La dottrina della reincarnazione 1

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La dottrina della reincarnazione 1

a cura di E. Valea

Nella prima parte di questo studio esamineremo la dottrina della reincarnazione, e in particolare le
sue origini, il punto di vista delle religioni, le prove a suo favore e quelle ad essa contrarie, le
implicazioni di questa dottrina, e infine il punto di vista cristiano.
Nella seconda parte esamineremo la dottrina della reincarnazione alla luce della Bibbia.

Il concetto di reincarnazione offre una spiegazione alternativa affascinante riguardo alle origini
dell’uomo e al suo destino. C’è un interesse crescente su questo argomento oggi, grazie soprattutto
ai libri e alle riviste, alle trasmissioni televisive, i film e le conferenze. Molte di queste fonti
sono collegate al mondo del sapere esoterico e delle cosiddette scienze occulte. La reincarnazione è
anche un soggetto particolarmente “caldo” su internet. È accettata non soltanto dai seguaci delle
religioni orientali e delle correnti new age, ma anche da tanti che non condividono tali interessi e
dottrine esoteriche.

La reincarnazione sembra dare speranza per la continuazione dell’esistenza della persona, che può
nelle vite successive avere maggiori possibilità di conseguire la liberazione. Appare come una fonte
di conforto specialmente per coloro che cercano liberazione sulla base delle proprie possibilità
interiori. D’altra parte, la reincarnazione è un modo per liberarsi dalla preoccupazione del
giudizio finale da parte di un Dio imparziale, e dalle conseguenze eterne che avrebbero le proprie
azioni se ci fosse una sola esistenza da vivere in questo mondo.
Un altro motivo importante per cui molti credono alla reincarnazione è che essa sembra spiegare il
motivo delle differenze che esistono tra le persone. Prendendo in considerazione gli estremi,
notiamo alcuni che sono in buona salute, e altri tormentati da handicap che li accompagnano per
tutta la vita. Alcuni sono ricchi, altri vivono nella miseria. Alcuni trovano realizzazione nella
religiosità, mentre altri nonostante i loro sforzi non sono mai soddisfatti.
Le religioni orientali spiegano che queste differenze sono il risultato delle vite precedenti che
una persona ha vissuto, bene o male, di cui si raccolgono i frutti nella vita presente attraverso
l’azione del karma. Ecco dunque che la reincarnazione sembra essere un modo perfetto per punire o
ricompensare le proprie opere, senza il bisogno di credere alla realtà di un Dio personale.

Considerato l’enorme impatto che questa ideologia ha sulla vita sociale e spirituale delle persone,
analizzeremo di seguito gli argomenti principali:

A) La reincarnazione nelle religioni del mondo;
B) Il ricordo di vite precedenti come prova della reincarnazione;
C) La reincarnazione e la giustizia cosmica;
D) La reincarnazione e il Cristianesimo.

A) LA REINCARNAZIONE NELLE RELIGIONI ORIENTALI
Quello della reincarnazione non è un concetto tanto antico come si pensa. Non è un elemento comune a
molte delle antiche religioni conosciute, e la sua origine non appartiene a un passato immemorabile.

La forma classica della dottrina della reincarnazione fu formulata in India, ma certamente non prima
del 9° secolo a.C., quando gli scritti brahmani furono composti. Quando le Upanihad (tra il 7° e il
5° secolo a.C.) ebbero definito chiaramente il concetto, esso fu adottato dalle altre grandi
religioni orientali che ebbero origine in India, il Buddismo e il Giainismo. In seguito alla
diffusione del Buddismo, la reincarnazione fu poi adottata dal Taoismo cinese, ma non prima del 3°
secolo a.C.

Le antiche religioni del mondo mediterraneo svilupparono credi reincarnazionisti piuttosto
differenti. Ad esempio, il platonismo greco affermava la preesistenza dell’anima in un mondo
celestiale e la sua caduta in un corpo umano. Per liberarsi, l’anima aveva bisogno di essere
purificata mediante la reincarnazione. In questo Platone fu fortemente influenzato dalle più antiche
scuole filosofiche. Il primo importante sistema filosofico greco ad adottare una visione della
reincarnazione paragonabile a quella induista fu quello neoplatonico, nato nel 3° secolo d.C., sotto
influenze orientali.

Nel caso dell’antico Egitto, il Libro Egizio dei Morti descrive il viaggio dell’anima verso l’altro
mondo senza ritornare alla terra. E’ noto che gli antichi egizi imbalsamavano i morti in modo che il
corpo potesse essere preservato e accompagnare così l’anima nell’altro mondo. Ciò suggerisce che
questo popolo credesse nella resurrezione anziché nella reincarnazione.
Allo stesso modo, in molti casi di antiche religioni tribali che oggi sono descritte come aderenti
al concetto di reincarnazione, si tratta invece di credenza nella preesistenza dell’anima prima
della nascita o nella sua sopravvivenza indipendente dopo la morte. Ciò non è collegabile all’idea
classica di trasmigrazione da un corpo fisico a un’altro secondo una la legge impersonale come
quella del karma.

LA REINCARNAZIONE NELL’INDUISMO

L’origine del samsara va cercato nell’Induismo e nei suoi scritti classici. Non può essere apparsa
prima del 9° secolo a.C. perché gli inni vedici (i più antichi testi nell’Induismo) non la
menzionano; ciò prova che la dottrina della reincarnazione non era stata ancora formulata al tempo
della loro stesura (tra il 13° e il 10° secolo a.C.).

A quel tempo – come si evince ad esempio dall’esegesi del rituale funerario – si credeva che l’uomo
continuava ad esistere dopo la morte come persona completa. Tra l’uomo e gli dèi esisteva un
distinzione assoluta, come in tutte le altre religioni politeistiche del mondo. Siamo piuttosto
lontani dal concetto di una fusione impersonale con la fonte di tutta l’esistenza, che troviamo più
tardi negli Upanishad.

Troviamo poi Yama, il dio della morte (menzionato anche nei testi sacri buddisti e taoisti), che
regnava sulle anime dei defunti; a lui le famiglie facevano delle offerte in favore dei propri cari
deceduti.
La giustizia divina era amministrata dagli dèi Yama, Soma e Indra, non da una legge impersonale come
il karma. Queste divinità, anzi, avevano il potere di gettare i malvagi in una buia prigione eterna
dalla quale essi non sarebbero mai più potuti scappare (Rig Veda 7,104,3-17).

(Per uno studio sull’evoluzione e la relazione tra le dottrine religiose politeiste e monoteiste si
veda questo documento.)

La premessa per l’ottenimento di una ricompenza per le proprie azioni in una nuova esistenza terrena
(invece di una celeste) apparve negli scritti brahmani (9° secolo a.C.). In essi si affermava una
limitata immortalità celeste, che dipendeva dalle opere e della qualità dei sacrifici fatti duranti
la vita. Dopo aver raccolto la ricompensa per queste cose, l’uomo doveva affrontare un’altra morte
nel regno celeste (punarmrityu) e quindi ritornare all’esistenza terrena. L’antidoto a questa
situazione era considerato come conoscenza esoterica, ottenibile solo durante la propria esistenza
terrena.

LA REINCARNAZIONE NEGLI UPANISHAD

Gli Upanishad furono i primi scritti in cui si spostò il luogo della “seconda morte” dal cielo alla
terra, identificandone la giusta soluzione con la conoscenza dell’identità atman-Brahman.

L’ignoranza della propria individualità (atman o purusha) mette in azione il karma, la legge di
causa ed effetto della spiritualità orientale. La sua prima formulazione può essere trovata in
Brihadaranyaka Upanishad (4,4,5): “Secondo come si agisce, secondo come ci si comporta, così si
diventa. Chi fa bene diventa bene. Chi fa male diventa male. Si diventa virtuosi con le azioni
virtuose, malvagi con le azioni malvagie”.

La reincarnazione (samsara) è la via pratica con cui si raccoglie il frutto delle proprie azioni.
Pertanto, l’individuo è obbligato a entrare in una nuova esistenza materiale finché tutto il debito
karmico che ha accumulato è pagato (Shvetashvatara Upanishad 5,11).

Qui può essere osservata una mutazione fondamentale nel significato della vita dopo la morte in
confronto alla prospettiva vedica. Abbandonando il desiderio di avere comunione con gli dèi (Agni,
Indra, ecc.), conseguita come risultato dei buoni sacrifici portati, gli Upanishad giungono a
considerare il destino finale dell’uomo come una fusione impersonale tra atman e Brahman,
raggiungibile esclusivamente tramite la conoscenza esoterica. In questo nuovo contesto, il karma e
la reincarnazione sono gli elementi chiave che segneranno da ora in poi ogni particolare sviluppo
nell’Induismo.

LA REINCARNAZIONE NEI PURANA

Nel Bhagavad Gita, che è parte del Mahabharata, il concetto di reincarnazione è espresso chiaramente
come un processo naturale della vita che dev’essere seguito da tutti i mortali (2,13; 2,22).

Nei Purana invece la speculazione su questo soggetto è più sostanziale e si considerano dei destini
specifici per ogni tipo di male che si commette: chi uccide un sacerdote rinasce tisico, chi uccide
una mucca rinasce gobbo o demente, chi uccide una vergine rinasce lebbroso, chi mangia la carne
rinasce di colore rosso, chi ruba del cibo rinasce topo, chi ruba del grano rinasce locusta, chi
ruba profumo rinasce puzzola, e così via (Garuda Purana 5).

Simili punizioni si trovano anche nelle Leggi di Manu (12, 54-69).

INDUISMO: CHI O COSA SI REINCARNA?

Secondo gli Upanishad e la filosofia Vedanta, l’entità si reincarna nell’sè impersonale (atman).
L’atman manca non ha un elemento personale, ragion per cui l’uso del pronome riflessivo “sè” (l’io)
non è corretto. Si può definire l’atman solo negando ogni attributo personale. Sebbene esso
costituisca il substrato esistenziale dell’esistenza umana, l’atman non può essere ciò che trasporta
il “progresso spirituale” della persona, perché non può mantenere nessun dato prodotto nel dominio
illusorio dell’esistenza psico-mentale. Il progresso spirituale che si accumula verso la
realizzazione dell’identità atman-Brahman è registrato dal karma, o piuttosto da una minima quantità
di debito karmico. A seconda del proprio karma, alla (ri)nascita l’intero essere fisico e mentale
che costituisce l’essere umano viene ricostruito. A questo livello, la persona così rimodellata
sperimenta i frutti delle “sue” azioni derivanti dalle vite precedenti e deve fare del suo meglio
per fermare il circolo vizioso avidya-karma-samsara.

Per cercare di spiegare il meccanismo della reincarnazione, l’Induismo Vedanta ha adottato il
concetto di un corpo sottile (sukshma sharira) che resta attaccato all’atman per tutta la durata
della sua schiavitù, e registra i debiti karmici e li trasmette da una vita all’altra. Comunque,
questo “corpo sottile” non può essere una forma in grado di preservare gli attributi personali, in
quanto non offre informazioni riguardanti le vite precedenti alla presente vita psico-mentale. Tutti
questi dati sono cancellati, così che i fatti registrati dal corpo sottile sono una somma delle
tendenze nascoste o impressioni (samskara) provenienti dal karma. Si materializzano inconsciamente
nella vita dell’individuo, senza dargli alcun modo di comprendere la sua condizione attuale. Non
esiste nessuna possibile forma per trasmettere la memoria cosciente da una vita all’altra, perché il
suo dominio appartiene al mondo delle illusioni e si dissolve alla morte.

Nei darshana Samkhya e Yoga, l’entità che si reincarna è chiamata purusha, un equivalente
dell’atman. Data l’assoluta dualità tra purusha e prakriti (sostanza), niente di ciò che appartiene
alla vita psico-mentale può passare da una vita all’altra perché appartiene alla prakriti, che a una
relazione meramente illusoria con la purusha. Comunque, nello Yoga Sutra (2,12) viene definito un
meccanismo simile per la trasmissione degli effetti del karma da una vita all’altra, come nel caso
della Vedanta. Il serbatoio del karma è chiamato karmashaya. Esso accompagna la purusha da una vita
all’altra, e rappresenta l’insieme delle impressioni (samskara) che non hanno potuto manifestarsi
nei limiti di una data vita. Non si tratta assolutamente di una memoria cosciente, di un insieme di
informazioni che la persona può usare consciamente o di un nucleo di personalità, perché il
karmashaya non ha niente a che fare con le abilità psico-mentali. Questo deposito di karma serve
soltanto come meccanismo per adattare gli effetti del karma sulla vita della persona. Impone in modo
meccanico e impersonale la rinascita (jati), la durata della vita (ayu) e le esperienze che devono
accompagnarla (bhoga).

LA REINCARNAZIONE NEL BUDDISMO

Il Buddismo nega la realtà di un sè permamente, e spiega l’esistenza umana come un mero accumulo di
cinque aggregati (skandha), che hanno una relazione funzionale di causa-effetto: 1) il corpo (la
forma materiale e i sensi), 2) sensazione (prodotto dei sensi), 3) percezione (costruito sulla
sensazione), 4) attività mentale, e 5) consapevolezza.
Tutti e cinque gli elementi, e l’insieme che essi costituiscono, sono non permanenti (anitya); sono
sottoposti a una continua trasformazione, e non posseggono un principio dimorante in essi, un “sè”.
L’uomo solitamente pensa di averne uno a motivo della sua coscienza di se stesso. Ma essendo egli
stesso in un continuo processo di trasformazione e cambiamento, la coscienza non può essere
identificata con un sè che si possa supporre essere permanente. Oltre i cinque aggregati menzionati
prima non può essere trovato nient’altro nell’uomo.

Comunque, qualcosa deve potersi reincarnare, secondo i dettami del karma. Quando fu chiesto al
Buddha la spiegazione delle differenze tra le persone riguardo alla durata vitale, malattie,
benessere materiale, ecc., egli rispose che gli uomini ereditano le conseguenze delle loro azioni, e
che queste stabiliscono la loro condizione bassa o elevata (Majjhima Nikaya 3,202).

Se non esiste un vero sè, chi eredita allora le azioni e si reincarna? Buddha rispose che solo il
karma passa da una vita all’altra, usando la figura della luce di una candela, che è derivata da
un’altra candela senza possedere una sostanza propria. Il Buddismo insegna che nella stessa maniera
si ha la rinascita senza il trasferimento del sè da un corpo all’altro. L’unico collegamento tra una
vita e la successiva è di natura causale. Questa è sensa dubbio la più assurda definizione di
reincarnazione che si sia mai avuta. Nella Sutra della Ghirlanda (10) si legge (trad.): “A seconda
delle azioni compiute, si hanno le conseguenze che ne risultano; ma chi agisce non ha esistenza:
questo è l’insegnamento del Buddha”.

Le scuole Yogachara e Vajrayana (Buddhismo tibetano) del Buddismo Mahayana insegnano che esiste
un’entità che si reincarna: è la consapevolezza (uno dei cinque aggregati), che ha dunque la stessa
funzione dell’atman della Vedanta. Il Libro Tibetano dei Morti descrive in dettaglio le presunte
esperienze avute nello stato intermedio tra due incarnazioni, suggerendo che il defunto mantiene i
suoi attributi personali. Sebbene in questo caso non viene detto chiaramente cosa sopravvive dopo la
morte, è menzionato un corpo mentale che non può essere toccato dalle visioni che il defunto
sperimenta (12).

Qualunque sia la condizione del defunto dopo la morte secondo il Buddismo, è evidente che un
eventuale nucleo personale svanirebbe subito dopo la nascita, pertanto non può esservi alcun
elemento psico-mentale trasmesso da una vita all’altra. La persona nata non ricorda niente delle
vite precedenti, né dei viaggi da uno stato intermedio a un altro (bardo).

Un altro elemento contraddittorio nella teoria buddista della reincarnazione è l’estrema rarità
della reincarnazione come esseri umani. Il Buddha insegnò nella Chiggala Sutta che è una rara
coincidenza l’ottenere un corpo umano, proprio come è una rara coincidenza che sorga nel mondo un
Tathagata, un individuo degno e consapevole.

Volendo prendere alla lettera le parole del Buddha (Samyutta Nikaya 35,63), è stato calcolato che la
possibilità di incarnarsi come essere umano è di una sola possibiltà su un numero di anni pari a 5
seguito da 16 zeri. Questo numero è pari a 5 milioni di volte l’età dell’universo.

LA REINCARNAZIONE NEL TAOISMO

Quello della reincarnazione è un concetto difficile da trovare negli aforismi del Tao-te Ching (6°
secolo a.C.), pertanto dev’essere apparso più tardi nel Taoismo. Sebbene non venga specificato cosa
si reincarna, la dottrina taoista sostiene che qualcosa passa da una vita all’altra. Un importante
testo del Taoismo, il Chuang Tzu (4° secolo a.C.) afferma:

“La nascita non è un inizio; la morte non è una fine. C’è esistenza senza limiti; c’è continuità
senza un punto d’inizio. … C’è la nascita, c’è la morte, c’è l’uscire, c’è l’entrare. Ciò
attraverso cui si passa dentro e fuori senza vederne la forma, è il Portale di Dio” (23).

LA REINCARNAZIONE NEL PENSIERO MODERNO

Quando il concetto orientale di reincarnazione arrivò in Europa, il suo significato cambiò. Durante
il Medioevo fu una dottrina riservata agli iniziati di alcune tradizioni occulte (Ermetismo,
Catarismo, ecc.), che l’avevano assorbita dal Neo-platonismo. Una più ampia accettazione della
reincarnazione fu promossa nel mondo Occidentale solo dagli inizi del secolo scorso, dalla Teosofia
e in seguito dall’Antroposofia. Il loro intenso lavorio, combinato con quello di molti guru
orientali e occultisti occidentali, e in particolare dal movimento New Age, determinò un’ampia
accettazione della reincarnazione nella nostra società, così che questo concetto fu ricevuto come
una delle dottrine più intriganti sulle origini e sul significato della vita.

Comunque, la “versione moderna” è sostanzialmente diversa da quella insegnata dalle religioni
orientali. Lungi dall’essere un tormento dal quale l’uomo deve fuggire a ogni costo tramite
l’abolizione della propria identità, il pensiero New Age considera la reincarnazione come una
progressione dell’anima verso più alti livelli di esistenza spirituale.
Influenzati dal contesto culturale cristiano ma opponendosi totalmente all’ideologia orientale
classica, molti reincarnazionisti oggi pensano che l’entità che si reincarna è l’anima, che preserva
gli attributi della personalità da una vita all’altra. Questo compromesso ovviamente emerge dal
desiderio di adattare la dottrina della reincarnazione al pensiero occidentale. Il concetto di un
atman impersonale che si reincarna era troppo astratto per essere accettato facilmente, così gli
occidentali avevano bisogno di una versione più innocua di questa dottrina per poterla accettare.
Sebbene questa tendenza sia prova dello struggersi dell’anima per un destino personale, non c’è
molta somiglianza con la spiritualità orientale classica, che la rigetta come qualcosa di
completamente perverso.

Le informazioni che abbiamo visto sul significato della reincarnazione nelle religioni orientali e
sulla natura dell’entità che si reincarna, ci saranno utili per esaminare quelle che oggi vengono
considerate prove della reincarnazione. Nell’analizzarle, dobbiamo ricordare che nel concetto
orientale di reincarnazione non può esistere alcun elemento personale che passi da una vita alla
successiva.

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