MICHELANGELO, UN MADRIGALE

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MICHELANGELO, UN MADRIGALE

L’ESPERIENZA ESTETICA E LA MISTICA NEOPLATONICA

di Fabrizio Fittipaldi

Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono
quelle che Dio ha preparato per coloro che lo amano.
San Paolo, Lettera ai Romani.

Lo scopo di questo breve commento è di portare l’attenzione sulla dimensione mistica e devozionale
che pervade l’opera e la personalità di Michelangelo e che rappresenta il fulcro di tutta la sua
arte. Sempre più spesso l’approccio alle grandi personalità creative di ogni campo (dell’arte, della
filosofia, della scienza) è pregiudizialmente determinato a ignorare, come aspetti secondari e quasi
folkloristici la vita interiore e le realizzazioni spirituali che sono in realtà l’unico soggetto di
ogni opera veramente creativa.

La composizione di questo madrigale risale a un periodo compreso tra il 1541 e il 1544, quando il
grande artista e genio del Rinascimento era prossimo ai suoi settanta anni di età.

Per fido esemplo alla mia vocazione
Nel parto mi fu data la bellezza,
Che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio.
S’altro si pensa è falsa opinione.
Questo sol l’occhio porta a quella altezza,
Ch’a pinger e scolpir qui m’apparecchio.

Se giudizii temerarii e sciocchi
Al senso tiran la beltà, che muove
E porta al cielo ogni intelletto sano,
Dal mortale al divino non vanno gli occhi
Infermi, e fermi sempre pur là, dove
Ascender senza grazia è pensier vano.

La “bellezza” di cui ci parla Michelangelo non è mortale (“Amor, la tua beltà non è mortale”: così
scriveva una decina d’anni prima) e neanche indica il talento o la capacità di osservare
attentamente e registrare le proporzioni e le armonie delle cose del mondo. Piuttosto rimanda a una
luce interiore che è “esemplo”, guida, faro alla sua vocazione artistica. È espressione della
multiforme vitalità dell’anima; una seconda e superiore vista; un senso spirituale. È innata e non
frutto di studi: una sensibilità per il trascendente che corrisponde a purezza ed elevazione, morale
e spirituale.

Questa luce interiore è sorgente dell’ispirazione e strumento per la riflessione, che non sorgono
dall’esperienza mondana o dall’osservazione delle “cose mortali”. È solo questa luce che infonde
all’occhio un potere divino e che permette all’artista di trascendere la bellezza effimera e
sensoriale e di contemplare realtà superiori. E l’artista si fa, attraverso la sua opera, mediatore
tra la dimensione trascendente e quella materiale.

In questo passaggio il poeta Michelangelo sembra voler riprendere alcune terzine dantesche:

Nel ciel che più della Sua luce prende
Fu’io, e vidi cose che ridire
Né sa né può chi di là su discende;
[…] Veramente quant’io del regno santo
Nella mia mente potei far tesoro,
sarà ora matera del mio canto.(1)

È forte il contrasto tra l’“intelletto sano” di dantesca memoria e i “giudizii temerarii e sciocchi”
di chi, privo di ogni capacità di discernimento, riduce la vertiginosa esperienza estetica
all’angusta relazione, psicofisica e materialista, dei sensi con i loro oggetti corrispondenti (la
vista con le forme e i colori, il tatto con le tangibilità, l’udito con i suoni…). L’”intelletto
sano”, purificato da una condotta di vita morale e virtuosa, e in armonia con le leggi universali
che governano il cosmo, è degno e atto a essere ispirato e trasportato, dalla bellezza,
nell’esperienza mistica ed estetica. Il dialogo riportato dal pittore portoghese Francisco de
Hollanda testimonia questo pensiero di Michelangelo:

“Non basta ad un pittore per imitare in parte la venerabile immagine del Signor Nostro, essere un
grande maestro, ma deve tener buona vita e, se possibile, essere santo, acciocché il suo intelletto
sia ispirato dallo Spirito Santo… Perché molte volte le immagini male dipinte distraggono e fanno
perdere la devozione, almeno a quelli che ne hanno poca; e al contrario quelle che sono divinamente
dipinte anche ai poco devoti e pronti a ciò, provocano e traggono le lacrime”.

Anche secondo le teorie del frate domenicano Girolamo Savonarola, che influenzò profondamente la
vita di Michelangelo, esiste una strettissima corrispondenza tra il livello di coscienza sviluppato
dall’artista e la capacità dell’opera sua di ispirare o no valori trascendenti, nella prospettiva di
un’arte che sia al servizio della fede e della spiritualità.

La teoria di Michelangelo sulla scultura ripropone il medesimo principio, quando ci parla di un
“concetto” che è già circoscritto nel blocco marmoreo, ma imprigionato nel “soverchio” della pietra.
La figura è intrappolata nel marmo, così come l’anima nella prigione del corpo e della mentalità
egoica; la scultura, come la vita, è un percorso di purificazione e di liberazione dai soffocanti
condizionamenti della materia. È lo stesso artista che a qualche anno di distanza, rivolgendosi al
Signore scrive in un sonetto:

Tu desti al tempo ancor quest’alma viva
E ‘n questa spoglia ancor fragil’ e stanca
L’incarcerasti e con fiero destino.

In una composizione successiva mette l’accento sulla potenza e pericolosità dei condizionamenti
psichici e in particolare di quel deviato sentimento di amore rappresentato dall’attaccamento alla
falsa immagine di se stessi (l’amor proprio):

Manca la speme, e pur cresce il desio Che,
da Te, sia dal proprio amor disciolto.

Quando, a proposito della poetica di Michelangelo, si parla dell’immagine interiore, non ci si
riferisce tanto alla teoria della figura contenuta nella pietra, ma piuttosto all’“immagine del cor”
che l’artista, purificato da una vita regolata e virtuosa, realizza e custodisce nell’anima sua e la
cui natura e bellezza trascendono tutto ciò che si può trovare nel mondo visibile. L’opera stessa,
anche se compiuta e definitiva, non può che essere un debole riflesso di quella divina idea ed è per
questo che Michelangelo, come ci spiega il suo discepolo Ascanio Condivi, “poco si sia contentato
delle sue cose, e che sempre l’abbia abbassate; non parendogli che la mano a quella idea sia
arrivata, ch’egli dentro si formava”. È proprio questa eterna tensione tra spirito e materia che
trova la più eccelsa espressione nell’insuperabile incompiutezza che caratterizza le sue opere
scultoree più mature.

Ammorbato dagli errori e dal peccato e coperto dalla materia, tanto da essere diventato cieco e
insensibile alla propria intima natura spirituale, l’individuo ha ormai sviluppato un’alterazione
della propria struttura psichica -originalmente orientata alla contemplazione del divino- e non ha
più accesso alla dimensione spirituale. È follia pensare di raggiungerla col molto osservare o col
molto studiare: solo Dio, per la Sua inconcepibile misericordia, concede al Suo devoto la visione e
l’esperienza della Realtà suprema, così come hanno testimoniato mistici di tutti i tempi e di tutte
le religioni.

È in questo regno trascendente che l’arte dimora, rivelando così la sua natura assolutamente
spirituale; e “dal ciel seco / Ciascun la porta”, canterà il poeta Michelangelo.

Arte e spiritualità!

Arte è spiritualità!

Ogni creatività che sia ignara di questa ontologica relazione non potrà che essere una creatività
“in-ferma”, non stabilita nella Realtà e nella consapevolezza di sé. E “infermi” sono gli occhi
(lucerne dell’anima) di chi, invano, tenta l’assalto al divino, fissando il proprio sguardo, tutto
umano, verso l’orizzonte trascendente.

(1) Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso, versi 4-6 e 10-12.

Riferimenti audio e bibliografici:
Anthony Blunt, Artistic Theory in Italy 1450-1600, London, 1940.
Marco Ferrini, Arte come Yoga, Vicenza (Auditorium del Conservatorio di Musica), 21/09/2002.
Marco Ferrini, Il Viaggio di Dante e la Bhagavad-gita. Paradiso. Pinarella di Cervia – Ravenna,
04/2007.

da arteespiritualita.blogspot.com

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