Dubbio e altri demoni

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Il dubbio e gli altri demoni

del venerabile Ajahn Jayasaro

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione Chandra Candiani

Tratto da Forest Path, a cura del monastero thailandese Wat Pa Nanachat.

Il dubbio è fondamentalmente di due tipi. C’è innanzi tutto il dubbio
che nasce da mancanza di conoscenza o di informazioni sufficienti per
eseguire un dato compito. Possiamo, per esempio, riguardo agli
insegnamenti buddhisti, nutrire dubbi su un particolare argomento.
Abbiamo dei dubbi su quale sia la strada migliore da prendere per
arrivare a una nuova destinazione. Il Buddha ritenne legittimi questi
dubbi e non li considerò come ostacoli per la crescita spirituale. Al
contrario elogiò un salutare scetticismo e una mente capace di farsi
domande: “Bene, o Kalama, voi dubitate di ciò di cui è giusto
dubitare”.

Il quinto ostacolo alla meditazione, tradotto di solito come “dubbio
scettico”, non è la semplice consapevolezza di una mancanza di
informazione, bensì la riluttanza o l’esitazione a superarla. La
persona afflitta da vicikiccha è paralizzata dall’incapacità di
rassicurarsi che sta seguendo la migliore via d’azione. In altre
parole deve avere la prova della verità di una proposizione prima
ancora di cercare di verificarla. Il Buddha ha paragonato questo
atteggiamento al viaggio in un territorio desertico.

Un uomo attraversa un deserto e sapendo che i viaggiatori possono
venire derubati o uccisi dai predoni, al rumore di un ramo o di un
uccello, sarà colmo di ansia e di spavento, pensando: “Ecco i
predoni!”. Farà pochi passi e poi, preso dalla paura, si fermerà, e
continuerà in questo modo il suo viaggio; o forse tornerà indietro.
Finendo più spesso per fermarsi che camminare, solo con sforzo e
fatica raggiungerà un posto sicuro. O forse nemmeno lo raggiungerà.

Succede lo stesso a chi dubita di uno degli otto oggetti di dubbio.
Dubitando se il Maestro sia o no un essere illuminato, egli non riesce
a considerarla come una questione di fiducia. Come il viaggiatore nel
deserto, che non sa se i predoni ci siano o no, egli continua a
riprodurre continuamente nella sua mente uno stato di titubanza e di
esitazione, una mancanza di forza di decisione, uno stato di ansia; e
così crea in se stesso l’ostacolo che gli impedisce di raggiungere un
terreno sicuro. In questo senso, il dubbio scettico è come viaggiare
nel deserto. La cultura contemporanea ci insegna a pensare, a
confrontare, ad analizzare, a usare la logica; le capacità della
‘parte sinistra del cervello’ sono molto valorizzate nella nostra vita
quotidiana. Una mente consapevole dei diversi modi di guardare alle
cose è di solito una mente tollerante. Ma senza una forte convinzione
del sentiero che ha scelto, al meditante può spesso mancare la
capacità di restare saldo sul sentiero quando il percorso diventa
arduo. Su un piano puramente razionale, si trovano sempre obiezioni
ragionevoli ai sacrifici che la vita spirituale richiede, si trovano
sempre delle alternative più comode. Quando non è presente l’assenso
emotivo dato dalla fede, il dubbio può trasformare in Amleto chiunque
di noi. Questo ostacolo influisce soprattutto sui meditanti che hanno
avuto successo nel sistema educativo convenzionale; è il lato buio
della mente investigativa. Una grande erudizione può anche essere
dannosa.

Le forme di dubbio variano. Un praticante può nutrire dubbi
sull’efficacia della tecnica o su quanto sia adatta alla sua
personalità; può non essere sicuro dell’insegnante o tormentarsi sulla
sua capacità di praticare. Vicikiccha è il più mutilante degli
ostacoli, perché, al contrario per esempio della brama o della rabbia,
può non essere percepito come un inquinante. L’elemento
dell’indulgenza tende a restare nascosto. I primi tempi del Wat Pa
Phong, la maggioranza dei monaci e dei sostenitori laici avevano una
grande fiducia in Ajahn Chah e poca cultura in senso convenzionale; il
dubbio paralizzante non era mai un problema diffuso. Più tardi, con il
maggior afflusso di abitanti della città di classe media e un
crescente numero di discepoli occidentali divenne un fatto comune. La
risposta di Ajahn Chah ai dubitatori cronici sottolineava sempre:

I dubbi non si sciolgono con le parole di qualcun altro. Finiscono
grazie alla propria pratica.

La soppressione dei dubbi attraverso la fede nelle parole di
un’autorità è sempre fragile. La fede cieca rende la mente rigida e
ristretta. L’opinione di Ajahn Chah era che il solo modo di superare
il dubbio fosse attraverso la comprensione della sua natura, in quanto
stato mentale impermanente, condizionato. Una volta spiegò perché non
offriva ai monaci colloqui quotidiani, come si usa fare in molti
centri di meditazione:

Se rispondessi a ogni vostra minima domanda, non comprendereste
mai il processo del dubbio nella vostra mente. È essenziale imparare a
esaminare se stessi, ad avere un colloquio con se stessi. Ascoltate
con attenzione i discorsi di Dhamma e poi confrontateli con la vostra
pratica personale. Si tratta della stessa cosa? Sono diversi? Come
sorge il dubbio? Chi dubita? Si può comprendere solo esaminando se
stessi. Se dubitate di tutto, sarete totalmente infelici, non
riuscirete a dormire, a mangiare, dando tutto il tempo la caccia a
questa o a quella opinione. Quello che dovete ricordare è che la
vostra mente è una bugiarda. Tenetelo presente e osservate. Gli stati
mentali non sono che stati mentali, non durano. Non intendetevela con
loro.

Fate la loro conoscenza con equanimità. Passa un dubbio ed ecco che ne
sorge un altro. Siate consapevoli di questo processo per quello che è.
Allora, vi sentirete a vostro agio. Se correte dietro ai vostri dubbi,
non sarete solo infelici, ma aumenteranno anche i dubbi. Ecco perché
il Buddha ha detto di non attaccarsi alle cose.

Alcuni praticanti raggiungono un certo punto nella loro pratica e poi
dubitano di ciò che hanno conseguito, o dello stato nel quale sono
quando meditano. Ajahn Chah diceva che nella mente non ci sono
cartelli indicatori come quelli delle autostrade:

Supponete di regalarmi un frutto. Può accadere che io sia
consapevole della dolcezza del frutto e del suo profumo, che ne
conosca ogni particolare, eccetto il suo nome. Lo stesso accade con la
meditazione. Non è necessario conoscere il nome delle cose. Conoscere
il nome del frutto non lo rende più dolce.

Dunque, siate consapevoli delle attinenti condizioni causali di uno
stato, ma se non conoscete il suo nome non importa. Conoscete il suo
aroma. Gli avete afferrato tutte e due le gambe, lasciate che lotti
quanto vuole. Il nome non è importante. Se qualcuno ve lo dice,
prendetene nota, ma se non lo fa, non c’è bisogno di agitarsi.

In un’altra occasione Ajahn Chah confortò così un discepolo occidentale:

Dubitare è naturale. Tutti cominciano dubitando. Si può imparare
molto dai dubbi. L’importante è non identificarsi con i propri dubbi,
non restarne intrappolati. Farebbero girare la tua mente in cerchi
senza fine. Osserva invece l’intero processo del dubitare,
dell’interrogarsi. Osserva chi è che dubita. Osserva come i dubbi
vengono e vanno. Allora non sarai più vittima dei tuoi dubbi. Ne
uscirai fuori e la tua mente si acquieterà. Puoi vedere come tutte le
cose arrivano e poi se ne vanno. Lascia andare quello a cui sei
attaccato. Lascia andare i tuoi dubbi e limitati ad osservare. Ecco
come si pone fine al dubbio.

L’impazienza.

Le misure della mente umana non coltivata sembrano diventare sempre
più piccole. Siamo arrivati ad aspettarci e spesso a pretendere
risultati veloci premendo un bottone o girando una chiave. La nostra
implicita opinione di solito è che velocità e comodità sono di per sé
dei valori. Ma questo non è sempre vero per la vita spirituale, così
come non esistono scorciatoie che aspettano di essere scoperte. Come
disse il Buddha, è un sentiero graduale, che dipende da una graduale
maturazione. Se abbiamo fretta, la nostra incapacità di accelerare le
cose può crearci grande frustrazione. Ajahn Chah diede questo
insegnamento a un discepolo impaziente:

Meditare per realizzare la pace non è come schiacciare un bottone
o accendere la luce elettrica e aspettarsi che tutto sia
immediatamente inondato di luce. Tutti i dhamma (i fenomeni) sorgono
da cause. Quando vengono a cessare le cause, cessano anche i loro
risultati. Devi continuare saldamente a praticare. Non otterrai o
noterai alcun risultato in uno o due giorni. L’altro ieri uno studente
universitario è venuto a consultarmi sulla sua pratica. Quando medita,
la mente non è a suo agio, non è in pace. È venuto a chiedermi di
caricargli le batterie (risata). Bisogna cercare di esercitare uno
sforzo costante. Non si può comprendere attraverso le parole di
qualcun altro. Devi scoprirlo da te. Non devi meditare molto, basta
poco, ma ogni giorno. E fai anche ogni giorno la meditazione
camminata.

Per poco o tanto che tu mediti, quello che conta è farlo ogni giorno.
Sii parco di parole e osserva di continuo la tua mente. Confuta
qualsiasi cosa sorga nella mente, che sia piacevole o dolorosa. Niente
dura; tutto è illusorio. Chi non ha mai praticato, dopo un paio di
giorni in cui la mente non riesce a trovare pace, comincia a pensare
di non poter meditare. Se ti accade, dovresti chiederti se hai
ricevuto degli insegnamenti prima di nascere. In questa vita, hai mai
cercato di pacificare la mente? Per molto tempo, hai semplicemente
lasciato che girasse a modo suo. Non l’hai mai addestrata. Arrivi,
pratichi per un po’ e vuoi sentirti in pace. Ma le cause non sono
sufficienti e quindi i risultati non si verificano. È inevitabile. Se
vuoi arrivare alla liberazione, devi essere paziente. La paziente
perseveranza è il principio guida nella pratica. Il Buddha ci ha
insegnato a non andare né troppo lentamente, né troppo velocemente, ma
semplicemente a mantenere ‘retta’ la mente. Non c’è bisogno di
agitarsi. La pratica è come piantare un albero. Scavi un buco e vi
infili l’albero. Dopo di che il tuo lavoro consiste nel riempire di
terra tutt’intorno, nel mettere il concime, nell’innaffiare l’albero e
nel proteggerlo dai parassiti. È questo il tuo compito; è quello che
fanno i proprietari di un frutteto. Ma che l’albero cresca veloce o
lento sono fatti suoi, non ha niente a che fare con te. Se non conosci
i limiti delle tue responsabilità, finirai per cercare di fare anche
il lavoro dell’albero e soffrirai. Tutto quello che devi fare è
procurare il concime, innaffiare e tenere lontani gli insetti. La
velocità di crescita dell’albero è un problema suo. Se conosci quali
sono e quali non sono le tue responsabilità, allora la tua meditazione
sarà facile e rilassata, non tesa e nervosa.

Quando la tua pratica seduta è calma, osserva la calma. Quando non è
calma, osserva che quando c’è calma c’è calma, se non c’è non c’è; non
devi soffrire, quando la mente non è calma. È una pratica errata
esultare quando la mente è calma, o deprimerti quando non lo è.
Soffriresti per un albero? Per il tramonto o per la pioggia? Le cose
sono come sono e, se lo comprendi, la tua meditazione procederà bene.
Dunque continua a percorrere il sentiero, continua a praticare,
continua ad affrontare i tuoi compiti, e a meditare nei periodi
appropriati. Quello che ne guadagni, quello che ottieni, quanta calma
raggiungi, dipenderà dalla forza della virtù che hai accumulato. Come
il proprietario di un frutteto che conosce la portata delle sue
responsabilità verso l’albero vive nel buon umore, così quando il
praticante comprende i suoi compiti nella pratica, allora la
‘rettitudine’ si stabilisce spontaneamente da sé.

Solo la postura cambia.

Un tema ricorrente negli insegnamenti di Ajahn Chah è l’accento sulla
continuità della presenza mentale. In un’occasione così istruì il
sangha:

La meditazione non è limitata a stare in piedi, o a camminare, a
sedere o a sdraiarsi, ma non potendo vivere la nostra vita senza
movimento e attività, dobbiamo incorporare tutte e quattro le posture
nella nostra pratica. E il principio guida su cui fare assegnamento in
ognuna di esse è la crescita della saggezza e della rettitudine.
‘Rettitudine’ significa retta visione ed è un altro modo di chiamare
la saggezza. La saggezza può sorgere in qualsiasi momento, in
qualunque delle quattro posture. In qualsiasi postura puoi avere
pensieri negativi o positivi, pensieri errati o corretti. I discepoli
del Buddha sanno realizzare il Dhamma stando in piedi, camminando,
sedendo o stando sdraiati. Dunque, dov’è il punto focale di questa
pratica fondata sulle quattro posture? Si trova nella coltivazione
della retta visione, perché quando c’è la retta visione, nasce la
retta aspirazione, la retta parola, e il resto dell’ottuplice
sentiero.

Sarebbe meglio cambiare il nostro modo di esprimerci. Anziché dire che
usciamo dal samadhi dovremmo dire semplicemente che cambiamo postura.
Samadhi significa stabilità della mente. Quando emergete dal samadhi,
mantenete questa stabilità nella presenza mentale e nella
consapevolezza di sé, nel vostro intento, nelle vostre azioni, tutto
il tempo.

Al termine di una sessione di meditazione, è scorretto pensare di
avere concluso un lavoro. Impegnate uno sforzo costante. È mantenendo
uno sforzo costante nel vostro lavoro, nelle azioni, nella presenza
mentale e nella consapevolezza di sé che la vostra meditazione si
svilupperà.

Il desiderio di conoscere e di vedere.

La meta della meditazione è comprendere la natura di ogni esperienza,
e non raggiungere un’esperienza in particolare, per quanto elevata
possa essere. Molti che intraprendono la pratica della meditazione
sono costernati nello scoprire quanta agitazione e inquinamento vi sia
nella loro mente e possono arrivare a pensare che le cose spiacevoli
che vedono siano causate dalla meditazione anziché messe in luce da
essa. Molti cominciano a bramare esperienze speciali per valorizzare i
loro sforzi. Se una particolare esperienza è convenzionalmente
ritenuta ‘speciale’, allora colui che l’ha sperimentata, il suo
possessore, deve esserlo anche di più e le sensazioni di rapimento che
accompagnano tali esperienze sembrano confermarne l’importanza.
Tendiamo a credere che più un’esperienza è intensa, più è reale. Per i
discepoli di Ajahn Chah è stato spesso difficile apprezzare la sua
risoluta insistenza che tutte le esperienze hanno alla fine lo stesso
valore, e sono ugualmente capaci di causare sofferenza a chi se ne
delizia.

I meditanti vogliono un ritorno per il loro lavoro. Una volta un
monaco chiese ad Ajahn Chah perché, nonostante avesse fatto grandi
sforzi nella sua meditazione, non avesse ancora mai visto le luci e i
colori che gli altri dicevano di vedere. Ajahn Chah ripose:

Vedere la luce? Perché vuoi vedere la luce? A cosa pensi che ti
gioverebbe? Se vuoi vedere la luce, vai a guardare una lampada
fluorescente. Ecco com’è la luce.

Una volta spente le risate, Ajahn Chah continuò:

La maggior parte dei meditanti è così. Vogliono vedere la luce e i
colori. Vogliono vedere gli dèi, il paradiso e l’inferno, e tutto quel
genere di cose. Non lasciatevene intrappolare.

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