Reincarnazione e rinascita 3f

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Reincarnazione e rinascita 3f

(di Sri Aurobindo)

– parte terza e fine –

– La reincarnazione dell’anima –

Il pensiero umano, per la maggior parte degli uomini, non è altro che una
rozza e cruda accettazione acritica di idee. La nostra mente è una sentinella
sonnolenta e poco attenta che permette il passaggio a qualunque cosa sembri
formulata decentemente o che abbia un’apparenza plausibile o che borbotti
qualcosa che abbia un’apparenza di familiarità. Ed è specialmente così nelle
questioni sottili che si allontanano dai fatti concreti della nostra vita e del
nostro ambiente fisico.

Persino uomini che ragionano con attenzione e
acutamente di cose ordinarie e che considerano la vigilanza rispetto agli
errori come un dovere pratico o intellettuale, si accontentano di sciocchezze
inconsistenti quando si ritrovano su un terreno più alto e più difficile.

Laddove la precisione ed il pensiero sottile sono più necessari, proprio lì essi
sono più impazienti e non si dedicano al faticoso lavoro richiesto. Gli uomini
riescono a padroneggiare un pensiero sottile a proposito di cose palpabili, ma
pensare in modo sottile di cose sottili è uno sforzo troppo grande per il
nostro rozzo intelletto; così ci accontentiamo di un superficiale colpo di
pennello, proprio come il pittore che scaglia il suo pennello contro la tela
perché non riesce ad ottenere l’effetto desiderato.

Scambiamo lo scarabocchio che ne risulta per la forma perfetta di una verità.
Non sorprende quindi che gli uomini si accontentino di pensare rozzamente a
proposito di una questione come la rinascita. Quelli che l’accettano la
prendono così come gli viene proposta, come una teoria nuda e cruda o un
dogma.

L’anima rinasce in un nuovo corpo – questa asserzione vaga e quasi
priva di significato è per loro sufficiente. Ma che cos’è l’anima ? E che cosa
significa rinascita di un’anima? Bene, significa reincarnazione; l’anima,
qualunque cosa essa sia, è venuta fuori da una struttura corporea e rientra in
un’altra. Sembra semplice – lasciateci dire. Come il Djinn del racconto arabo
che viene fuori dalla lampada e poi ci rientra o forse come il cuscino viene
fuori da una fodera e infilato in un’altra.

Oppure l’anima si forma da se stessa
un corpo già nel grembo della madre e poi lo occupa; o ancora si spoglia da
un abito di carne e ne indossa un altro. Ma che cos’è questa cosa che “lascia”
un corpo ed “entra” in un altro? un altro, un corpo psichico e una forma
sottile che entra in una forma corporea grossolana, forse il Purusha
dell’immagine antica, non più grande di un pollice, oppure è qualcosa senza
forma in sé, impalpabile, che si incarna nel senso di diventare o prendere una
forma palpabile di carne ed ossa percepibile ai sensi ?

Nella concezione ordinaria comune non si parla di nascita dell’anima, ma
soltanto di nascita di un nuovo corpo occupato da una vecchia personalità,
che non è cambiata dal momento in cui ha lasciato la sua forma fisica ora
disaggregata. John Robinson che è venuto fuori da quella forma corporea
che una volta occupava, è John Robinson che domani o fra alcuni secoli si
reincarnerà in un altro corpo e riprenderà il ciclo delle sue esperienze terrene
sotto altro nome e in un altro luogo Achille rinasce come Alessandro figlio di
Filippo il Macedone, vincitore non di Ettore ma di Dario, in un ambito più
vasto con destini più grandi, ma è sempre Achille, la stessa personalità che è
rinata, solo che sono diverse le circostanze fisiche. Questo sopravvivere
della stessa personalità che attrae oggi la mente europea nella teoria della
reincarnazione .

Poiché è difficile per chi è innamorato della vita accettare
l’idea dell’estinzione o dissoluzione della personalità, di questo composto
fisico, nervoso e mentale che chiamiamo me stesso. Ed è la promessa della
sua sopravvivenza e della sua ricomparsa fisica ciò che maggiormente attrae.
L’ostacolo che si frappone all’accettazione di questo è l’ovvia non
sopravvivenza del ricordo. La memoria è l’uomo, dice la psicologia moderna,
e a cosa serve che la mia personalità sopravviva se non ricordo il mio passato,
se non sono consapevole di essere la stessa persona ancora e sempre ? Qual è
il senso ? Dove sta la felicità ? Gli antichi pensatori indiani – non sto
parlando della credenza popolare piuttosto rozza e non rifletteva affatto su
questo – ma gli antichi pensatori buddisti e vedantici consideravano la cosa
da un punto di vista molto differente.

Essi non erano attaccati alla sopravvivenza della personalità, non davano a
questa sopravvivenza l’alto nome di immortalità; capivano che essendo la
personalità ciò che è, un composto che cambia di continuo, la sopravvivenza
di una personalità identica era un non senso, una contraddizione in termini.

Essi percepivano invero che c’è una continuità e cercarono di scoprire che
cosa determini questa continuità e se il senso di identità che ne fa parte sia
un’illusione o la rappresentazione di un fatto, di una verità reale; e
se è così,
quale fosse questa verità. I Buddisti negarono ogni identità reale. Non c’è –
essi dissero – nessun sé, nessuna persona, ma semplicemente un continuo
fluire di energia in azione che è come il fluire continuo di un fiume o il
continuo bruciare di una fiamma. questa continuità che crea nella mente un
falso senso di identità. Io non sono adesso la stessa persona che ero un anno
fa, e neanche la stessa persona che ero un momento fa, non più di quanto
l’acqua che scorre laggiù sia la stessa acqua che scorreva pochi
secondi fa; è il
persistere del flusso nello stesso canale che preserva la falsa apparenza di
identità.

Ovviamente quindi non c’è nessuna anima che si reincarni, ma
soltanto un karma che persiste fluendo continuamente in un canale
apparentemente ininterrotto. il Karma che si reincarna; il karma crea la
forma di una mente che cambia costantemente e i corpi fisici, che sono,
possiamo presumere, il risultato di quel cangiante composto di idee e
sensazioni che chiamiamo me stesso. L’identico “Io” non c’è, non c’è mai stato
né mai ci sarà.

Praticamente, fino a quando persiste l’errore della personalità,
questo non fa molta differenza e io posso dire, nel linguaggio dell’ignoranza,
che sono rinato in un nuovo corpo; praticamente devo procedere sulla base di
quell’errore. Ma c’è un punto importante che si è compreso: che è tutto un
errore e un errore che può cessare; il composto si può disaggregare per
sempre senza riformarsi di nuovo, la fiamma può spegnersi, il canale che si
denominava fiume può essere distrutto. Allora c’è il non–essere, c’è la
cessazione, la liberazione dell’errore da se stesso.

Il Vedantino arriva ad una conclusione diversa: egli ammette un’identità, un
sé, una persistente realtà immutabile – ma che è diversa dalla mia personalità,
diversa dal composto che chiamo me stesso. Nella Katha Upanishad il
problema è posto in modo molto istruttivo, quasi opposto all’argomento che
stiamo trattando. Nachiketas, mandato da suo padre nel mondo della Morte,
così chiede a Yama, il Signore di quel mondo: Dell’uomo che è andato avanti,
che è trapassato, alcuni dicono che egli è, altri che “egli non è”;
chi ha ragione?

Qual è la verità del grande passaggio ? Questa è la forma della domanda e a
prima vista sembra che sollevi semplicemente il problema dell’immortalità
nel senso europeo della parola, il sopravvivere dell’identica personalità. Ma
questo non è quello che Nachiketas chiede. Egli ha già preso, come il secondo
dei tre doni che gli sono stati offerti da Yama, la conoscenza della Fiamma
sacra per mezzo della quale l’uomo vince la fame e la sete, si lascia dietro il
dolore e la paura e dimora nel paradiso eternamente felice.

L’immortalità in quel senso egli la ritiene già garantita, poiché già
sta in quel
mondo ulteriore. La conoscenza che egli chiede comporta il problema più
profondo, più sottile, del quale Yama afferma che persino gli dei ne discutono
da molto, e che non è facile da conoscere, perché la sua legge è sottile;
sopravvive qualcosa che sembra essere la stessa persona, che discende
nell’inferno, che sale al cielo, che ritorna sulla terra in un nuovo corpo, ma è
davvero la stessa persona che sopravvive in questo modo ? Possiamo dire
davvero dell’uomo “Egli è ancora”, o dobbiamo piuttosto dire “Egli non è
più” ?

Anche Yama nelle sue risposte non parla della sopravvivenza alla
morte, e concede soltanto uno o due versi alla nuda descrizione della costante
rinascita che tutti i pensatori seri ammettevano come una verità
universalmente riconosciuta.

Ciò di cui parla è il Sé, l’Uomo reale, il Signore di tutte queste apparenze
cangianti; senza la conoscenza di quel Sé la sopravvivenza della personalità
non è una vita immortale ma un costante passare dalla morte alla morte;
soltanto colui che va oltre la personalità sino alla vera Persona diventa
immortale. Fino ad allora sembra che l’uomo nasca di nuovo e ancora per
mezzo della forza della sua conoscenza e delle opere, il nome succede al
nome, la forma alla forma, ma non c’è immortalità.

Questa dunque è la domanda posta, alla quale Buddisti e Vedantini
rispondono in modo così differente. C’è un costante riformarsi di personalità
in nuovi corpi, ma questa personalità è una creazione mutevole di una forza al
lavoro che si spinge in avanti nel tempo e non è mai, neppure per un
momento, la stessa; e il senso dell’ego, che fa sì che noi ci attacchiamo alla
vita del corpo, e crediamo facilmente che questa sia la stessa idea e forma, che
questo John Robinson, rinato come Sidi Hossain, è una creazione della mente.

Achille non è rinato come Alessandro, ma il flusso di forza nelle sue opere
che ha creato la costante mutevolezza del corpo e della mente di Achille ha
continuato a fluire e ha creato la costante mutevolezza del corpo e della
mente di Alessandro. Tuttavia, dice l’antico Vedanta, c’è qualcosa al di là di
questa forza in azione, il Maestro di essa, uno che fa sì che essa crei per lui
nuovi nomi e forme: questo è il Sé, il Purusha, l’Uomo, la Vera Persona. Il
senso dell’ego è soltanto la sua immagine distorta riflessa nel fluire continuo
della mente corporea.

Allora è il Sé che si incarna e si reincarna ? Ma il Sé è imperituro,
immutabile, non nasce e non muore. Il Sé non è nato e non esiste nel corpo;
piuttosto è il corpo che è nato ed esiste nel Sé. Perché il Sé è uno dappertutto
– in tutti i corpi, noi diciamo, ma in realtà non è confinato e parcellizzato in
corpi diversi, tranne che, come l’etere che tutto costituisce, sembra prendere
forma in oggetti diversi e in un certo senso in essi si ritrova.
Piuttosto, tutti
questi corpi sono nel Sé, ma anche questo è una immaginazione della
concezione spaziale, e in definitiva questi copri sono soltanto simboli e figure
di se stesso, creati da esso nella sua propria Coscienza. Persino ciò che noi
chiamiamo l’anima individuale è più grande del suo corpo e non meno, più
sottile di esso e di conseguenza non limitata dalla sua grossolanità.

Al momento della morte non abbandona la sua forma, ma se ne spoglia, così che
una grande Anima che fa la sua dipartita può dire di questa morte, con una
frase vigorosa, “ho sputato via il corpo”. Che cosa è dunque ciò che
percepiamo come l’abitante della struttura fisica ? Che cosa è ciò che l’anima
si porta via dal corpo quando getta via questo involucro fisico che avvolgeva
non essa, ma una parte dei suoi componenti? Che cos’è quello la cui dipartita
produce questo strappo violento, questa lotta veloce e il dolore della
partenza, creando questo senso di violento divorzio ? La risposta non ci aiuta
molto. l’involucro sottile o psichico che è legato al fisico dalle corde del
cuore, dalle corde della energia di vita, dall’energia nervosa che è stata
intessuta in ogni fibra fisica. questo che il Signore del corpo si
porta via e lo
strappo violento o il rapido o lento allentarsi delle corde della vita, la
fuoruscita della forza di connessione, è questo che costituisce il dolore della
morte e la sua difficoltà.

Cambiamo dunque la forma della domanda e chiediamoci piuttosto cos’è che
riflette e accetta la personalità mutevole, poiché il Sé è immutabile ? Noi
abbiamo infatti un Sé immutabile, una Persona reale, Signore di questa
personalità che cambia sempre, che, di nuovo, prende corpi che cambiano
sempre; ma il Sé reale si conosce sempre al di sopra del mutamento, lo
osserva e ne gioisce, ma non è coinvolto in esso. Per mezzo di che cosa esso
gode dei cambiamenti e li avverte come suoi, anche se sa di non esserne
toccato ?

La mente e il senso dell’ego sono soltanto strumenti inferiori, deve
esserci quindi una qualche più essenziale forma di se stesso che l’Uomo Reale
mette avanti, mette di fronte a sé, per così dire, e dietro ai cambiamenti, per
sostenerli e rispecchiarli senza essere in realtà cambiato da essi. Questa forma
più essenziale è, o sembra essere nell’uomo, l’essere mentale o la persona
mentale di cui parlano le Upanishad come del leader mentale della vita e del
corpo (manomayah prana–sharira–neta). questo che sostiene il senso
dell’ego come una funzione nella mente e ci permette di avere la ferma
percezione di una identità continua nel Tempo come opposta all’identità
senza tempo del Sé..

La personalità che cambia non è questa persona mentale, è un insieme di
materiali diversi della Natura, una formazione di Prakrti, e non è per niente il
Purusha. Ed è un composto molto complesso, con molti strati: c’è uno strato
fisico, uno strato nervoso, uno strato mentale, persino uno strato finale di
personalità sopra–mentale; e all’interno di questi stessi strati ci sono strati
dentro ognuno di essi. L’analisi degli strati successivi della terra è una
faccenda semplice.

Se paragonata all’analisi di questa creazione meravigliosa
che chiamiamo la personalità. L’essere mentale, nel riprendere la vita
corporea, forma una nuova personalità per la sua nuova esistenza terrestre;
prende dalla materia comune materiale inorganico e organico, materiale
mentale del mondo fisico e durante la vita terrestre assorbe costantemente
materiale fresco, getta via ciò che è usato, cambiando i suoi tessuti fisici,
nervosi e mentali.

Ma tutto questo è lavorio di superficie; dietro di esso c’è il
retroterra dell’esperienza passata, che viene tenuto dietro la memoria fisica,
affinché la consapevolezza superficiale non sia turbata e non ci siano
interferenze con il fardello consapevole del passato, ma ci si possa
concentrare sul lavoro attuale. Tuttavia questo retroterra di passata
esperienza è il nocciolo della personalità e più di questo. il nostro vero
tesoro, al quale possiamo far ricorso anche a prescindere dal nostro
superficiale rapporto con ciò che ci circonda. Questo rapporto si aggiunge
alle nostre conquiste, modifica il retroterra in vista di un’esperienza
successiva.

Inoltre tutto questo è di nuovo superficie, è soltanto una piccola parte di noi
stessi che vive e agisce nelle energie della nostra esistenza terrena. Come
dietro l’universo fisico ci sono dei mondi dei quali il nostro è soltanto un
risultato ultimo, così anche dentro di noi ci sono mondi della nostra
autoesistenza che proietta questa forma esterna del nostro essere. Il
subcosciente, il sovracosciente sono oceani dai quali e verso i quali scorre
questo fiume.

Di conseguenza parlare di noi stessi come di un’anima che si
reincarna è dare un’apparenza troppo semplice al miracolo della nostra
esistenza; è un tradurre in una formula troppo grossolana la magia del Mago
supremo. Non c’è una definita entità psichica che prenda un involucro di
carne, c’è una metempsicosi, un riprendere l’anima, un rinascere di una nuova
personalità psichica così come c’è la nascita di un nuovo corpo. E dietro di
questo c’è la Persona, l’entità che non cambia, il Signore che manipola questo
materiale complesso, l’Artefice di questo meraviglioso artificio.

Questo è il punto di partenza dal quale dobbiamo procedere nel considerare il
problema della rinascita. Considerarci come questa o quell’altra personalità
che prende un muovo involucro di carne è restare impigliati nell’ignoranza,
confermare l’errore della mente materiale e dei sensi. Il corpo è
un’opportunità, la personalità è una formazione costante del cui sviluppo
l’azione e l’esperienza costituiscono gli strumenti, ma il Sé tramite il volere
del quale per la delizia del quale tutto questo avviene è diverso dal corpo,
diverso dall’azione e dall’esperienza, diverso dalla personalità che essi
sviluppano. Ignorarlo è ignorare l’intero segreto del nostro essere.

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(Altri capitoli sull’argomento sono stati pubblicati sulla rivista Arya alcuni
anni più tardi, nel 1919 e nel 1920–21. I due articoli sono ora contenuti in
The Supramental Manifestation and Other Writings, vol. XVI dell’Edizione
del Centenario (pubblicata dal Sri Aurobindo Ashram di Pondicherry)

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