Non nascita e non morte – Thich Nhat Hanh

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Non nascita e non morte

di Thich Nhat Hanh

(Trascrizione del discorso del 1° novembre 2000 a chiusura del ritiro
di Castelfusano (Roma). La prima parte è l’insegnamento rivolto ai
bambini presenti al ritiro)

Una signora che era qui con noi ieri è dovuta partire perché le è
morta la madre. Credo che le sarebbe piaciuto molto restare con noi e
condividere il discorso di Dharma, ma lo ascolterete anche per lei.
Quando una persona che ci è molto cara muore non sappiamo dove andrà,
e non sappiamo se la incontreremo ancora in futuro, da qualche parte.
Nell’insegnamento del Buddha si parla di non venire e non andare. Si
tratta di un modo profondo di vedere se quella persona cara è ancora
con noi o non c’è più.

Faremo ora insieme un esercizio sul non andare e non venire. L’altro
giorno ho detto che nel buddhismo si preferisce la parola
manifestazione piuttosto che creazione; quando facciamo il gesto di
accendere un fiammifero in realtà non siamo noi ad accendere la
fiamma, ma piuttosto la aiutiamo a manifestarsi. Se si guarda
profondamente in questa scatola di fiammiferi, potremo vedere che la
fiamma c’è già, non la vediamo davvero, ma sappiamo che la fiamma c’è
ed aspetta solo di manifestarsi.

Tutte le condizioni sono già sufficienti tranne una, e l’ultima è il
movimento della mia mano. Già da ora possiamo parlare alla fiamma e
dirle: “Per favore, fiamma, manifestati”. Se non ci fosse, non
potremmo parlarle così. Per piacere, aiutatemi a parlare alla fiamma
ed ecco la risposta della fiamma: vedete, la fiamma si è manifestata,
starà un pochino con noi e poi se ne andrà.

Ora parliamo di nuovo alla fiamma: “Cara fiamma, da dove sei venuta?
Dove sei andata, mi manchi tanto”. Nello stesso modo una persona che
ci è molto cara si è manifestata ad un certo punto della nostra vita e
poi è andata via. Crediamo che prima che apparisse non esisteva, e che
dopo la sua scomparsa non esiste più perché abbiamo la nozione di
essere e non essere. Qualifichiamo il prima della manifestazione come
non essere e la manifestazione come essere. Poi, dopo la cessazione
della manifestazione, è di nuovo un non essere. Secondo il Buddha
questi due concetti non possono essere applicati alla realtà. Prima
che la fiamma si manifesti non si può chiamarla “non essere”, e quando
si manifesta è sbagliato considerarla “essere”. Infine quando la
manifestazione cessa di nuovo sbagliamo dicendo che non è.

Secondo il Buddha, quindi, la natura della fiamma non è né essere, né
non essere. La vera natura della fiamma è libera dalla nozione di
essere e non essere. Nell’insegnamento del Buddha, “essere e non
essere non è questo il problema”. Nirvana è l’assenza di tutte le
idee, comprese quella sull’essere e non essere. Chiediamo allora alla
fiamma: “Da dove sei venuta?”, e se ascoltiamo profondamente la fiamma
ci dirà: “Caro amico, non sono venuta da nessun luogo, quando le
condizioni sono sufficienti mi manifesto. E andrò ovunque, non importa
dove, quando le condizioni non saranno sufficienti.

Cesserà la manifestazione, ma non andrò da nessuna parte”. Possiamo
comprendere l’affermazione fatta dalla fiamma e possiamo comprendere
che la natura della fiamma non è né andare né venire. La realtà è
libera dalle nozioni di essere, non essere, andare e venire. Quando ci
capita di perdere qualcuno molto vicino, vi prego, praticate nel modo
suggerito dal Buddha. Potrete toccare davvero la sua presenza se
eliminerete le nozioni di essere e non essere, andare e venire. Una
volta ho fatto un discorso di Dharma a Plum Village e negli occhi dei
bambini ho letto che avevano compreso questo essere e non essere, non
andare e non venire. Se i bambini prestano attenzione, possono anche
loro comprendere i discorsi di Dharma. Chiediamo alla fiamma di
manifestarsi, inspiriamo ed espiriamo con attenzione ed aiutatemi a
chiedere alla fiamma di manifestarsi: “Cara fiamma, per favore
manifestati.” Proviamo ad accendere una candela: la fiamma è la stessa
di quella di prima o è diversa? Non rispondete subito, prima dobbiamo
praticare il guardare profondamente. È la stessa o sono diverse?

Il Buddha ci direbbe che non sono né la stessa né sono diverse, perché
la realtà trascende le idee di stesso e diverso. Se lasciamo la
candela una mezz’ora e poi torniamo, vedremo che la fiamma è ancora lì
e la fiamma sarà la stessa, o meglio pensiamo che la fiamma sia la
stessa, ma se guardiamo profondamente vedremo che ogni fiamma ha il
suo ossigeno con cui bruciare, il suo combustibile di cui vivere, e se
guardiamo ancor più profondamente vedremo che c’è una successione di
fiamme, che non è la stessa fiamma che ha una certa durata, ma è
piuttosto la successione di una moltitudine di fiamme.

Immaginiamo che qualcuno al buio tenga una torcia in mano e con quella
luce disegni un cerchio: se non siamo molto lontani dalla persona
avremo l’impressione che sia un cerchio di fuoco, mentre non è affatto
un cerchio di fuoco quanto il susseguirsi del movimento a darci
l’impressione di un cerchio di fuoco. Allo stesso modo, se abbiamo una
cinepresa, possiamo fare un esperimento analogo: con la successione di
tanti fotogrammi daremo l’impressione del movimento. Ma guardando
profondamente potremo vedere la successione di una moltitudine di
immagini. Quindi pensare che la fiamma sia la stessa è un’illusione
ottica, ma anche dire che sono fiamme diverse, che non hanno
collegamento tra loro, non è corretto. Con la pratica del guardare in
profondità si può dire che la natura della fiamma non è né di essere
la stessa né di essere diversa. Ora, per non dimenticare, abbiamo
bisogno che qualcuno scriva sulla lavagna queste parole: “Non andare,
non venire; non essere, non non essere; non uguale e non diverso”.
Crediamo che la fiamma sia nata quando Thay l’ha accesa e che sia
morta quando Thay l’ha spenta, quindi abbiamo ancora una nozione di
nascita e morte. All’inizio di questo discorso vi ho invitato a
pensare ai fenomeni come a qualcosa che si manifesta e non a qualcosa
che nasce.

Guardiamo questo foglio di carta e pensiamo che sia venuto fuori dal
nulla. Perché nella nostra mente nascere significa che da niente
diventiamo qualcosa. Nascere significa che da nessuno diventiamo
qualcuno. Nascere significa che da non essere diventiamo essere.
Percezioni sbagliate. Questo foglio di carta prima di essere foglio di
carta era già qualcosa? Guardando profondamente dentro il foglio di
carta possiamo vedere la presenza di alberi, di foreste, del sole,
dell’acqua. Tutto in un foglio di carta. E quindi è facile vedere che
prima di essere foglio di carta era già qualcosa. Sarebbe sbagliato
dire che il foglio di carta è venuto dal nulla, quella nella quale ora
lo vediamo è solo una nuova manifestazione. Prima di nascere come
foglio di carta, già era stato albero, pioggia, sole, e il momento che
noi crediamo sia quello della nascita in realtà è solo una continuità.
Il giorno del nostro compleanno è più appropriato cantare: “Buona
continuazione”, anziché: “Buon compleanno”. Vorrei chiedere a questo
bambino quando è nato. Prima di quella data esistevi già? “Sì”.
Quindi, se esistevi già qual è il significato di nascere? Lo chiediamo
a questa bambina. Esistevi prima di essere nata? “No”. E se non
esistevi già, come hai fatto a nascere da tua madre?

Alcuni mesi prima che tu nascessi, la mamma già ti sentiva, eri già
lì, quindi la data che è sul tuo certificato di nascita non è esatta.
E prima del concepimento esistevi già? Almeno per il 50% nella tua
mamma e il 50% in tuo padre. Guardando in questo modo scoprirai che ci
sei sempre stata, e che la tua vera natura è la natura di non nascita.
I nostri amici di tradizione cristiana non credono che Gesù non
esistesse prima del concepimento. Era già lì prima di nascere. E nel
suo insegnamento, anche dopo la crocifissione, ha continuato ad
essere. La sua natura è di non morte: non solo il Cristo e il Buddha
hanno la natura di non nascita e di non morte, ma tutti noi.

Lo scienziato francese Lavoisier disse: “Nulla nasce e nulla muore”,
non conosceva il buddhismo, ma ha detto la stessa cosa del Sutra del
cuore che abbiamo cantato stamane. Facciamo un esperimento: proviamo a
bruciare questo foglio di carta e vediamo se diventa niente, perché
secondo la nostra mente quando qualcosa nasce poi muore e da niente
diventa qualcosa per diventare poi di nuovo niente. Il foglio di carta
bruciato è niente. No, questo non è niente, si è trasformato in
qualcosa di diverso, prima in fumo che è salito in cielo e ha
raggiunto una nuvoletta: possiamo guardare il cielo e salutare il
foglio di carta bruciato. Ma si è anche trasformato in calore, quasi
bruciava le mie dita e quel calore è penetrato nel mio corpo e nel
vostro. E così quando tornerete a casa, porterete quel foglio con voi.

Uno di voi può portare questa cenere in un campo e magari il prossimo
anno quando tornerò per un altro ritirò la troverò trasformata in
fiore. Quindi il momento della morte del foglio di carta non è altro
che un momento di continuazione. Per lo stesso motivo non dovremmo
essere tristi quando qualcuno muore, perché la sua morte è un momento
di continuazione. Non solo durante un compleanno possiamo cantare:
“Buona continuazione”, ma anche nel momento in cui uno muore. È un
momento di un nuovo inizio, e se noi guardiamo con gli occhi del
Buddha non possiamo sentire tanta disperazione. Se guardiamo in cielo
possiamo vedere tante belle nuvole e quando viene il tempo in cui
dovranno trasformarsi in poggia, la nuvola non avrà paura. Essere una
nuvola che si muove nel cielo, ma alla stesso modo essere la
pioggia che cade sulla terra è ugualmente una cosa meravigliosa. Se
noi vogliamo vedere solo la nuvola, piangeremo quando si trasformerà
in pioggia, e perciò in meditazione guardiamo profondamente per vedere
la nuova manifestazione dei nostri cari, e allora potremo dire loro:
“So dove siete e cercherò di identificare la vostra nuova
manifestazione”.

Il Buddha disse: “Se guardi in profondità nella tua vera natura
scoprirai che la tua vera natura è di non nascere e di non morire, non
venire e non andare, non uguale e non diverso, non essere e non non
essere. Se riuscirai a vedere la tua vera natura, allora sarai libero
dalla sofferenza. Nel buddhismo esiste un termine che molti non
comprendono: nirvana. Nirvana significa estinzione, ovvero estinzione
di tutte le idee e di tutti i concetti, dell’idea di andare, venire,
essere e non essere. Perciò dovremmo praticare abbastanza in modo da
guardare in profondità e riconoscere la nostra vera natura.

Lo scopo della pratica è di liberarci dalla sofferenza, ma il più
grande sollievo è di toccare la nostra vera natura di non nascere e
non morire. Ecco perché non dovremmo essere troppo indaffarati nella
vita quotidiana, ma trovare sempre il tempo di praticare questo
meraviglioso insegnamento del Buddha che ne costituisce la crema, il
nettare; sarebbe un terribile spreco non riuscire a praticarlo.

Al tempo del Buddha, c’era un praticante di nome Anathapindika che era
un uomo d’affari molto generoso sia dal punto di vista delle risorse
materiali che delle energie che metteva al servizio dei più deboli e
poveri. La gente nel suo paese lo amava, tanto che gli aveva dato
questo nome che significa “colui che si prende cura degli emarginati”.
Un giorno si recò nel boschetto di bambù dove il Buddha meditava e gli
chiese di accettarlo come suo discepolo e poi lo invitò a recarsi nel
suo paese, Kosala. E quando il Buddha accettò, egli tornò felice nel
suo paese per trovare un luogo degno di ospitare il Buddha e i suoi
discepoli, trovò il palazzo di un principe il quale fu contento di
metterlo a disposizione del Buddha e dei suoi discepoli come centro di
pratica. Poi l’uomo d’affari con sua moglie e i tre figli presero i
cinque meravigliosi addestramenti di consapevolezza e praticarono
insieme al Buddha. Cinque anni dopo, Anathapindika si ammalò
gravemente e il Buddha personalmente andò a trovarlo a casa dopodiché
chiese al suo discepolo più anziano, Sariputra, di prendersi cura di
quell’uomo. Sariputra era intimo amico di Anatapindika perché quando
quest’ultimo aveva invitato il Buddha nella sua terra lo aveva aiutato
ad organizzare l’accoglienza. Sariputra chiese al venerabile Ananda,
suo fratello di Dharma, di accompagnarlo a far visita al morente.
Anatapindika fu felice di vedere arrivare i due monaci al suo
capezzale, ma era talmente debole da non riuscire a mettersi a sedere
e allora Sariputra disse: “Caro amico, non devi metterti a sedere, noi
prenderemo due sedie e ci siederemo accanto a te per parlare”. Dopo
essersi seduto Sariputra chiese: “Caro amico, come stai? Il dolore del
corpo sta diminuendo o sta crescendo?” “Caro venerabile Sariputra, il
dolore del mio corpo non sembrerebbe proprio diminuire, sta aumentando
piuttosto.” Shariputra allora propose la meditazione delle tre
Rimembranze: la rimembranza del Buddha, la rimembranza del Dharma e la
rimembranza del Sangha.

Sariputra era uno dei discepoli più intelligenti del Buddha, egli
sapeva che per più di venti anni Anatapindika aveva provato piacere ad
essere al servizio del Buddha, del Dharma e del Sangha e perciò sapeva
bene che praticare le tre rimembranze avrebbe annaffiato i semi della
gioia e dunque propose proprio questo esercizio. Immaginate i due
monaci seduti al capezzale di quest’uomo che praticano la meditazione
guidata. Dopo circa otto minuti i dolori diminuirono e il sorriso
ricomparve sul suo viso. Dobbiamo ricordare l’esperienza di Sariputra
quando sediamo accanto a qualcuno gravemente ammalato, così da
annaffiare i semi della gioia e dare sollievo alla sua mente ed al suo
corpo. Subito dopo, Sariputra invitò Ananda e Anatapindika a
continuare una meditazione sui sei organi di senso:

“Questi occhi non sono me,
io non sono preso da questi occhi;
questo corpo non sono io,
io non sono preso da questo corpo;
questa coscienza mentale non è me,
io non sono preso da questa coscienza mentale.”

Dovete sapere che i sei organi di senso, ossia i cinque sensi più la
mente, si manifestano quando le condizioni sono sufficienti e se noi
ci identifichiamo con loro, la disintegrazione del corpo diventa molto
dolorosa. Perciò non dobbiamo identificarci con i sei organi di senso
che includono la coscienza mentale e il corpo. In questo modo potremo
cancellare tutta la paura che si prova in punto di morte.

C’è una pratica che dice:

“L’elemento terra non è me,
io non sono racchiuso dall’elemento terra;
l’elemento acqua non è me,
io non sono limitato dall’elemento acqua;
l’elemento fuoco, il calore in me, non è me,
io non sono limitato dall’elemento fuoco;
l’elemento aria non è me,
io non sono limitato dall’elemento aria”.

Quando le condizioni sono sufficienti, allora il corpo si manifesta,
ma il corpo non viene e non va da nessuna parte. Prima della
manifestazione del corpo non possiamo qualificare il corpo come non
esistente. Dopo la cessazione della manifestazione del corpo non
possiamo qualificare il corpo come non esistente. La natura del corpo
e anche della nostra mente è la natura della non nascita, non morte,
non andare, non venire. Ed è proprio questo insegnamento del non
nascere, non morire, non andare, non venire che abbiamo imparato
all’inizio del discorso di Dharma. Quando arrivò a questa pratica, le
lacrime iniziarono a scendere lungo le guance di Anatapidika e Ananda,
sorpreso, gli chiese che cosa gli stesse succedendo: “Perché piangi,
hai dei rimpianti?” “No, venerabile Ananda, non ho nessun rimpianto.”
“Oppure non hai praticato con successo la meditazione guidata?” “No,
venerabile, ho praticato la meditazione guidata con molto successo” “E
allora, perché piangi?” “Piango perché sono commosso, ho praticato il
rifugio nel Buddha, nel Dharma e nel Sangha per più di trent’anni, ma
non ho mai provato una pratica così meravigliosa come quella fattami
provare oggi dal venerabile Sariputra. Al che Ananda replicò: “Caro
amico, questo insegnamento il Buddha lo impartisce a noi monache e
monaci tutti i giorni” Anatapitika disse: “Per favore, va e riferisci
che è vero che ci sono persone che non praticano l’insegnamento
dell’essere e non essere, non andare e non venire, non nascere e non
morire, ma ce ne sono tante altre però che amano molto praticarlo.
Chiedo quindi che il Buddha offra questo insegnamento anche ai laici e
non solo ai monaci.” Fu questa l’ultima frase pronunciata da
Anatapidika prima di morire in pace.

Questa storia si trova nel libro appena tradotto: “I canti di Plum
Village”, nella parte dedicata agli insegnamenti per l’uomo moderno.
Per favore, prendetene visione; il mio consiglio è di non essere
troppo indaffarati nella vita quotidiana. Dovremmo avere il tempo per
praticare ogni giorno questi insegnamenti, perché, se veramente
pratichiamo liberandoci della paura, la nostra felicità aumenterà
centinaia di volte, e se sediamo accanto ad una persona in fin di vita
senza paura potremo davvero aiutarla a non aver paura.

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