EMOZIONE ESTETICA NELL’ARTE

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EMOZIONE ESTETICA NELL’ARTE

di Tania Zakharova

In molti scritti d’arte, si è fatto spesso riferimento a termini come emozione e sentimento,
utilizzati per descrivere il contenuto e la funzione dell’attività artistica. Lo stato emotivo
suscitato da un opera d’arte, sia durante la sua fruizione, sia durante la sua produzione, viene
definito, come è sottolineato dalle teorie estetiche contemporanee, emozione estetica e si riferisce
ad un sentimento che si prova innanzi alla contemplazione della bellezza e dell’armonia che sono
elementi solitamente peculiari di un’opera d’arte. Secondo alcuni studi in psicologia, l’arte
costituisce un ambito particolarmente adatto per investigare le emozioni(1), perché ha il merito di
rendere più esplicite tutte le intuizioni umane, riuscendo a cogliere in modo più immediato la
natura del fenomeno emotivo. Dagli anni Cinquanta, gli studi di Arnheim, hanno contribuito a
diffondere l’idea che l’emozione è connessa all’arte non per il suo contenuto immediatamente
percepibile, quanto piuttosto perché essa presenta schemi sensoriali, immagini e pensieri come forme
che hanno la capacità di trasmettere qualcos’altro(2) .

Nei primi decenni del secolo scorso Lev Vygotskij, che per l’originalità delle sue opere fu chiamato
il “Mozart della psicologia”, offre degli spunti interessanti proprio a partire dall’esperienza
estetica. Lo psicologo russo insorge contro chi vorrebbe vedere nell’arte solamente una funzione
conoscitiva, gnoseologica, e anche contro chi riconduce l’arte al sentimentale, nella sua versione
edonistica (l’arte come piacere). La sua attenzione va al processo di trasformazione che attraverso
l’opera si mette in atto. Il processo artistico, insieme alla “metamorfosi del materiale
dell’opera”, produce anche una “metamorfosi dei sentimenti(3)”. La filosofa e antropologa Suzanne
Langer descrive il processo psichico che si esprime nella “esperienza estetica” dove il materiale
fornito dai sensi viene trasformato: “[…] l’emozione estetica scaturisce dal superamento di barriere
(costituite da pensiero coatto) e dall’ottenere di penetrare in certe realtà che sono,
letteralmente, “ineffabili”; ma il contenuto emotivo dell’opera può essere qualcosa di molto più
profondo di ogni esperienza intellettuale…: le realtà ultime stesse, i fatti centrali della nostra
breve, senziente esistenza. Il “piacere estetico”, allora, è affine (benché non identico) alla
soddisfazione di scoprire la verità(4).”

Tutte le grandi tradizioni rivelano che l’arte non si riduce soltanto ad un’esperienza estetica o
psicologica; al contrario, essa comporta quella che Platone e Aristotele chiamano katharsis, ovvero
una “vittoria sulle sensazioni di piacere o di dolore”. Platone affermava che mentre la passione
suscitata da una composizione di suoni “procura un piacere dei sensi agli insipienti, essa (la
composizione) procura agli intelligenti quella letizia che è indotta dall’imitazione dell’armonia
divina … quest’ultima letizia o contentezza che sperimentiamo quando prendiamo parte a una festa
dello spirito, è una comunione e non una passione, … un uscire dall’involucro psichico e un essere
nello spirito(5)”. Per Aristotele la katharsis non è uno sfogo periodico delle nostre emozioni
represse, immergendosi nelle quali ce ne può liberare; tale sfogo produce solo un appagamento
temporaneo. La sua katharsis è un’estasi o una liberazione dell’anima immortale, e tale concetto si
avvicina a quello che spesso troviamo nei testi tradizionali indiani, secondo i quali la liberazione
si compie attraverso un processo in cui una performance artistica diventa un rito sacrificale, e lo
scopo di questo rito è di sacrificare l’uomo “vecchio” e di farne nascere uno “nuovo” e più
perfetto. L’io psichico gode delle superficie estetiche degli oggetti naturali o artificiali, a cui
è affine; il sé spirituale gode della loro origine. Lo spirito è molto più esigente e sensibile;
trova gusto non nelle qualità fisiche delle cose, ma in quel loro elemento ch’è chiamato fragranza o
sapore: per esempio, “nell’immagine che non risiede nei colori”, o nella “musica non udita”.

La “tranquillità d’animo” di Platone è quella “beatitudine” che la retorica indiana scorge nella
“degustazione del sapore” di un’opera d’arte, un’esperienza immediata e congenere all’assaporamento
di Dio(6)”. Secondo il Natya Shastra, il più antico trattato d’arte, drammaturgia e danza,
considerato dalla tradizione indiana il “quinto Veda”, lo scopo dell’arte non consiste nella
bellezza in sé ma nell’abilità di evocare gli stati più elevati dell’essere. L’arte utilizza la
materia, per poi trascenderla; per esempio, peculiarità della danza, come della scultura, è l’uso
del corpo; tuttavia il loro scopo comune è quello di creare la sensazione che danza o bellezza sono
al di là di esso. Nella scultura indiana per esempio non si pone un accento eccessivo sulla
raffigurazione anatomica del corpo e quindi sulla muscolatura come avviene nell’arte greca, ma si dà
maggiore enfasi all’armonia della posa, in modo tale che l’attenzione dello spettatore non si
arresti alla mera fisicità ma colga il messaggio di una verità sottile che si cela dietro l’immagine
stessa. L’Arte nella sua forma naturale si configura come una tecnica creativa (karmamudra) in grado
di sviluppare una reale conoscenza di sé (Jnanamudra). L’approccio creativo alla vita scaturisce dal
bisogno spirituale di conoscere Dio e, per riflesso, se stessi.

Il principio, tanto estetico che metafisico, che permea tutta l’arte della grande tradizione indiana
ruota intorno al concetto di rasa (sentimento, sapore, tinta). I manuali chiamati shilpashastra,
destinati agli shilpin o rupakara (“creatori di forme”), ovvero agli artisti, si muovono dal
presupposto che una volta riuscito ad organizzare le forme materiali in modo da determinare
efficacemente un rasa, l’artista diventa veicolo della Divinità. Egli, comunicando attraverso forme
sensibili i contenuti invisibili del Divino, determinerebbe negli uomini, fruitori dell’avvenimento
artistico e soprattutto del rasa da esso evocato, una sospensione, una pausa nell’altrimenti
inevitabile susseguirsi di cause e di effetti (karma) che non permette agli esseri ordinari di
riconoscere la propria natura profonda, immutabile ed eterna. Il tentativo di suscitare rasa avrà
successo solo se l’artista sarà in grado di vivere intimamente ciò che deve esprimere e se lo
spettatore sarà altamente ricettivo, sensibile e in grado di fondersi con il soggetto
rappresentato.L’arte dunque, nella sua potenza intrinseca, capace di evocare i sentimenti della
dimensione trascendente, è da intendere quale veicolo privilegiatissimo di purificazione e
trasformazione interiore che permette di scoprire e assaporare la realtà divina.

(1) R. Arnheim (1966), p. 376: “ … si dice che gli aspetti particolari della realtà colti e
riprodotti dall’opera d’arte non siano accertabili né alla percezione sensoria, né all’intelletto,
ma ad una terza capacità conoscitiva, detta sentimento… ”

(2) R. Arnheim (1966), p. 428: “[…] Non si tratta della percezione di aspetti statici riguardanti la
forma, la grandezza, la tonalità cromatica o l’altezza sonora, che possono essere misurati con
qualche genere di scala, bensì quella riguardante le tensioni orientate che sono trasmesse da questi
stessi stimoli.[…]

(3) Vygotskij Lev S., Psicologia dell’arte, Editori Riuniti, Roma, 1976.

(4) Langer Susanne, Filosofia in una nuova chiave. Linguaggio, mito, rito e arte, Armando, Roma,
1972.

(5) Timeo, 80b.

(6) Sahitya Darpana, III, 2-3; cit. Coomaraswamy, The Transformation of Nature in Art, 1934,
pp.48-51.

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