Profondamente semplice

pubblicato in: AltroBlog 0

Profondamente semplice

Tratto da:

< Profondamente semplice >

del venerabile Ajahn Munindo

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Liberta’ inattesa”
Traduzione di Chandra Livia Candiani.
Estratto del libro “Libertà inattesa”, su gentile concessione dell’Editore
Ubaldini.

—————————–

I costruttori di canali
convogliano il flusso dell’acqua.
Il fabbro forgia le frecce.
Il falegname lavora il legno.
Il saggio doma se stesso.
Dhammapada, strofa 80

————————————

[…]

< Lo sforzo di ricordare >

Questo insegnamento è stato il primo regalo che ricevetti da Ajahn Tate, un
regalo prezioso, che arricchì moltissimo la pratica seguita fino allora. Ero
un principiante entusiasta con alcune esperienze piacevoli di meditazione.
Ero determinato ad arrivare da qualche parte con la mia pratica e facevo
enormi sforzi. Mi svegliavo presto al mattino, uscivo per la questua e
consumavo l’unico pasto della giornata, poi, dopo un breve riposo, passavo
il resto del giorno tra meditazione seduta e camminata. C’erano pochi libri
in inglese, ma su quei pochi che potevo trovare riflettevo seriamente. Le
uniche brevi conversazioni erano con persone di cui non parlavo la lingua.
L’altro
monaco occidentale meditava sulla morte, un oggetto di meditazione sovente
raccomandato dal Buddha e prediletto dalla tradizione della foresta e dunque
non sembrava volermi prestare molta attenzione. Col passare dei mesi, io
stesso finii per assomigliare sempre di più alla morte e penso che lui
cominciasse a vedere in me un interessante oggetto di contemplazione. Non mi
trovavo molto bene con la dieta a base di riso colloso, pesce in salamoia e
peperoncino e persi moltissimo peso. Ma mi ero impegnato a restare per i tre
mesi del vassa e l’impegno aumentava l’intensità.

Certamente ricavai dei benefici dallo sforzo impiegato in quel periodo di
ritiro di pratica intensiva. Circa a metà dei tre mesi ebbi un’esperienza di
chiarezza di cui conservo un vivo ricordo; era una o due notti prima del
giorno in cui avrei compiuto ventiquattro anni. Fu un’esperienza spontanea;
non stavo facendo alcuna pratica speciale. Sedevo durante una puja serale,
circondato dagli altri monaci. La puja si svolgeva in un edificio di legno
molto semplice, disadorno, aperto sui lati, con le solite stuoie srotolate
sul pavimento di cemento levigato. Cantavamo come tutti gli altri giorni,
con le stesse punture di zanzare e l’identico dolore alle ginocchia. Di
colpo, senza alcun preavviso, mi ritrovai a sperimentare la chiarezza più
meravigliosa che avessi mai provato prima. Percepii un senso di benessere
assolutamente naturale e insieme straordinario. Sembrava che questa
percezione delle cose dovesse durare per sempre, perché in realtà le cose
erano sempre state così, solo che io non l’avevo notato. Alla fine della
puja mi trovavo in un tale stato di esaltazione che ne parlai a un altro
monaco, il quale mi disse: “Andiamo a parlarne con Ajahn Tate”.

Nel monastero era tradizione, dopo la puja serale, che una decina di monaci,
tutti insieme, andassero a massaggiare Ajahn Tate. Il massaggio tailandese
può far paura. Si affondano i gomiti nella persona il più profondamente
possibile. I monaci si misero di buona lena al lavoro sul corpo di Ajahn
Tate. Uno gli stava su un piede, un altro su una gamba, un altro su un
braccio, tutti lavorando sodo. E lui ci si sottoponeva ogni notte. Quella
sera, mentre parlavamo di quanto mi era successo, smise di farsi
massaggiare, si mise seduto e disse: “Voglio saperne di più”. E io gli
spiegai cosa avevo provato. Quella notte mi diede quello che considero il
secondo consiglio più utile che abbia mai ricevuto sulla pratica.

Disse: “Questi momenti di chiarezza, questa consapevolezza e presenza che
hai sperimentato, sono molto positivi. D’ora in poi quello che devi fare
nella tua pratica è ricordartene il più velocemente possibile”. Ci parlavamo
attraverso un traduttore, il che non era semplice. Se ci fossimo parlati
direttamente, forse mi avrebbe detto: “Continua a esercitare la
consapevolezza nel momento e impara a tornare il più velocemente possibile a
questo modo chiaro di vedere. È molto semplice, fai lo sforzo di ricordare”.
A poco a poco, con il giusto tipo di sforzo, con una pratica costante, come
sono certo che molti di voi hanno compreso, le cose cambiano.
Solo sette anni dopo, avviluppato in una coperta durante un ritiro invernale
in Gran Bretagna, riuscii a sentire tutta l’importanza di quanto Ajahn Tate
mi aveva detto quella sera. Dopo quella conversazione, avevo vissuto momenti
di inferno.

Alla profonda, stupefacente esperienza di quella sera si erano ben presto
sostituiti stati mentali orribilmente spiacevoli e stati indescrivibilmente
terrificanti in cui dubitavo di me stesso. Per questo parlo spesso di quanto
sia importante prepararsi in modo appropriato per la pratica. A quel tempo
mi ero appena lasciato alle spalle il mondo hippy. Solo pochi mesi prima del
mio incontro con Ajahn Tate avevo abbandonato la comune in cui ero vissuto e
avevo attraversato in autostop il deserto australiano. Dopo di che avevo
cominciato la mia avanzata di isola in isola per l’Indonesia, fermandomi a
Timor per fare immersioni, a Giava per imparare il batik e proseguendo poi
per spiagge e ristoranti dalla Malesia alla Thailandia. Alla fine mi ero
ritrovato con la testa rasata e la veste monacale, immerso in questa pratica
intensiva. Di certo non avevo una preparazione adeguata.

Grazie alla gentilezza amorevole e alla sollecitudine sempre vigile di Ajahn
Tate, sopravvissi a quegli stati tanto spiacevoli. Ma mi ci vollero quasi
sette anni prima di riuscire ad apprezzare pienamente quel che mi aveva
detto in quell’occasione. Ora incoraggio gli altri a fare lo sforzo di
ricordare. Talvolta, quando dimentichiamo quel che abbiamo imparato,
sottovalutiamo le esperienze che abbiamo avuto, gli sforzi fatti, le
comprensioni profonde che sono sorte. Ajahn Chah descriveva questa tendenza
con un’immagine: “Questi momenti di consapevolezza e di comprensione sono
come il gocciolio dell’acqua di un rubinetto. All’inizio scende una goccia,
un’altra goccia, un’altra ancora, con lunghi intervalli”. Se siamo distratti
durante questi intervalli, se siamo intrappolati nei pensieri, nei contenuti
della mente e nelle sensazioni che andiamo sperimentando, tendiamo a pensare
che i momenti di consapevolezza siano nulli e li accantoniamo come fatti
accidentali. Ma Ajahn Chah diceva: “A poco a poco, con sforzo costante,
questi momenti diventano goccia, goccia, goccia e poi gocciagocciagoccia e
infine formano un corso d’acqua”. Con lo sforzo costante, si entra in una
corrente continua di consapevolezza. I momenti sono di per sé gli stessi, ma
sono ininterrotti.

Dimentichiamo, ma la buona notizia è che possiamo ricordare. Sediamo in
meditazione formale, unificando cuore e mente, e ci stabilizziamo nel
silenzio. Raggiungiamo la prospettiva, ricordiamo. La mente divaga. “Se solo
non l’avessi fatto”, pensiamo; oppure: “Perché hanno detto così?”. Vaghiamo
nel futuro: “Ho preso il biglietto per domani? Dove l’ho messo?”. Restiamo
catturati, ci smarriamo, ma poi ricordiamo, perché il nostro cuore ha preso
l’impegno di ricordare. Se semplicemente ricordiamo, va bene, ma se cadiamo
in un qualche giudizio e diciamo: “Non avrei dovuto dimenticare, la mia
pratica è pessima”, ci perdiamo di nuovo. Il punto è ricordare. Non dobbiamo
soffermarci sulla dimenticanza.

– Essere accurati –

Il consiglio di Ajahn Tate era stato: “Tutto quel che devi fare è ricordare
più velocemente”. Continuai a impegnarmi durante quel vassa ed ero molto
diligente, sebbene fossi in un tale stato di disperazione, di ricorrente
terrore, di angoscia e totale sgradevolezza, che era semplicemente una
questione di sopravvivenza. Alla fine del vassa non stavo affatto bene. Fu
deciso che avevo bisogno di tornare a Bangkok per una visita medica e per
riposare. In effetti, venni ricoverato in ospedale. Prima di partire vidi
Ajahn Tate, che mi diede un terzo insegnamento utile e significativo. E me
lo offrì con grande gentilezza e saggezza, non per semplice cortesia. Era
tanto consapevole della natura di questo sentiero. Disse: “Sii accurato”. Ne
serbo un vivido ricordo. Poi aggiunse: “Il luogo in cui ti trovi dentro di
te è molto vulnerabile, prenditene cura”.

Spesso, a Ratanagiri, inizio la meditazione serale guidando al raccoglimento
interiore con le parole: “Prestando accurata attenzione…”. Penso che in
molti casi potremmo mettere la parola ‘accuratezza’ al posto di
‘consapevolezza’. Nell’infelice condizione in cui mi trovavo quando
incontrai Ajahn Tate, le sue parole erano proprio quello di cui avevo
bisogno. Ero tanto infelice che avrei potuto molto facilmente essere duro o
incurante con me stesso. Sapete com’è quando si è un po’ disperati; ci si
comincia a rimproverare, a pensare: “Ecco, qualcuno ha fatto qualcosa di
sbagliato”. È molto difficile sentirsi infelici senza sentire che qualcuno,
inclusi probabilmente noi stessi, ha fatto un errore.

Se ci sentiamo infelici, ciò di cui si ha bisogno è l’impegno al semplice
stare con l’infelicità. Se non siamo accurati, diciamo che c’è qualcosa di
sbagliato, anche se dirlo non ci aiuta in realtà. Lo diciamo sia dentro di
noi sia all’esterno. Questo proiettare la colpa all’esterno è la conseguenza
di un’errata percezione interiore della nostra infelicità, tristezza o
sofferenza, come se fosse qualcosa di sbagliato. Non la riceviamo così
com’è.
Non la riconosciamo e non la sentiamo, permettendole di esserci; non abbiamo
l”accortezza’ di vederla come un’attività che ha luogo nella
consapevolezza. Non avendo quella prospettiva, ci sforziamo di fare qualcosa
riguardo alla nostra sofferenza, di occuparcene in qualche modo. Dire che
c’è
stato un errore e che è colpa di qualcuno è un modo sconsiderato di avere a
che fare con le esperienze spiacevoli. La costante abitudine a questo
comportamento è un sintomo di quella che io chiamo la mente giudicante
compulsiva. Il dono d’addio di Ajahn Tate: “Devi essere accurato”, mi mise
in guardia, intuitivamente se non concettualmente.

– L’unificazione della mente –

Ajahn Tate mi diede un ultimo insegnamento in occasione della mia visita di
gruppo da Bung Wai nel 1993. Pochi mesi dopo morì, all’età di novantaquattro
anni. Sedevamo vicino a lui perché non dovesse alzare la voce. Mi sentivo un
po’ riluttante a coinvolgerlo in un discorso, perché sembrava tanto fragile
e stanco; mi bastava stargli vicino. Ma con vivo interesse e grande
gentilezza, lui rispondeva alle domande che gli facevamo. Tutti i visitatori
della giornata se ne erano andati; era rimasto solo il nostro piccolo
gruppo. Ricordo che uno dei giovani monaci gli chiese se poteva definire
l’essenza
dell’insegnamento buddhista. “Il buddhismo? Vuoi una definizione del
buddhismo?”, chiese. “Il buddhismo è l’unificazione della mente” (in
tailandese: ekaggata jit). È stato detto e scritto molto riguardo al
buddhismo, e che un grande essere desse una presentazione tanto chiara e
semplice del sentiero fu un regalo prezioso.

Per chi ancora non ha una base di pratica, è comprensibile che la
definizione del buddhismo di Ajahn Tate non abbia senso. Anche se abbiamo
una tale base, per lo più ancora non sappiamo come dimorare con chiarezza,
consciamente e consapevolmente in uno stato di unificazione. Ma se abbiamo
anche solo un barlume di comprensione dell’unificazione, sappiamo che una
mente distratta e frammentata è una mente confusa, che fraintende il modo di
essere dei fenomeni. In questa condizione, il naturale benessere che
proviamo quando c’è unificazione è ostacolato.

Molti di noi hanno passato gli anni della prima giovinezza cronicamente
chiusi. Cercavamo di scegliere la giusta filosofia, la giusta formulazione
politica, il giusto stile di vita, il giusto tipo di relazione, la giusta
posizione sociale, in modo da sentirci bene nei confronti della vita. Solo
al mio primo ritiro di meditazione, durante il quale imparai a focalizzare
l’attenzione
sul respiro e a trattenere la tendenza a seguire le distrazioni, scoprii o
svelai il naturale stato di benessere che sorge quando la mente è
concentrata. Fino a quel momento pensavo di dover fare o assimilare qualcosa
per sentirmi bene. Quando ci ricordiamo o ci ricolleghiamo con la naturale
bontà del cuore, che è silenziosa, calma, in pace e limpida, allora,
attraverso la chiara visione della natura del mondo, la nostra relazione col
mondo cambia. Il mondo rimane quel che è e che è sempre stato. Ci sono
ancora piacere e dolore, intensi o lievi.

Ci sono ancora ingiustizia e lotta, delusione, gioia, contentezza e
felicità. Ma quando vediamo con chiarezza che tutto questo viene e va,
quando vediamo con consapevolezza che ogni esperienza sorge e termina, non
ci coinvolgiamo più, per una preferenza condizionata, in nessuna esperienza
in particolare. Investiamo piuttosto nella comprensione della natura
dell’esperienza.

Dunque, il quarto insegnamento di Ajahn Tate che ricordo è che quel che
davvero vale sviluppare non è una comprensione sofisticata della teoria
buddhista o un mucchio di esperienze di ritiri e di visioni profonde, ma la
comprensione di come dimorare più liberamente e frequentemente
nell’unificazione
del cuore e della mente. Quando conosciamo questo stato ed è messo nella
giusta luce sulla Via, abbiamo buone probabilità di progredire nella
pratica.

Sarò eternamente debitore ad Ajahn Tate per questi quattro insegnamenti –
semplici ma meravigliosamente significativi – e sono lieto di condividerli
con voi.

Grazie della vostra attenzione.

° ° ° ° ° °
Ajahn Munindo è un monaco con un’esperienza più che trentennale nella
tradizione theravada dei monaci thailandesi della foresta. Originario della
Nuova Zelanda, è abate del monastero Aruna Ratanagiri
(www.ratanagiri.org.uk), nel Northumberland, UK.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *