sue orecchie è
stato arrestato, la vista è cieca nei suoi occhi; coloro che egli amò si lamentano desolati, perché
persino quel corpo che era la lampada della vita deve andarsene o i vermi ne faranno un’orrida
festa. Qui c’è il comune destino della carne: il nobile e l’infimo, il buono e il cattivo, dovranno
tutti morire e poi, ci viene insegnato, cominceranno una nuova vita da qualche parte, in qualche
modo – chi lo sa? – e così ancora gli spasimi, la separazione, la pira funeraria. Questo è il ciclo
dell’uomo.”
Ma ecco! Siddhartha volse gli occhi scintillanti di lacrime divine al cielo, gli occhi accesi con
celestiale compassione per la terra; egli guardò dal cielo alla terra, dalla terra al cielo, come se
il suo spirito, nel suo solitario volo, cercasse qualche lontana visione che collegasse questo e
quello, il perduto, il passato ma ritrovabile, visto e già conosciuto.
Poi, mentre il suo divino aspetto risplendeva nella bruciante passione di un indicibile amore,
nell’ardore di una speranza senza limiti, insaziabile, egli gridò: “Oh! Mondo sofferente, ad un
tempo conosciuto e sconosciuto al mio corpo, afferrato in questa comune rete della morte e del
dolore racchiusi nella vita! Vedo, sento, la vastità dell’agonia della terra, la vanità delle sue
gioie, l’illusione di tutto ciò che di meglio offre, l’angoscia e tutto ciò che ha di peggiore.
Poiché i piaceri terminano nel dolore e la gioventù nella vecchiaia, l’amore nella separazione e la
vita in una odiosa morte che sfocia in vite sconosciute, che ancora una volta piegheranno l’uomo
alla loro ruota, nel cerchio di false delizie e dolori che falsi non sono.
“Io fui allettato da queste blandizie, cosicché mi sembrò bello vivere, la vita mi sembrò un fiume
illuminato dal sole che fluisce eternamente, in una pace immutabile; laddove le sciocche onde della
piena danzano così leggermente tra i prati e i boccioli, soltanto per riversare le sue acque
cristalline più rapidamente nel torbido mare salato.
“Il velo che mi accecava è stato strappato; io sono come tutti questi uomini che invocano i loro dei
e non vengono uditi, oppure non vengono ascoltati. Tuttavia ci deve essere aiuto! Per loro, per me e
per tutti ci deve essere aiuto! Forse gli dei hanno loro stessi bisogno di aiuto essendo così inermi
che quando tristi labbra gridano, non possono salvarle! Non lascerei piangere nessuno che potessi
salvare! Come può essere che Brahma abbia creato un mondo e lo lasci miserabile; poiché se è
onnipotente e lo lascia così, egli non è buono, e se non è onnipotente non è Dio!
Channa! Riconducimi a casa! Ne ho avuto abbastanza! I miei occhi hanno visto a sufficienza!”
Quando questo fu udito dal Re, egli ordinò che a tutte le entrate fosse messa una triplice guardia e
che nessun uomo le potesse attraversare, né di giorno né di notte, né per uscire né per entrare,
finché i giorni predetti da quel sogno non fossero trascorsi

Libro Quarto

Ma quando i giorni furono trascorsi, allora accadde ciò che era scritto, la partenza del figlio del
Re.
Ed ecco che nella dimora dorata vi fu lamento, afflizione per il Re e dolore per la terra.
Ma ciò doveva accadere per il riscatto di ogni essere e per l’annuncio di quella parola che avrebbe
reso libero colui che l’ascoltava.
La notte indiana cadeva dolcemente, sulle pianure, durante la luna piena del mese primaverile di
Chaitra, quando i manghi maturano e i boccioli dell’albero ashoka addolciscono la brezza e giunge il
compleanno di Rama, mentre tutti i campi e tutte le città sono pervase dalla gioia.
Dolcemente cadde quella notte su Vishramvan, fragrante di boccioli e ingioiellata da una moltitudine
di stelle, rinfrescata dalla brezza che soffiava dai picchi innevati dell’Himalaya.
Tra quei picchi, ad Oriente, la luna brillava salendo nella volta di stelle e illuminando le
increspature
del fiume Rohini, le colline, le pianure e tutta la terra assopita.
Sembrava vicina mentre copriva d’argento i tetti di quella dimora di delizie, dove nulla si muoveva
né vi era alcun segno di vigilanza se non ai cancelli esterni, dove i guardiani sussurravano la
parola d’ordine Mudra seguita dalla controparola Angana, mentre i tamburi segnavano il cambio.
C’era silenzio sulla terra, eccetto che per l’ululato degli sciacalli e l’incessante canto dei
grilli nei giardini. All’interno, dove la luna scintillava attraverso la pietra intarsiata
illuminando i muri di madreperla e i pavimenti lastricati di marmo, i suoi raggi cadevano dolcemente
su tali rare fanciulle che sembrava una stanza del paradiso, dove riposano le dee.
Erano tutte le prescelte del palazzo dei piaceri del Principe Siddhartha, le più belle e le più
fedeli della corte, ogni forma così graziosa, nella pace del sonno, che si sarebbe detto di ognuna:
“Questa fra tutte è la perla!”; ma al suo fianco o al di là di essa, giaceva una ancor più bella,
cosicché lo sguardo deliziato vagava su tanta bellezza così come vaga di gemma in gemma ammirando
una grande opera d’arte di un orefice, affascinato da ogni colore, fino a che non viene visto il
successivo.
Esse giacevano con grazia incurante, coi delicati e bruni arti in parte nascosti e in parte
rivelati; coi lucenti capelli stretti da oro o fiori, o sciolti in nere onde lungo il collo e la
nuca ben formati. Cullate in sogni piacevoli dopo felici attività, dormivano non più stanche di
uccelli ingioiellati che cantano e amano tutto il giorno e poi piegano la testa sotto l’ala, fino a
che il mattino
li esorta a cantare e ad amare ancora.
Lampade d’argento intarsiato che pendevano dal soffitto con catene argentate e alimentate con olii
profumati, gareggiavano coi raggi lunari nel formare giochi di luci e ombre che mostravano le
perfette linee della grazia, i placidi respiri nei petti, le tenere palme delle mani dipinte, aperte
o serrate, i volti chiari e bruni, le grandi sopracciglia arcuate, le labbra semichiuse, i denti
simili a perle che il mercante acquista per farne una collana, gli occhi dalle ciglia vellutate che
cadevano a toccare le delicate guance, i polsi arrotondati, i piccoli piedi dalla pelle liscia
adornati da cavigliere e campanelline che tintinnavano in una musica discreta quando una delle
fanciulle dormienti si muoveva, interrompendo il suo sorridente sogno di qualche nuova danza lodata
dal Principe, qualche magico anello da trovare, qualche fatato dono d’amore.
Una giaceva allungata, con la vina accanto alle gote e le piccole dita ancora posate sulle corde,
come quando le ultime note della sua leggiadra canzone accompagnarono il sonno di quegli occhi
splendenti, sigillando anche il suo.
Un’altra s’era assopita stringendo tra le braccia un’antilope del deserto, con la sua slanciata
testa dalle corna piegate all’indietro, sepolta nel suo petto; quando si erano assopite essa stava
mangiando rose rosse, la sua mano semiaperta ancora tratteneva una rosa mezza brucata, mentre una
foglia si arricciava tra le labbra dell’animale.
Qui, due amiche s’erano assopite insieme; indossando boccioli di gelsomino che univano la loro
dolcezza di sorelle in una catena di stelle, unendole arto
con arto e cuore con cuore, una reclinata su un cuscino di boccioli, l’altra su di lei. Un’altra si
era addormentata mentre infilava pietre preziose per farne una collana: agapi, onici, coralli e
pietre di luna; attorno al polso le scintillava una spira di magnifici colori, mentre tra le mani
stringeva il fermaglio, non ancora infilato, di verdi turchesi, inciso con divinità e scritte d’oro.
Cullate dal mormorio del ruscello del giardino, esse giacevano così, su preziosi tappeti, ognuna una
rosa fanciullesca con petali chiusi che aspetta l’alba per aprirsi e rendere bello il giorno.
Questa era l’anticamera del Principe; ma vicino alle frange delle cortine, all’entrata della camera,
dormivano le più dolci, Ganga e Gotami, le ancelle favorite, in quel tranquillo palazzo d’amore.
Le cortine pendevano cremisi e blu con fili d’oro ricamati al di là di un portale di legno di
sandalo intarsiato da dove, salendo tre scalini, si arrivava all’interna camera nuziale di grande
splendore e al giaciglio matrimoniale posto su un piedistallo di soffici stoffe argentee, dove al
piede sembrava di calpestare mucchi di boccioli di nim.
Tutti i muri erano ricoperti di madreperla, tagliata in bella forma dalle conchiglie che si trovano
nelle onde di Sri Lanka. Sul soffitto di alabastro correvano ricchi fregi di loti e di uccelli
realizzati artisticamente con lapislazzuli, giada, giacinti e diaspri; s’intrecciavano attorno alla
volta centrale e sui fianchi e tutto attorno alle finestre, dove si trovavano le grate attraverso le
quali si respiravano, con la luce della luna e l’aria fresca, profumi di fiori e di boccioli di
gelsomino; ma che non riuscivano a portare una grazia e una
tenerezza più dolci di quella diffusa dalle belle presenze all’interno del palazzo – il bel Principe
sakya e la sua nobile, radiosa, Yasodhara.
Semi sollevata dal suo soffice giaciglio, accanto al Principe, col velo abbandonato ai fianchi, la
fronte che poggiava su entrambe le palme, la bella Principessa giaceva con petto ansante e lacrime
che scorrevano rapide. Tre volte ella toccò con le labbra la mano di Siddhartha e al terzo bacio
gemette: “Svegliati, mio signore! Dammi il conforto della tua parola!”
Allora lui: “Che cosa ti succede, o vita mia?”
Ma ancora ella gemette prima che uscissero le parole; poi disse: “Ahimè, mio Principe! Sprofondai
nel sonno piena di felicità, poiché per il bambino che di te porto in grembo si avvicina l’ora della
nascita e nel mio cuore batteva quel duplice pulsare di vita, gioia ed amore, la cui felice musica
mi cullava, ma, ahimè, nel sonno scorsi tre visioni che mi instillarono il terrore e al cui pensiero
il mio cuore sta ancora tremando.
“Ho visto un toro bianco con grandi corna che si allargavano come rami, signore dei pascoli, che
avanzava attraverso le strade, recando sulla fronte una gemma che risplendeva come se una stella
fosse scesa a brillare laggiù o come la gemma Kantha, che il grande serpente porta per illuminare a
giorno le viscere della terra. Esso procedeva, lento, attraverso le strade che s’avviano ai cancelli
e nessuno poteva fermarlo, sebbene dal tempio di Indra venisse una voce che diceva: ‘Se non
l’arrestate, la gloria della città svanirà.’
“Tuttavia nessuno poté fermarlo. Allora piansi, gemendo a voce alta e gli strinsi le braccia al
collo con tutta la forza, ordinando che venissero sbarrati i cancelli; ma quel Re tra i tori muggì e
muovendo leggermente la testa, vinse la mia presa, irruppe attraverso le sbarre, calpestò i
guardiani e s’allontanò.
“Lo strano sogno che seguì fu questo: quattro presenze splendide, dagli occhi brillanti, così belle
che sembravano i Reggenti della Terra che dimorano sul monte Sumeru, splendevano dal cielo con un
seguito di innumerevoli esseri celestiali. Passarono rapidamente sulla nostra città, dove vidi lo
stendardo dorato di Indra sventolare sul cancello e cadere ed ecco, al suo posto vidi innalzare un
glorioso vessillo, le cui pieghe scintillavano del fuoco di rubini intessuti fittamente su fili
d’argento, i cui raggi formavano nuove parole e frasi importanti, con un messaggio che rallegrava
tutte le creature viventi.. E dall’est, il vento dell’alba soffiò dolcemente, aprendo quei rotoli
ingioiellati, cosicché tutta l’umanità potesse leggere, e meravigliosi boccioli, di un colore che
non avevo mai visto nei nostri giardini, colti in terre sconosciute, caddero a pioggia.”

Allora parlò il Principe: “Tutto questo, mio fiore di loto, è di buon auspicio..”
“Ahimè, mio signore”, disse la Principessa, “se non fosse che terminava con una voce che instillava
paura e che gridava: ‘Il tempo è vicino! Il tempo è vicino!’
“Poi venne il terzo sogno, quando ti cercai al mio fianco, dolce signore, e sul nostro letto c’era
un cuscino intatto e una veste vuota, null’altro di te se non questo! Nulla di te che sei la mia
vita, la mia luce, il mio Re, il mio mondo! E ancora dormiente vidi la cintura di perle, il tuo
dono, qui stretta sotto il mio petto, mutarsi in un serpente pronto a colpire; le mie cavigliere
cadere, i miei bracciali d’oro spezzarsi; i gelsomini nei miei capelli ridursi in polvere; mentre
questo nostro giaciglio matrimoniale sprofondava nella terra e qualcosa stracciava la cortina
cremisi; poi, molto lontano, udii il bianco toro e lo sventolio dello stendardo ricamato ed ancora
una volta quel grido: ‘Il tempo è giunto!’ E con quel grido che ancora scuote il mio spirito, mi
sono svegliata!
“Oh Principe! Che cosa possono significare tali visioni se non che morirò o, peggiore di qualunque
morte, che tu mi abbandonerai o che io ti perderò?”

Dolce come l’ultimo sorriso del tramonto fu lo sguardo che Siddhartha posò sulla sposa in lacrime.
“Confortati, mia cara,” le disse, “se il conforto vive nell’amore immutabile. Poiché sebbene i tuoi
sogni possano essere ombre di cose a venire e sebbene gli dei siano scossi dai loro troni e il mondo
sia forse prossimo a conoscere la via della salvezza, tuttavia, qualunque cosa accada a te e a me,
sii certa che io amo ed ho sempre amato Yasodhara.
“Tu sai come da molte lune io cerchi il modo di salvare la triste terra che ho visto; e quando verrà
il tempo, sarà ciò che sarà.
“Ma se la mia anima è in pena per anime sconosciute e se mi angoscio per angosce che non sono mie,
giudica tu stessa come i miei pensieri, dalle larghe ali, debbano aleggiare sopra tutte queste vite
che condividono e addolciscono la mia e di tutte la tua è la più cara, la più gentile, la migliore e
la più vicina.
“Ah, tu madre del mio bambino, il cui corpo s’intrecciò col mio per questa bella speranza,
ogniqualvolta
il mio spirito vagabondò, percorrendo le terre e i mari, pieno d’amore per gli uomini, come la
colomba che vola lontano è piena d’amore per i suoi piccoli, sempre ritornò con ali felici e piume
appassionate da te, che sei la più dolce che sia mai stata vista nella mia specie, la migliore tra
le buone, la più tenera fra tutte le tenere, mia più di tutte.
“Perciò, qualunque cosa accada d’ora in poi, pensa a quel toro maestoso che muggì, a quello
stendardo ingioiellato dei tuoi sogni che sventolò le sue pieghe svanendo e di questo sii certa:
sempre ti ho amato e sempre ti amerò, poiché ciò che ho cercato, l’ho cercato soprattutto per te.
“Trova conforto e se giunge il dolore, consolati considerando che vi può essere un sentiero di pace
sulla terra per i nostri dolori; e abbi con quest’abbraccio ciò che l’amore fedele può riflettere
riconoscente o formulare come benedizione, anche se sembra troppo poco o troppo debole per la forza
dell’amore.
“Comunque, baciami sulla bocca e bevi queste parole da cuore a cuore, cosicché tu possa conoscere
ciò che gli altri non conosceranno: che ti amai così tanto perché amai ogni anima vivente. Ed ora
Principessa riposa, poiché io mi alzerò e veglierò su di te.”

Allora ella, tra le lacrime dormì, ma dormendo sospirò, come se quella visione fosse tornata ancora.
“Il tempo! Il tempo è giunto!”
Allora Siddhartha si volse ed ecco: la luna risplendeva nel Cancro! Le stelle, in quello stesso
ordine argenteo molto tempo prima predetto, erano schierate a dire: “Questa è la notte! Scegli la
via della grandezza
o la via del bene: regnare come Re dei Re o vagare solo, senza corona e senza casa, affinché il
mondo ottenga aiuto.”
Poi, con il sussurro dell’oscurità, alle sue orecchie giunse ancora quel canto d’avvertimento, come
quando i Deva parlarono nel vento: e sicuramente gli dei erano tutt’attorno al luogo ad osservare il
Signore che osservava le stelle splendenti.
“Partirò,” egli disse; “l’ora è giunta! Le tue tenere labbra, cara dormiente, mi chiamano a quello
che salva la terra ma ci separa; e nel silenzio del vasto cielo vedo balenare il mio fatidico
messaggio.
“Per questo sono venuto e a questo tutte le notti e tutti i giorni mi hanno condotto; poiché io non
avrò quella corona che può essere mia: metto da parte quei regni che attendono lo scintillio della
mia nuda spada; il mio cocchio non avanzerà di vittoria in vittoria con ruote sanguinanti finché la
terra porterà inciso il mio nome con caratteri rossi.
“Scelgo di percorrere i suoi sentieri con piedi pazienti, immacolati, facendo della polvere il mio
letto, dei suoi solitari deserti la mia dimora e delle cose più umili i miei compagni: avvolto in
una veste non più pretenziosa di quella del fuori-casta, nutrito con non più di ciò che il
caritatevole darà di sua spontanea volontà, riparato non più lussuosamente di quanto possa concedere
la tenebra di una caverna o il fitto della giungla.
“Farò questo perché odo il lamentoso grido della vita e di tutti gli esseri viventi che mi giunge
all’orecchio e tutta la mia anima è piena di pietà per la malattia di questo mondo che io guarirò se
guarigione può
essere scoperta, rinunciando supremamente e con tutta la mia forza.
“Infatti, quali tra tutti gli dei, grandi e minori, hanno potere o pietà? Chi li ha visti? Chi? Che
cosa hanno fatto per aiutare i loro adoratori? Quale beneficio ha trovato l’uomo nel pregare e
pagare tributi in grano ed olio, nel cantare inni, uccidere una vittima urlante, edificare templi
maestosi, nutrire i sacerdoti ed invocare Vishnu, Shiva, Surya che non salvano nessuno, nemmeno i
più degni, dalle angosce che le litanie che ascendono, di adulazione e paura, indicano, giorno dopo
giorno, come fumo sprecato.
“Qualcuno dei miei fratelli è forse sfuggito, per mezzo di questo, ai dolori della vita, alle ferite
dell’amore e della sventura, al fuoco della febbre, ai brividi di freddo, al lento e ottuso
sprofondare nella vecchiaia, all’orribile e buia morte e a ciò che attende nell’aldilà?
“Finché la turbinante ruota ancora gira verso l’alto e nuove vite portano nuovi dolori da
sopportare, nuove generazioni per nuovi desideri, che trovano fine negli stessi macabri scherzi,
qualcuna delle mie tenere sorelle ha forse trovato il frutto del digiuno o il raccolto dell’inno o
avuto uno spasimo in meno al momento di partorire per quelle offerte di bianco latte e di foglie di
tulsi?
“No; può capitare che alcuni degli dei siano buoni e alcuni cattivi, ma tutti sono deboli
nell’azione; sia quelli pietosi che quelli senza pietà, gli dei, come gli uomini, sono vincolati da
questa ruota del cambiamento e pur conoscendo le vite precedenti e quelle future, poiché così
sembrano veramente insegnare le nostre scritture: che dovunque e comunque la vita sia cominciata,
essa compirà il suo ciclo, elevandosi dal filo di paglia, alla zanzara, al verme, al rettile, al
pesce, all’uccello, alla bestia, all’uomo, al demone, al Deva, al dio per ritornare ancora alla
zolla ed al filo di paglia; e così siamo vicini a tutto ciò che esiste e se qualcuno potesse salvare
l’uomo dalla sua maledizione, l’intero vasto mondo condividerebbe l’alleggerimento dell’orrore di
questa ignoranza, la cui ombra è brivido di paura e la crudeltà il suo amaro passatempo.
Sì, se uno potesse salvarsi! E ci deve essere il mezzo! Ci deve essere rifugio!
Gli uomini perivano nei gelidi venti invernali fino a che qualcuno non produsse il fuoco da pietre
che, nel loro freddo aspetto, nascondevano la rossa scintilla ricevuta dal sole cocente.
Essi divorarono carne come i lupi finché qualcuno seminò il granoturco che produce erbacce e
tuttavia sostiene la vita dell’uomo; essi storsero la bocca e balbettarono finché una lingua
produsse il linguaggio e dita pazienti diedero forma ai suoni.
“Quali doni preziosi hanno i miei fratelli se non quelli che vennero dalla ricerca, dallo sforzo e
dall’amorevole sacrificio?
“Se uno, allora, nato grande e fortunato, ricco, dotato di salute e agio, sin dalla nascita
destinato a governare, se governasse, come Re dei Re; se uno, non stanco del lungo giorno della
vita, ma felice nella freschezza del suo mattino, non sazio delle deliziose feste dell’amore, ma
ancora affamato; se uno non sciupato e segnato dalle rughe, tristemente saggio, ma gioioso nella
gloria e nella grazia che su questa terra si mischia con i mali e libero di scegliere le grazie
della
terra a sua volontà: uno come me che non ha dolori, che non ha penurie, che non si angoscia se non
con angosce che non sono sue, eccetto che per il fatto di essere uomo; se uno così, avendo così
tanto da dare, dà tutto per amore degli uomini e vive per cercare la verità, per scoprire il segreto
del riscatto, sia che si annidi negli inferi o si nasconda nei cieli, o si aggiri velato vicino a
tutti: sicuramente alla fine, forse lontano, in qualche tempo, in qualche dove, il velo si
solleverebbe dai suoi occhi che stanno cercando profondamente, la strada si aprirebbe per i suoi
piedi doloranti, quello per cui perse il mondo sarebbe vinto e la Morte lo scoprirebbe conquistatore
della morte.
“Questo farò, io che ho un regno da perdere, poiché amo il mio regno, poiché il mio cuore pulsa con
ogni sussulto di tutti i cuori che soffrono, conosciuti e sconosciuti, quelli che sono miei e quelli
che saranno miei, mille milioni di più, salvati da questo sacrificio che ora offro.
“Oh stelle il cui richiamo odo! Oh terra piena di dolore! Per te e per ciò che ti abita io abbandono
la mia gioventù, il mio trono, le mie gioie, i miei giorni dorati, le mie notti, il mio felice
palazzo e le tue braccia, dolce Regina! Difficile da abbandonare più di tutto il resto! Tuttavia,
anche te io salverò, salvando questa terra; e quello che si muove all’interno del tuo tenero grembo,
il mio bambino, il bocciolo nascosto dei nostri amori, colui che se attendo di benedire farà
vacillare la mia decisione.
“Moglie! Figlio! Padre! E popolo! Voi dovete condividere un po’ dell’angoscia di quest’ora, affinché
la Luce possa irrompere e ogni uomo imparare la Legge
“Ora sono determinato e partirò per non tornare più finché non avrò trovato ciò che cerco, se la
fervente ricerca e lo sforzo serviranno allo scopo.”
Così con la sua fronte toccò i piedi della consorte e si chinò sul suo volto addormentato, ancora
bagnato di lacrime, per darle un addio impronunziabile, con occhi pieni d’amore; e tre volte girò
attorno al letto in segno di reverenza come fosse un altare, con passo silenzioso e mani strette sul
cuore che batteva “poiché,” pensò, “mai più giacerò qui ancora!”
E tre volte fece per andarsene, ma tre volte ritornò, tanto era grande la di lei bellezza e intenso
il suo amore: poi, allungando sopra la sua testa la veste, si volse e alzò l’orlo della tenda vicino
alla quale, in stretta vicinanza in un sonno profondo quanto soltanto i lillà d’acqua conoscono,
giaceva il grazioso giardino delle sue ragazze indiane; fra tutte, i due boccioli di loto dai petali
scuri, Ganga e Gotami, su entrambi i fianchi e più in là le loro sorelle simili a foglie di seta.
“Gioia mi arrecate, dolci amiche!” egli disse, “E care mi siete per lasciarvi; tuttavia se non vi
lascio, che cos’altro verrà a noi se non una vecchiaia senza scampo e una morte senza utilità?
“Ecco! Come giacete addormentate, così giacerete morte; e quando la rosa muore, dove sono andati il
suo profumo e il suo splendore? Quando la lampada ha terminato il suo olio, dove è volata la fiamma?
“Sii pesante, o notte, sulle loro ciglia abbassate e sigilla le loro labbra, affinché nessuna
lacrima e nessuna voce fedele mi trattenga. Poiché per quanto più luminosa esse hanno reso la mia
vita, tanto più è amaro che esse, io e tutti, dobbiamo vivere come gli alberi –
così tanta primavera, così tante piogge e gelate, tanti inverni e poi foglie morte con forse una
nuova primavera o il colpo dell’ascia alla radice.
“Questo non permetterò, io, la cui vita qui fu quella di un dio! Questo non vorrò, seppur tutti i
miei giorni fossero come quelli degli dei, mentre gli uomini si lamentano nella loro oscurità.
“Perciò addio, amiche!
“Mentre la vita ha un valore da donare, io la dono e vado a cercare il riscatto e quella Luce
sconosciuta!”

Poi, oltrepassando con passo leggero le dormienti, Siddhartha uscì nella notte, i cui occhi, le
vigili stelle, lo guardarono con amore; il cui respiro, il vento vagante, baciò il fluttuante orlo
della sua veste; i boccioli dei giardini piegati in se stessi, in attesa dell’alba, aprirono i loro
cuori vellutati per effondere verso di lui profumi da incensieri rosa e porpora. Sopra la terra,
dall’Himalaya fino all’oceano indiano, si diffuse un tremore, come se l’anima della terra, al di
sotto, fosse scossa da una sconosciuta speranza; e i santi libri che raccontano la storia del nostro
Signore, anch’essi dicono che ricca musica celestiale vibrava nell’aria prodotta da schiere e
schiere di esseri luminosi che si affollavano ad Oriente e ad Occidente, rendendo brillante la
notte, a nord e a sud rendendo felice la terra.
Anche i Quattro Venerabili Reggenti della Terra scendendo sulla soglia, a due a due, con le loro
luminose legioni di esseri invisibili dalle armature di zaffiro, argento, oro e perla, osservarono
con mani giunte il Principe indiano che si ergeva con occhi pieni di lacrime rivolti alle stelle, le
labbra serrate con intenso
proposito nato da prodigioso amore.
Poi si avviò nell’oscurità e gridò: “Channa, svegliati! E porta fuori Kantaka!”
“Che cosa desidera il mio signore?” chiese il cocchiere alzandosi lentamente dal suo posto al di là
del cancello, “Cavalcare di notte quando tutte le vie sono buie?”
“Parla piano,” disse Siddhartha, “e porta il mio cavallo, poiché è giunta l’ora in cui io devo
abbandonare questa dorata prigione dove il mio cuore vive in gabbia, per scoprire la verità, che
d’ora in poi cercherò per amore di tutti gli uomini finché sarà trovata.”
“Ahimè caro Principe,” rispose il cocchiere, “parlarono allora invano quei saggi e santi uomini che
scrutarono le stelle e ci fecero attendere il tempo in cui il grande figlio del Re Suddhodana
avrebbe regnato regni dopo regni e sarebbe stato il signore dei signori? Vuoi dunque andartene da
qui e lasciare che il ricco mondo scivoli dalla tua presa per stringere la ciotola di un mendicante?
Tu che hai qui il paradiso dei piaceri andrai nelle deserte vastità?”
Il Principe rispose: “Per questo sono venuto e non per i troni: il regno che bramo è più di molti
regni e tutte le cose passano per cambiare e morire. Portami Kantaka!”
“Mio Principe,” disse ancora il cocchiere, “pensa al dolore di coloro per i quali sei la
beatitudine, come potrai aiutarli abbandonandoli?”
Siddhartha rispose: “Amico, quell’amore che si aggrappa all’amore per le dolcezze egoistiche
dell’amore è falso; ma io che amo costoro più delle mie gioie, s”, più delle loro gioie, parto per
salvare loro e ogni
uomo, se il supremo amore può riuscire in questo.
Vai e portami Kantaka!”
Allora Channa disse: “Padrone, vado!”
E quindi, triste, entrò nella stalla, dalla rastrelliera prese il morso d’argento, le redini, il
pettorale, legò strettamente le cinghie, collegò le staffe e condusse fuori Kantaka: lo legò
all’anello strigliando il suo mantello bianco come la neve fino a renderlo simile alla seta; poi
mise sul destriero la coperta quadrata e su questa posò la sella. Strinse saldamente la cinghia
ingioiellata, allacciò l’imbracatura e la martingala e fece cadere entrambe le staffe d’oro
lavorato. Poi sul tutto stese una rete dorata con nappe di perla e fili di seta e condusse il grande
cavallo alla porta del palazzo dove era il Principe.
Ma, quando esso vide il suo signore, in lui crebbe la contentezza e gioiosamente nitrì, dilatando le
narici scarlatte; e sui libri è scritto: “Sicuramente tutti avevano udito il nitrito di Kantaka e il
forte calpestio dei suoi zoccoli ferrati, solo che i Deva allargarono le loro invisibili ali sulle
orecchie di tutti e resero sordi i dormienti.”
Con affetto Siddhartha tirò a sé la fiera testa, accarezzando il lucente collo e disse: “Sii
tranquillo bianco Kantaka! Sii silente e portami ora nel più lungo viaggio che mai cavaliere
intraprese; poiché questa notte prendo il cavallo per scoprire la verità e dove la mia ricerca
terminerà ancora non so, salvo che non finirà fino a che non troverò.
Perciò questa notte, buon destriero, sii ardente ed ardito! Che nulla ti arresti anche se mille lame
ti negassero la strada! Che né muro né fossato impediscano il nostro volo! Guarda! Se tocco i tuoi
fianchi e grido: ‘Avanti, Kantaka!’, che turbini di vento segnino la tua corsa! Sii fuoco ed aria
cavallo mio! Aiuta il tuo signore, cosicché condividerai con lui la grandezza della sua impresa che
aiuterà il mondo; poiché io cavalco non soltanto per gli uomini ma per tutte le cose che, mute,
condividono il nostro dolore e non hanno speranza, né la possibilità di aspirare ad essa. Ora,
perciò, porta il tuo padrone valorosamente!”
Poi, balzando leggermente sulla sella, toccò l’arcuata criniera e, mordendo il freno, Kantaka si
lanciò al volo, con zoccoli ferrati che facevano scaturire scintille dalle pietre.
Ma nessuno udì quel suono, poiché i Deva, gli dei del cielo, radunandosi vicino, colsero i rossi
fiori di mohra e li sparsero fitti innanzi il suo cammino, mentre mani invisibili attutivano il
tintinnio del morso e delle catene delle redini.
Inoltre, è scritto che quando giunsero sul lastricato in prossimità dei cancelli interni, gli yaksha
dell’aria stesero stoffe magiche sotto le zampe dello stallone, cosicché potesse procedere
dolcemente e silenziosamente.
Ma quando raggiunsero il cancello dalla triplice porta d’ottone, che a malapena cinquanta uomini
riuscivano a dischiudere e a far girare sui cardini, ecco! Le porte girarono tutte silenziosamente,
sebbene durante il giorno si potesse udire il tumultuoso fragore di quei cardini alla distanza di
dieci chilometri.
Anche i cancelli di mezzo e quello esterno dischiusero ciascuno i mostruosi portali in silenzio,
mentre Siddhartha e il suo destriero si avvicinavano e, sotto
la loro ombra, giacevano mute, come morte, tutte le guardie scelte, con lance e spade a terra, gli
scudi abbandonati; capitani e soldati, poiché sopraggiunse un vento che portava con sé la
sonnolenza, come quello che soffia sui campi di malva: un vento che precedeva il cammino del
Principe e che una volta respirato assopiva ogni senso. Così egli passò, libero, attraverso le porte
del palazzo.
Quando la stella del mattino si erse a metà lunghezza di lancia sull’orizzonte orientale e sopra la
terra soffiava l’alito del mattino, increspando le onde del fiume Anoma che correva lungo i confini,
egli tirò le redini e balzò a terra baciando il bianco Kantaka tra le orecchie e parlando dolcemente
a Channa: “Ciò che hai fatto porterà del bene a te e a tutte le creature. Sii certo che ti amerò
sempre per il tuo amore.
“Riconduci il mio cavallo e prendi la mia perla, le mie vesti principesche che non mi si addicono
più, prendi la guaina ingioiellata della mia spada e la spada stessa e questi lunghi riccioli che
con la sua affilata lama ora taglierò dal mio capo. Dai tutto al Re e digli che Siddhartha lo prega
di dimenticarlo finché non diverrà dieci volte Principe, con reale saggezza guadagnata in solitaria
ricerca e aspirando alla luce; digli che se realizzerò questa conquista, tutta la terra sarà mia,
mia per il grande servigio che le avrò reso! Digli che sarà mia per l’amore! Digli che per l’uomo
c’è speranza soltanto nell’uomo e che nessuno ha cercato questo così come io cercherò, io che ho
gettato via il mio mondo per salvare il mio mondo.”

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