Per “reincarnazione” s’intende…

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Per “reincarnazione” s’intende…

Tratto da un articolo di Claudio Petrolati nella rivista “Luce ed ombra”

Per « reincarnazione » s’intende il passaggio dell’individualità, sopravvissuta alla morte fisica,
in un altro corpo, dopo un intervallo più o meno lungo.
La reincarnazione è un archetipo o idea madre, nel senso che essa esprime un’esigenza profonda
dell’inconscio di tutta l’umanità. Forse essa è stata suggerita all’uomo primitivo dagli stessi
ritmi della natura con i suoi cicli e le sue stagioni e si è espressa poi in numerose figure
simboliche come quella dell’araba fenice, uccello mitico che arde per poi rinascere dalle sue ceneri
con la freschezza della gioventù. Al tempo stesso la reincarnazione è il sistema religioso più
seguito nel mondo, intuita e discussa da pensatori, alcuni dei quali vi hanno visto l’unica ipotesi
di sopravvivenza a cui la filosofia possa prestare seriamente attenzione.

Il problema della reincarnazione è da qualche anno anche oggetto d’indagine sperimentale da parte
della parapsicologia. Soprattutto uno psichiatra-parapsicologo, l’americano Ian Stevenson docente
universitario, ha legato il suo nome a questa ricerca.
La « Virginia Schoo of Medicine », l’università per la quale egli lavora, ha raccolto numerosi casi
autentici di apparente reincarnazione, sottoponendoli ad analisi computerizzata per evidenziarne i
punti in comune.

Il metodo di ricerca dello Stevenson s’ispira a quello dei grandi pionieri della ricerca psichica
relativo ai casi spontanei ed è un chiaro esempio di sperimentazione rigorosa ed ineccepibile.

Lo studio dello Stevenson e di pochi altri parapsicologi si basa su determinate persone che
presentano ricordi di un’ipotetica esistenza precedente. Questi ricordi, generalmente, compaiono
sotto forma di sogni chiari e ricorrenti, per effetto di ipnosi o di intossicazione di droghe come
la dietilamide dell’acido lisergico o LSD, e durante la meditazione. Poiché in questo campo di studi
la suggestione e le motivazioni religiose giocano un ruolo decisivo, lo Stevenson ha incentrato la
sua ricerca sui bambini, che difficilmente presentano questi condizionamenti e che hanno ricordi
spontanei.

Ad esempio un bambino dai due ai quattro anni può comportarsi in modo da far credere che in lui sia
rinata una « personalità precedente »: termine ipotetico per definire l’io che rinascerebbe in un
altro corpo.
Egli parla di un’altra vita o, se non parla ancora bene, pronuncia parole e compie dei gesti
particolarmente significativi a favore della reincarnazione. Qualche bambino ricorda pochi
particolari; qualcuno giunge a ricordane settanta.
I riferimenti a una vita precedente s’intensificano fino a cinque-sei anni, periodo in cui il
bambino smette di ricordare o non racconta più. Generalmente all’età di Otto anni i riferimenti ad
una vita precedente cessano.
Oltre a ricordare, il bambino si comporta come se realmente egli fosse la « personalità precedente
»: può comportarsi da adulto, è attratto o respinto dalle cose che in vita la « personalità
precedente » amava o respingeva; talvolta pretende di visitare i luo­ghi e le persone già conosciute
che lo attraggono fortemente. Spesso il bambino presenta segni e deformità congenite nello stesso
punto in cui la « personalità precedente » era stata mortalmente ferita; talvolta soffre
semplicemente di una disfunzione interna legata alla sua ipotetica vita precedente.

Il parapsicologo interviene quando il bambino presenta i primi sintomi, per raccogliere informazioni
di prima mano. Allo stato attuale lo Stevenson ha raccolto centinaia di testimonianze di questo
genere: una casistica di notevole valore. Tutti i casi indagati, sottoposti ad analisi
computerizzata, offrono due caratteristiche «universali », perché presenti in tutte le culture
studiate:
a) la « personalità precedente » generalmente è morta in modo violento;
b) i ricordi collegati alla morte assumono nel soggetto un’importanza decisiva. Di fronte a questi
casi di apparente reincarnazione, la parapsicologia fa generalmente ricorso all’ipotesi della
percezione extrasensoriale con « personificazione ».
Il bambino capterebbe, tramite telepatia o retrocognizione, le informazioni relative al de­funto dai
suoi amici o parenti e successivamente le drammatizzerebbe come se la persona scomparsa si fosse
realmente incarnata in lui.

Questa ipotesi è valida per quegli ambienti in cui si crede nella reincarnazione e in cui il bambino
è in contatto con la famiglia dello scomparso; non è applicabile agli altri casi. Sorprende
soprattutto il fatto che questi bambini general­mente non sono sensitivi o medium ed hanno questi
ricordi paranormali limitatamente a pochi anni della loro fanciullezza, inoltre presentano capacità
ed abilità che sembrano superare di gran lunga la facoltà ESP, come il fatto di parlare in una
lingue straniera mai studiata. Tuttavia, anche in questi casi l’ipotesi di una reale reincarnazione
non può essere considerata conclusiva perché noi ancora non conosciamo totalmente la natura ed i
limiti della «psi», o facoltà paranormale.

Analisi di un caso indagato da Jan Stevenson

Tra i casi presentati dallo Stevenson nel suo libro « Reincarnazione, 20 casi a sostegno », ne ho
scelto uno in cui il soggetto analizzato presenta ricordi precisi di una « esistenza precedente » ed
insieme dei segni congeniti. La vicenda si è svolta tra gli Indiani Tlingit, che abitano la maggior
parte dell’Alaska sud orientale e tra i quali è molto diffusa la credenza nella reincarnazione.

Nella primavera del 1946 mori Victor Vincent, un Tlingit puro sangue. Nell’ultimo anno di vita, egli
frequentava con molto affetto la casa di sua nipote, la signora Chotkin, figlia della sorella.
Durante una delle sue visite, egli le aveva detto queste parole: « Ritornerò come il vostro prossimo
figliolo; spero che allora non balbetterò tanto quanto adesso.
Il vostro figliolo avrà queste cicatrici ». Poi sollevò la camicia, mostrando una cicatrice nella
schiena: il postumo di un’operazione, come evidenziavano i piccoli fori della cucitura. Egli mostrò
inoltre una cicatrice sul naso, dovuta ad un’altra operazione, nel lato destro: anche da questo
secondo segno sua nipote avrebbe riconosciuto la sua rinascita.
Parlando ancora del suo ritorno, Victor Vincent disse che si sarebbe trovato bene nella nuova
famiglia anche perché era convinto che sua sorella defunta, madre della signora Chotkin, era già
rinata come figlia di quest’ultima. Rinascere per lui era dunque un ‘occasione per vivere nuovamente
con sua sorella.

Diciotto mesi dopo la morte di Victor Vincent, la signora Chotkin diede alla luce nel 1947 un bimbo
che ebbe lo stesso nome del padre: Corliss Chotkin junior.
Alla sua nascita questi presentava due segni sul corpo, della forma e nel punto delle cicatrici
indicate dallo scomparso Victor Vincent. Il segno sul naso, inizialmente nel punto esatto della
cicatrice, tendeva a scendere fino alla narice destra e da rossastro che era appariva leggermente
pigmentato e definitivamente depresso. Il segno sul dorso, invece, « . . ha la chiara caratteristica
di una cicatrice da operazione.
E’ situato nel dorso circa Otto pollici sotto la linea mediana.
E’ molto pigmentato ed in rilievo, lungo circa un pollice e largo un quarto di pollice. Lungo i suoi
margini si discernono chiaramente parecchi piccoli segni rotondi all’esterno della cicatrice
principale. Quattro di essi, su di un lato, assomigliano ai segni lasciati dalla cucitura di
un’operazione chirurgica.
Dall’altro lato, l’allineamento è meno definito. Anche questo segno è sceso più in basso ed è
diventato più fortemente colorato ». La madre attribuiva questa trasformazione al fatto che il
bambino grattava spesso il segno che gli prudeva.

Appena fu in grado di parlare, Corliss junior cominciò a manifestare conoscenze paranormali. Alla
madre che gli insegnava pazientemente a ripetere il suo nome, egli rispose con impeto: « Non mi
conoscete? Io sono Kahkody ».
Questo era il nome tribale di Victor Vincent, pronunciato dal bimbo con un ottimo accento. All’età
di due anni, viaggiando con la madre, riconobbe spontaneamente una figliastra di Victor Vincent, che
chiamò col suo vero nome provando un’eccitazione incontenibile. Sempre a due anni riconobbe
spontaneamente, e all’insaputa della madre, il figlio di Victor Vincent, gridando:

« Qui c’è William, mio figlio ». All’età di tre anni, riconobbe senza nessuna indicazione la vedova
di Victor Vincent, scorgendola tra la folla prima di sua madre, e gridando: « Questa è la vecchia
signora ».

In un’altra occasione, il bimbo riconobbe un’amica di Victor Vincent la quale passava casualmente
dietro la sua casa mentre egli stava giocando: la chiamò col suo giusto nome, anzi col nomignolo.
Sempre nello stesso modo riconobbe altri tre amici di Victor e in una di queste tre circostanze era
solo, senza sua madre. La signora Chotkin aggiunse inoltre che il bimbo aveva riconosciuto anche
altri amici di Victor Vincent, ma ella non era in grado di riferire i dettagli precisi di questi
incontri avvenuti all’età di sei anni.

In altre circostanze Corliss junior narrò due episodi della vita di Victor non appresi per via
normale. Descrivendo dettagliatamente un incidente capitato in una canale a Vincent mentre pescava
sopra un battello, riferì che questi si era cambiato d’abito, indossando l’uniforme dell’Esercito
della Salvezza, per attirare l’attenzione su di sé e farsi così soccorrere poiché il motore si era
guastato. Sua madre aveva appreso questo episodio dalla viva voce di Victor Vincent, ma era sicura
che il bimbo non lo aveva mai ascoltato né da lei né da suo marito.

Successivamente, mentre il bambino era con sua madre nella casa un tempo abitata da Victor,
ricordando di aver già sostato in una stanza, disse all’improvviso: « Quando la vecchia signora ed
io vi venivamo a trovare, dormivamo in questa camera da letto ». L’osservazione appariva vera, ma
sconcertante, poiché quello stabile, un tempo adibito ad abitazione, veniva impiegato adesso per
altri usi ed era impossibile scorgervi una camera da letto.

Oltre a riconoscere luoghi e persone legate a Victor Vincent, il bimbo presentava anche
atteggiamenti che ricordavano decisamente il suo modo di comportarsi. Contrariamente a quanto sua
madre gli aveva insegnato, si pettinava i capelli in avanti sulla fronte esattamente come Victor
Vincent; balbettava in modo accentuato finché perse gradualmente questo disturbo grazie ad una cura
adatta; come Victor Vincent, egli era assai religioso e desiderava intensamente frequentare il
catechismo; come lui manifestava un’intensa passione per la vita sull’acqua e per le barche a
motore, al punto da apprenderne da solo il funzionamento.

Esaminato questo caso di apparente reincarnazione, è interessante seguirne brevemente gli sviluppi,
poiché lo Stevenson ebbe modo di incontrare ancora Corliss junior e la sua famiglia sette anni dopo.
Il giovane aveva ormai 25 anni. Lo Stevenson conversò a lungo con i genitori, e un po’ più
brevemente con lui, delle sue cicatrici, dei ricordi e del comportamento in relazione a una vita
precedente.

Corliss aveva proseguito gli studi fino all’età di 19 anni, con non molta diligenza e, chiamato
nell’esercito, aveva trascorso due anni sotto le armi riportando una grave lesione ad un orecchio
per l’esplosione di una granata nemica. Rimasto sordo da quel lato e sensibile ad ogni forma di
rumore, era stato assunto dopo il congedo come semi-invalido in una fabbrica di carta.

Sua madre disse che il giovane non parlava spontaneamente della sua vita precedente, anzi ne rideva
se il discorso veniva fuori. Tuttavia, egli non rise di ciò in presenza dello Stevenson e dimostrò
un serio interesse alla cosa. Disse ché non aveva più ricordi della sua vita precedente: ricordava
solo l’episodio della sua infanzia in cui alcune vecchie donne Tlingit lo chiamavano « Kahkody »,
nome tribale con cui era conosciuto Victor Vincent e che era il suo da piccolo.

Per quanto riguarda l’attuale comportamento in relazione ad una esistenza precedente, fu possibile
accertare tre dettagli: il giovane continuava ad avere un notevole interesse per i motori di
qualunque tipo; la balbuzie non era totalmente scomparsa, perché persisteva in quei casi in cui egli
era eccitato o emozionato. Sua madre sottolineava, comunque, che il difetto del figlio era
notevolmente inferiore a quello di Victor Vincent, il quale «balbettava sempre quando parlava ». Il
giovane, però, non balbettò mai durante l’ora di dialogo trascorsa con lo Stevenson.

Il profondo sentimento religioso, caratteristico della sua adolescenza si era notevolmente
affievolito, probabilmente in seguito al dramma della guerra e dopo un’esperienza negativa con i
membri del gruppo religioso locale. Dei due segni congeniti, quello sul naso risultava meno
appariscente ed appena visibi­le; quello sul dorso era stato asportato chirurgicamente poiché,
grattato in continuazione per il prurito, minacciava un cam­biamento maligno dei tessuti. Nel 1972
lo Stevenson potè vedere le cicatrici dell’operazione perfettamente riuscita.

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