LA TEORIA MUSICALE DELLA CRITICA DEL GIUDIZIO 2

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LA TEORIA MUSICALE DELLA CRITICA DEL GIUDIZIO 2

Piero Giordanetti

Kant e la musica

3. L’organista e l’oscuro

La Confutazione della dimostrazione di Mendelssohn della permanenza dell’anima, aggiunta nella
seconda edizione della Critica della ragion pura (1787), accenna rapidamente ai processi che si
compiono nell’anima dell’organista quando improvvisa. La rilevanza sistematica di questa attività,
che abbiamo incontrato come tema costante delle lezioni di logica e di antropologia, viene in luce
con chiarezza e sarà confermata dal paragrafo 16 della terza Critica, in cui le improvvisazioni
esemplificano la “bellezza libera”. Nella Confutazione si rimprovera a Mendelssohn e alla
dimostrazione dell’immortalità dell’anima da lui avanzata nel Fedone di aver argomentato che l’anima
è una sostanza semplice e per questo motivo non può cessare di esistere né per decomposizione, né
per estinzione. L’errore di Mendelssohn, obietta Kant, consiste nell’aver trascurato il concetto di
grandezza intensiva; sebbene si possa ammettere che l’anima abbia una natura semplice poiché non
contiene in sé una molteplicità di parti reciprocamente esterne e non è quindi una quantità
estensiva, è impossibile negarle una quantità intensiva. Si ha motivo di supporre che l’anima non
possa ridursi al nulla, se non per decomposizione, almeno per una progressiva diminuzione delle sue
forze; come la coscienza di oggetti anche l’esser coscienti di sé e ogni altra facoltà hanno sempre
un grado.

L’identificazione della chiarezza con la coscienza, alla quale Leibniz, Wolff e Mendelssohn si
attengono, si dimostra errata a una più attenta considerazione: se, infatti, seguendo l’esempio dei
logici, prendiamo le mosse dall’idea che la chiarezza sia la coscienza di una rappresentazione, non
possiamo più sostenere che anche nelle rappresentazioni oscure vi sia coscienza; la definizione
della chiarezza della scuola leibniziana è incompatibile con la teoria delle rappresentazioni
oscure. Contro la tesi di Mendelssohn si può addurre che un musicista all’organo compie una grande
quantità di riflessioni oscure, perché quando improvvisa è in grado di distinguere le note l’una
dall’altra e di suonare contemporaneamente più note; poiché il musicista non ha però coscienza di
questa differenza la sua attività si può definire “oscura”. Di fatto, la coscienza può essere
coscienza dell’atto della distinzione oppure coscienza della differenza; solo in questo secondo caso
è coscienza chiara; il musicista ha coscienza della differenza dei suoni, ma essa è insufficiente a
raggiungere la coscienza della distinzione di un suono dall’altro; egli ha quindi una
rappresentazione oscura delle note. Pur non potendosi negare che la musica scaturisca da sensazioni
e che i suoni siano di natura sensibile, non si può neppure misconoscere che la loro connessione
abbia origine nella spontaneità dell’anima: origine della musica non è l’entusiasmo né il
sentimento, ma l’intelletto. Sebbene l’esempio dell’organista ricordi da vicino il Saggio
sull’intelletto umano di Locke, non ne è accettato il principio esplicativo dell’associazione
psicologica, e neppure si accoglie l’idea che il prodotto del processo sia una melodia:
all’associazione subentra il principio a priori del grado della quantità intensiva elaborato nelle
Anticipazioni delle percezioni, la melodia è sostituita dall’improvvisazione. Modifiche assai
significative e rilevanti, poiché permettono di inserire l’esempio nella filosofia trascendentale,
eliminando la soggettività sia dell’associazione sia della melodia e del suo effetto in quanto
attrattiva.

Nella Critica del Giudizio la spiegazione dell’attività intellettuale oscura non è svolta, a
differenza di quanto avviene nelle fasi precedenti, con il ricorso all’esempio del musicista: mentre
la coscienza morale può essere ancora spiegata con il concetto dell’attività inconscia
dell’intelletto, nell’ambito del gusto la differenza fra rappresentazioni chiare e rappresentazioni
confuse non è più valida: infatti il gusto non è conoscenza, ma sentimento di piacere. Questa
modificazione può essere ricondotta a uno sviluppo nella teoria del giudizio di gusto. Sebbene già
precedentemente fosse sempre distinta dall’attrattiva e dall’emozione e indipendente da qualsiasi
condizionamento empirico, la bellezza era sempre ricondotta alla conoscenza. Nel 1790, invece, il
concetto della bellezza non solo è purificato dalla sensazione ma anche distinto dal concetto della
perfezione: appunto perché ha sempre avuto una connotazione conoscitiva l’inconscio non è mai stato
contrassegnato da un legame con il sentimento di piacere. Se finora la creazione di improvvisazioni
era sempre un’attività conoscitiva, ora si deve rinunciare a questo legame con la facoltà della
conoscenza, se non si vuole cadere in contraddizione con il nuovo concetto della bellezza che si
rivela indipendente da ogni connotazione concettuale.

4. Improvvisazioni, musica senza testo e bellezza libera

È emerso, dalla lettura condotta sinora della Critica del Giudizio, che la composizione è il vero e
proprio oggetto del giudizio di gusto puro; nel paragrafo 16 si fa riferimento a diverse specie di
musica e si stabilisce un’ulteriore connessione esplicita con quella che Kant chiama, nel paragrafo
9, la “chiave della Critica del gusto”, ovvero la teoria dell’armonia e del gioco delle facoltà
conoscitive. Al gusto corrisponde una disposizione dell’animo “che si conserva da sé e possiede una
validità soggettiva universale” (CdG, p. 206), che non presuppone alcun concetto di scopo; la
libertà dell’immaginazione gioca nella contemplazione della figura. Le improvvisazioni senza tema, e
perfino l’intera musica senza testo che si sviluppa sulla base di un tema, sono il correlato
oggettivo del giudizio di gusto e quindi un concreto esempio di bellezza libera: “Nella stessa
categoria si può includere la improvvisazione musicale (senza tema), anzi tutta la musica senza
testo” (CdG, p. 205). La musica senza testo non presuppone alcun concetto di scopo che determini
l’oggetto della sua rappresentazione e ponga limiti alla libertà dell’immaginazione; nessun concetto
di perfezione ne determina l’essenza, ma essa piace in modo immediato, perché la molteplicità che la
costituisce non è ricondotta a un concetto determinato; la libertà dell’immaginazione è garantita e
si dà una specie di musica che genera il libero gioco di immaginazione e intelletto.

Per il filosofo trascendentale la musica è rilevante solo in quanto costituita da una molteplicità
ordinata di sensazioni; non ci si può meravigliare se essa condivide la libertà della sua bellezza
con uccelli e fiori, disegni alla greca, fogliami delle cornici e delle tappezzerie. Con il termine
“musica” Kant non intende alludere a una composizione musicale determinata, né a un’opera specifica,
ma all’unificazione di molteplici sensazioni; è rilevante esclusivamente il fatto che fiori, uccelli
come il colibrì, l’uccello del paradiso o il pappagallo, fogliami delle tappezzerie possano
esemplificare il concetto di bellezza libera e che anche una composizione armonica di suoni non
riferita ad alcun tema determinato, analogamente a una composizione incentrata su un tema ma non
riferentesi ad alcun testo, rappresenti il correlato oggettivo del giudizio di gusto puro. Con
questo, Kant non afferma certo che la musica di Haydn o di Mozart possieda il medesimo valore
estetico di una tappezzeria, dei fogliami delle cornici, di fiori e uccelli; se quindi non ci si può
esimere da un sorriso quando il filosofo pone la realtà dell’esperienza musicale sul medesimo piano
della contemplazione di fiori e tappezzerie, è comunque giustificato osservare che l’equiparazione
di musica strumentale e bellezza libera non mira a esaurire analiticamente l’esperienza musicale; mi
sembra si possa puntualizzare che Kant non ha mai perseguito questo scopo poiché non opera come
critico musicale, ma come critico del principio a priori del gusto.

Annotazione 1

Nella musica pura, strumentale, il canto, la voce umana non svolge alcun ruolo, non dovendo essa
accompagnare alcun testo scritto. Autori come Sulzer, Schulz, Wolf, Greiling, Beattie non valutavano
positivamente la musica strumentale; la vera musica poteva essere, a loro avviso, sempre e soltanto
musica applicata alla parola. Verso la fine del XVII secolo si sviluppa però un nuovo concetto di
musica strumentale essenzialmente diverso da quello diffuso nei secoli XV e XVI: prima la musica
strumentale era musica cantata trasferita su strumenti, formatasi in correlazione con forme di canto
e di danza; nel corso del diciottesimo secolo, invece, si trasforma in una forma d’arte autonoma,
completamente indipendente dalla musica vocale (cfr. Schering 1910, p. 174). A Königsberg operano
Richter, proveniente dalla scuola di Emanuel Bach del quale introduce l’arte del pianoforte, e
Veichtner che introduce l’arte del violino di Franz Benda. Le sonate per pianoforte si diffondono
anche grazie a Podbielski che nel 1780 e nel 1783 pubblica sei composizioni presso Johann Friedrich
Hartknoch, editore anche di scritti kantiani, a Riga con il titolo: Sei sonate per pianoforte,
composte e dedicate da C.W. Podbielski ad alcuni dei suoi amici particolarmente stimabili per il
loro spirito e il loro cuore. Hartknoch era egli stesso pianista e maestro di Johann Friedrich
Reichardt, del quale pubblicò nel 1773 i Vermischte Musikalien (cfr. Güttler 1925).

Annotazione 2

Il rapporto fra bellezza libera e musica non vocale che emerge dalle righe appena discusse non è
spesso preso in considerazione. Secondo Karl Dahlhaus la musica pura, non vocale rappresenta il
paradigma della musica ed è meramente gradevole; lo dimostrerebbe l’Antropologia dal punto di vista
pragmatico del 1798 per la quale la musica che non accompagna le parole è un intrattenimento
piacevole che si trasforma da godimento in cultura solo quando è associata alla parola (cfr.
Dahlhaus 1967, pp. 49 sgg). A prescindere dall’interpretazione del passo dell’Antropologia, si può
notare che nella terza Critica la musica bella è musica pura, senza nesso con la parola e quindi non
è piacevole. Anche Schmidt ritiene che non vi sia alcun rapporto fra gioco delle facoltà conoscitive
e musica: “Poiché è stata tracciata una linea di separazione netta fra la materia, l’effetto
immediato sull’ascoltatore e la ‘forma matematica’, la quale soltanto può fondare la bellezza della
musica per il giudizio di gusto, la musica non coglie, anche perché agisce tradizionalmente in modo
così intenso, il particolare effetto che secondo la Critica del Giudizio è ancora tipico del bello:
l’unificazione soggettiva, non solo individuale ma universale che si compie nell’atto del giudizio
estetico, fra le facoltà conoscitive della sensibilità e dell’intelletto come libero gioco” (Schmidt
1990, pp. 23-24). Secondo Schmidt la musica senza testo è sottesa a tutto ciò che Kant dice su
quest’arte e appare priva di pensiero in relazione alle altre arti; può acquisire la dignità di arte
bella solo in correlazione alla poesia. Kant non riflette, a suo avviso, senza premesse e senza
presupposti sulla natura e sulle possibilità della musica, ma la sua valutazione è determinata
notevolmente dall’estetica sentimentale della musica del XVIII secolo. Essa rifiuta procedimenti
pittorici o allegorici come procedimenti artificiali che disturbano l’effetto della musica (cfr.
Schmidt 1990, p. 25). Infine, per Schubert, la musica senza testo è oggetto del giudizio
dell’intuizione pura del tempo, non dell’armonia di intelletto e immaginazione. Il valore del
giudizio di gusto libero, l’universalità del bello musicale che appare bellezza libera derivano dal
giudizio e procedono in base alla mera forma, ovvero in base alla forma intuitiva del tempo. Solo
l’articolazione di qualcosa di formale come tale grazie alla forma dell’intuizione del tempo è
fondamento del bello musicale che non è provocato né dall’attrattiva sensibile né da un concetto
determinato. Per mostrare che la musica senza testo è giudicata in base al tempo Schubert richiama
la Riflessione 672 che però, secondo la datazione di Erich Adickes, risale ai primi anni Settanta
(cfr. Schubert 1975, p. 18).

Karl Nef scrive che la musica è valutata da Kant come un gioco piacevole e che la sua bellezza ha il
medesimo valore della bellezza di un pappagallo, di un colibrì, dell’uccello del paradiso; lo scopo
della musica non sarebbe quindi spirituale ma corporeo (cfr. Nef 1905, p. 33). Nef nota però che
questa analogia si fonda su un’intuizione corretta: anche l’effetto della musica dipende dalla
bellezza dei rapporti temporali come la bellezza delle arti figurative deriva dalla bellezza delle
relazioni spaziali (Nef 1905, p. 35).

5. Canto dell’usignolo e musica vocale

Il piacere a priori del gusto si distingue dal piacere a priori dell’approvazione. Se la regolarità
che conduce al concetto di un oggetto è interpretata a prescindere dal concetto stesso, se essa non
mira direttamente alla conoscenza, può valere anche come conditio sine qua non che permette di
“afferrare l’oggetto in un’unica rappresentazione, determinando il molteplice nella forma di quello”
e implica sempre il piacere estetico a priori [Wohlgefallen]; come è stato acquisito dal paragrafo
14 e sarà ripetuto nel paragrafo 53, la matematica è la conditio sine qua non di quella proporzione
fra le impressioni nel loro nesso e nella loro alternanza che ne rende possibile l’unificazione in
una composizione musicale. Se, invece, come ora si spiega, la regolarità, come quella dei numeri
dell’aritmetica in quanto scienza, implica necessariamente l’unificazione del molteplice in un
concetto in vista della conoscenza dell’oggetto, essa può dar luogo all’approvazione per la
soluzione di determinati problemi, ma non può suscitare un intrattenimento libero e finalistico
delle facoltà dell’animo. Nella musica l’elemento matematico non è rappresentato con concetti
determinati; Kant non identifica la regolarità nella successione delle note con la regolarità dei
numeri, ma precisa che tutto ciò che è regolare “si avvicina” alla regolarità matematica: “Tutto ciò
che (avvicinandosi alla regolarità matematica) è rigidamente regolare […]”; tutto ciò che è
rigidamente regolare, ad esempio i rapporti matematici fra i suoni, non è identico alla regolarità
matematica delle figure geometriche, ma si avvicina soltanto a essa.

L’argomentazione si sposta poi dallo a priori all’empirico e analizza approvazione e gusto in
relazione all’attrattiva. Ciò deve essere sottolineato con decisione in quanto le affermazioni che
seguono sono state spesso intese come la dimostrazione della presenza di una contraddizione. Quando
sostiene che tutto ciò che si avvicina alla regolarità matematica delle figure geometriche ha in sé
un aspetto negativo che non invita a intrattenersi nella contemplazione, anzi annoia, se non ha
espressamente un fine conoscitivo o un definito scopo pratico, l’autore intende senza dubbio
riferirsi alla regolarità che sta a fondamento della musica, alla regolarità non concettuale che è
già stata presentata nel paragrafo 16. Sotto questo punto di vista il canto degli uccelli, che non
riusciamo a ricondurre a regole musicali, sembra avere in sé più libertà e quindi maggiore ricchezza
per il gusto dello stesso canto umano, eseguito con tutte le regole dell’arte musicale.

Si potrebbe quindi essere indotti a credere che i rapporti matematici fra i suoni compaiano sia come
fondamento del gusto musicale a priori, che presuppone il rapporto armonico fra le facoltà
conoscitive nel soggetto, sia come ostacolo al gusto e causa di noia. Siamo forse in presenza di una
palese contraddizione? Sembra che questa sia l’opinione di Gustav Wieninger: “La determinatezza
matematica della forma musicale che da un lato fonda l’universalità del piacere, ostacola dall’altro
lato nuovamente il valore estetico della musica, poiché danneggia la libertà dell’immaginazione
[…]. Con questa obiezione Kant contraddice la fondazione della libertà dell’immaginazione da lui
appena compiuta […]” (Wieninger 1929, pp. 34-35).

Mi pare però che il discorso non presenti qui alcuna contraddizione, ma piuttosto una differenza di
livelli: al piacere a priori dell’approvazione è contrapposto il piacere a priori del gusto, dal
piacere a priori del gusto è differenziato poi il piacere empirico dell’attrattiva. Quando afferma
che le regole dell’arte musicale contengono un numero di elementi in grado di favorire il gusto
minore rispetto a quelli che offre il canto degli uccelli, e che la musica può causare noia con la
sua struttura matematica, Kant non intende svolgere, a mio avviso, un’analisi del valore estetico
della musica; la musica è indagata entro questa argomentazione sotto il profilo del godimento ed
esclusivamente in questo senso è proposta, mi pare, la tesi che la matematica possa diventare fonte
di noia; non si esclude che anche il canto umano possa avere un nesso con la libertà del gusto, ma
si nota che il piacere per un canto prodotto dall’uomo è meno libero del piacere estetico suscitato
dal canto degli uccelli.

A conclusione della nota sono elencati alcuni oggetti che né sono belli, né sono figure geometriche,
ma possono contribuire alla bellezza con la loro attrattiva. La vista delle mutevoli forme del fuoco
d’un caminetto o d’un ruscello mormorante è oggetto di un tipo di immaginazione produttiva
particolare, ovvero dell’immaginazione involontaria come, nelle fasi precedenti, lo erano l’ascolto
di una musica e la vista delle figure assunte dal fumo. Si può ipotizzare che non vi sia un motivo
specifico per il quale non si allude qui alla musica e al fumo, e che ciò dipenda semplicemente dal
fatto che gli esempi qui addotti siano stati ritenuti sufficienti a dare una raffigurazione
intuitiva dell’attrattiva esercitata dalla varietà (cfr. CdG, pp. 216-218).

6. Suoni artistici e suoni naturali

Per illustrare le caratteristiche dell’interesse per il bello come incentivo alla moralità, tema del
paragrafo 42, Kant si avvale di una comparazione con l’interesse empirico, la cui descrizione
psicologica si arricchisce di nuove osservazioni. Una prima constatazione che l’esperienza conferma
regolarmente è che fra coloro che si dedicano alla contemplazione delle arti belle si possono
trovare individui privi di carattere morale, totalmente in balìa di rovinose passioni: le tesi di
Rousseau erano, dunque, corrette. Per Rousseau le arti ingentiliscono le nostre maniere e insegnano
alle nostre passioni un linguaggio ricercato; nate dall’ozio e dalla vanità portano con sé il lusso,
la dissolutezza dei costumi e la corruzione del gusto (Si veda Rousseau 1970, pp. 209-237; cfr. AA
XV pp. 887, 889, 441-442, XXIV, p. 65 e XXV, p. 846). Nachtsheim propone di “distinguere nettamente
in Kant tra affermazioni per le quali si esige che abbiano un senso rigoroso (‘scientifico’) e
affermazioni dalle quali non si può esigere, sin dal principio, una scientificità illimitata perché
si riferiscono a contenuti che non si possono completamente dominare con gli strumenti della scienza
[… ]. Di questo genere sono affermazioni come quella che spesso si incontrano ‘imbecilli’ fra
coloro che si dedicano alla musica” (1997, pp. 9-10).

Questa valutazione negativa, si può notare, è di carattere empirico e riguarda i “virtuosi del
gusto”, non coloro che possiedono un gusto autentico, originale e a priori; virtuosi del gusto sono
coloro che non si attengono alla natura costante e a priori del gusto, ma si orientano secondo le
mode e il gusto transeunte e mutevole. I “virtuosi” sono anche l’esatto opposto del vero genio e fra
essi non si devono inserire gli autentici geni che creano qualcosa di nuovo nella loro arte;
l’interesse per il bello artistico che è qui definito inferiore all’interesse per il bello naturale,
in quanto non sarebbe indizio sicuro di un carattere morale, riguarda in particolare quell’arte
nella quale Kant include “anche l’uso artificiale di bellezze naturali a scopo di ornamento e quindi
di vanità” (CdG, p. 272); non l’arte in sé e per sé, ma l’arte in quanto è considerata come una
bellezza che alimenta la “vanità o tutt’al più le gioie della società” (CdG, p. 273); l’assenza di
carattere riguarda quindi gli intenditori o gli appassionati dell’arte (cfr. CdG, p. 273), non le
produzioni dei geni autentici. Un esempio concreto: Patrick Brydone (1741-1818), viaggiatore e
scienziato inglese, nota che a Caterina Gabrieli (1730-1796), dell’opera di Palermo, fu spesso
impossibile cantare non per capriccio personale, ma per cause fisiche, ovvero a causa della
delicatezza della sua sensibilità. “Dice anche che non sempre è il capriccio a trattenerla dal
canto, ma che ciò può dipendere spesso da cause fisiche, e io voglio crederle”. Brydone si dichiara
disposto a credere che anche la più piccola mutazione dell’aria debba causare una differenza
considerevole e che nel nostro clima umido vi sia il pericolo che le fibre perdano la loro
straordinaria sensibilità e molto spesso non siano accordate a tal punto da permettere il canto
(cfr. Brydone 1774, II 208-217. Su Brydone cfr. AA XXV pp. 994, 1540, 1562). Criticare i virtuosi
non significa, quindi, distruggere il fondamento del gusto per il bello affermando che tra il
sentimento per il bello e il sentimento morale, ben lungi dal sussistere un’affinità, si spalanca un
abisso incolmabile; né significa sentenziare l’inconciliabilità fra l’interesse per il bello e
l’interesse morale.

Supponiamo di raggirare un amante della vera bellezza piantando in terra fiori artificiali del tutto
simili a quelli naturali, collocando uccelli abilmente intagliati sui rami degli alberi; una volta
scoperto l’inganno, l’amante della bellezza potrebbe provare per questi oggetti solo l’interesse
della vanità, il proposito di ornare la propria camera per l’occhio altrui, non per il proprio
piacere a priori. Questo giudizio è congiunto a un interesse mediato, riferito alla società, il
quale non offre alcun indizio sicuro di disposizioni al bene morale. Il modo di pensare
[Denkungsart] di coloro che sono privi del sentimento per la bellezza naturale, che non mostrano la
disponibilità ad interessarsi alla contemplazione della natura e si attengono al godimento puramente
sensibile del mangiare o del bere è da noi giudicato grossolano e volgare quando pretendiamo di
attribuire l’interesse immediato per la bellezza agli altri esseri umani conferendo ad esso valore
universale e necessario. Queste considerazioni sono quindi osservazioni empiriche su aspetti non
certo a priori della bellezza; quando si avvale del termine “arte bella” Kant concentra la sua
attenzione sull’uso artificiale di bellezze naturali a scopo di ornamento e quindi di vanità.

Tema del paragrafo 42 è la differenza fra bellezza naturale e bellezza artistica in relazione al
loro nesso con il sentimento morale. Non si affronta, quindi, il problema della natura del giudizio
del “mero gusto” (CdG, p. 274), ma quello della “valutazione” [Schätzung] (CdG, p. 274) relativa
alla natura e all’arte. L’interesse intellettuale per il bello è maggiormente compatibile con la
bellezza naturale che con la bellezza artistica. Intenzione dell’autore non è negare che anche la
bellezza artistica possa generare un interesse intellettuale, ma mostrare che soprattutto la
contemplazione della bellezza naturale è compatibile con in sentimento morale. Ciò può essere
dimostrato se ci si interroga sullo scopo ultimo dell’umanità e sulla disposizione naturale propria
dell’essere umano; sono qui accettate le teorie che, contro Rousseau, sottolineavano il valore della
contemplazione del bello come propedeutica alla moralità e strumento di educazione, come ad esempio
quelle di Sulzer, di Home e di Hume che in questo orizzonte avevano valutato la musica. Esse sono
sottratte all’orizzonte empirico nel quale originariamente erano collocate e connesse con il
concetto dello scopo ultimo del genere umano, ovvero con il bene morale. La considerazione è a
priori e riguarda la destinazione ultima del genere umano.

L’argomentazione prende le mosse dall’analisi della differenza fra facoltà Giudizio estetico e
facoltà del Giudizio intellettuale. La prima giudica le forme e prova piacere per il semplice
giudizio, attribuendolo al tempo stesso a tutti come regola, a prescindere da concetti e da un
interesse, e senza produrre alcun interesse, né empirico né intellettuale; questo tipo di giudizio
era già stato esaminato come giudizio puro nei paragrafi precedenti la deduzione e aveva trovato il
suo oggetto precipuo nel concetto della bellezza libera di cui trattava il paragrafo 16. La facoltà
del Giudizio estetico non solo non si fonda su un interesse ma neppure produce alcun interesse.

La seconda facoltà determina a priori un piacere per le semplici forme delle massime pratiche, in
quanto esse si qualifichino da se stesse atte a valere come legislazione universale, determina
questo piacere come legge valida per tutti, senza presupporre alcun interesse e producendo tuttavia
l’interesse per la legge morale. Mentre il piacere prodotto dalla facoltà del Giudizio estetico è il
gusto, il piacere derivante dalla facoltà del Giudizio intellettuale è il sentimento morale,
analizzato nella Critica della ragion pratica.

Sin qui i due Giudizi e i due tipi di piacere, il piacere del gusto e il piacere del sentimento
morale che ne scaturiscono, sono l’uno a fianco all’altro, nella loro indipendenza e nella loro
autonomia. La questione dell’interesse intellettuale potrà essere posta a condizione che si muova
non dall’interno della facoltà del Giudizio estetico così concepita, ma dalla ragione e da un suo
interesse a priori. Se analizziamo la natura della ragione, notiamo che essa è contraddistinta da un
interesse a conferire realtà oggettiva alle idee per le quali produce un interesse immediato nel
sentimento morale; la ragione è interessata a che le idee morali abbiano realtà oggettiva, a che la
natura mostri almeno una traccia, oppure dia un cenno che ci riveli che essa contiene in sé un
qualsivoglia fondamento che ci legittimi a supporre una concordanza secondo leggi fra i suoi
prodotti e il nostro piacere indipendente da qualsiasi interesse, conosciuto a priori come legge
universale e non fondato su prove. Poiché la ragione deve provare interesse per ogni espressione
nella natura di questa armonia con il nostro sentimento di piacere a priori, l’animo non può
riflettere sulla bellezza naturale a prescindere da questo tipo di interesse. Questo interesse per
il bello naturale presuppone necessariamente un interesse per il bene morale già ben fondato e
sviluppato, in quanto esso è morale per affinità; se dunque a qualcuno interessa in modo immediato
la bellezza naturale, si ha motivo di credere che egli possieda almeno una disposizione
all’intenzione morale buona.

Kant è ben consapevole delle obiezioni che si potrebbero sollevare contro questa sua interpretazione
dei giudizi estetici in relazione alla loro affinità con il sentimento morale; si potrebbe dire che
è troppo artificiosa e troppo costruita arbitrariamente per poter costituire la vera comprensione
della “scrittura cifrata”, in base alla quale la natura ci parla “in modo figurato” attraverso le
sue belle forme. Egli crede però di poter rispondere anticipatamente a queste critiche mostrando che
a favore della sua spiegazione si possono addurre tre argomenti. Innanzitutto, questo interesse
immediato per la bellezza della natura non è comune, ma proprio di coloro il cui modo di pensare
[Denkungsart] sia o già formato per il bene oppure particolarmente ricettivo a questa formazione
morale. Questo linguaggio della natura può essere interpretato perché è un “linguaggio cifrato con
il quale la natura ci parla in modo figurato” (CdG, p. 274) e la sua interpretazione è resa
possibile o dalla presenza di un sentimento morale già sviluppato oppure dall’esistenza di una
disposizione morale non ancora portata a pieno sviluppo; la moralità o la disposizione a essa,
ovvero il sentimento morale, sono dunque la conditio sine qua non dell’interesse per la bellezza
della natura.

Inoltre, l’interesse per il bene e l’interesse per il bello sono entrambi immediati, né richiedono
una riflessione evidente, sottile e intenzionale; la differenza fra i due consiste nel fatto che
l’interesse per il bello naturale è libero, mentre l’interesse per il bene morale è fondato su leggi
oggettive. L’analogia fra giudizi di gusto puri e giudizi morali si può esprimere come segue: il
giudizio di gusto puro, senza dipendere da alcun interesse, causa un sentimento di piacere e lo
rappresenta al tempo stesso a priori come conveniente all’umanità in generale; anche il giudizio
morale causa un sentimento di piacere, lo rappresenta al tempo stesso a priori attribuendolo
all’umanità in generale, ma il suo fondamento è dato da concetti. Il bello può produrre, dunque, un
interesse “libero” che si distingue dall’interesse fondato su concetti che deriva dal bene morale.

Questi due primi argomenti a sostegno della concezione morale dell’interesse immediato per il
linguaggio cifrato della natura sono desunti dalla critica trascendentale del Giudizio estetico. Vi
è però una terza argomentazione, la quale presuppone la concezione teleologica della natura che sarà
elaborata e fondata nella seconda parte dello scritto: l’ammirazione della natura, la quale si
mostra come arte nei suoi prodotti belli. La natura produce la bellezza non semplicemente in modo
casuale, ma per così dire intenzionalmente, in base a una disposizione secondo leggi e a una
finalità senza fine. Il fine di questa produzione della bellezza naturale non può essere individuato
negli oggetti esterni, ma è riposto in noi stessi, in ciò che costituisce il fine ultimo della
nostra esistenza, nella destinazione morale.

Rispondendo in anticipo a critiche che poi furono di fatto rivolte alla sua dottrina, Kant nota che
si potrebbe dire che l’interesse per la bellezza naturale deriva esclusivamente dal legame con
un’idea morale; l’oggetto bello della natura può generare un interesse, si potrebbe rimproverare a
Kant, solo in quanto vi si aggiunga un’idea morale; presupponendo un concetto morale, anche il bello
naturale genera quindi un interesse mediato e ciò comporta l’eliminazione della differenza fra la
bellezza naturale e la bellezza artistica. A questa osservazione si può però replicare che non il
legame con un’idea morale, ma la costituzione della natura in se stessa, tale per cui si presenta
atta a una tale unficazione con un’idea morale, costituzione che le appartiene intrinsecamente, è
ciò che genera un interesse immediato. La bellezza naturale è già, in quanto tale, predisposta al
legame intrinseco e immediato con l’idea morale, che non le si aggiunge quindi dall’esterno.

Nella natura bella rientrano anche sensazioni cui si può attribuire notevole attrattiva, come i
colori e i suoni; i primi sono modificazioni della luce, i secondi del suono [Schall] ed entrambi
sono come “mescolati” alla bella forma, fusi con essa. Anch’essi sono oggetto di una critica
trascendentale, in quanto sono le uniche sensazioni che permettono non solo il sentimento dei sensi,
ma anche la riflessione sulla forma delle modificazioni dei sensi della vista e dell’udito,
contenendo in sé “come, per così dire”, un linguaggio che avvicina la natura a noi e “sembra” avere
un significato superiore. Il colore bianco del giglio sembra condurre l’animo a idee di innocenza,
gli altri colori, dal rosso al violetto, sembrano rinviare alla sublimità, al coraggio, alla
magnanimità, all’amicizia, all’umiltà, al contegno e alla delicatezza. Anche nei suoni naturali si
può constatare la presenza di un linguaggio cifrato della natura: il canto degli uccelli annuncia
gaiezza e contentezza della propria esistenza. Questo è il modo in cui noi interpretiamo la natura,
a prescindere dal fatto che ciò corrisponda alle sue intenzioni oppure non le sia conforme. Affinché
possiamo provare un interesse immediato per un oggetto e supporre che anche altri debbano [sollen] provarlo, è necessario che esso sia natura, o che sia da noi considerato tale. Questa non è una
conclusione puramente astratta, ma è qualcosa che si verifica di fatto quando riteniamo rozzo e non
nobile il modo di pensare di coloro che sono privi di sentimento per la natura bella e si divertono
in pranzi e bevute nel godimento delle semplici sensazioni dei sensi; sentimento è ricettività di un
interesse per la contemplazione del bello naturale.

I suoni non compaiono qui come sensazioni che hanno una funzione particolare all’interno di un’arte,
ma come un linguaggio naturale. È possibile avere un interesse intellettuale per la natura, se essa
è bella forma e non contiene attrattive. Attrattiva e bellezza sono contrapposte nuovamente l’una
all’altra come nei paragrafi che precedono la deduzione. Come nel paragrafo 14 si affermava che vi è
un tipo di attrattiva che si può sussumere sotto il concetto della bellezza, ovvero i suoni, così
ora si sostiene che l’attrattiva dei suoni che provengono direttamente dalla natura non deve essere
confusa con l’attrattiva generata da altre sensazioni. Che cosa distingue i suoni naturali dalle
altre sensazioni che la natura ci può fornire? I suoni costituiscono una scrittura cifrata della
natura e sembrano quindi formare un particolare linguaggio; un linguaggio ha, però, una forma e
l’elemento formale è, appunto, la forma del linguaggio stesso in quanto tale. Precedentemente
abbiamo visto che la forma di suoni prodotti artisticamente è la matematica; potremo seguire lo
sviluppo della forma matematica e il suo legame con il linguaggio nel paragrafo 53.

È in questo modo chiarito nelle sue motivazioni intrinseche il significato dell’affermazione
contenuta nella Nota generale alla prima sezione [in realtà, “libro”] dell’Analitica; preferiamo il
canto dell’usignolo alla musica vocale umana perché scambiamo la bellezza del suono naturale con
l’espressione della felicità di quell’animale; per il canto dell’usignolo abbiamo un interesse
immediato che deriva dal sentimento morale, dall’analogia con il giudizio morale e dal giudizio
teleologico.

Fin qui si è spiegato quale sia il fondamento a priori della valutazione della bellezza naturale
come bellezza che produce un interesse libero; ora si può porre il quesito sulla presenza di un
interesse non immediato per il piacere generato dall’arte. Esclusivamente la natura risveglia un
piacere immediato, mentre l’arte, che può essere superiore alla natura secondo la forma, può
risvegliare un interesse solo in base al suo scopo, mai in se stessa. Il piacere per l’arte bella
non è connesso con un interesse immediato, perché l’arte può essere imitazione della natura al punto
tale da diventare illusione e da suscitare il medesimo effetto che deriva dalla bellezza naturale
con la quale può essere confusa; in questo caso proviamo piacere immediato per la natura, non per
l’arte. Inoltre, l’arte bella può essere intenzionalmente mirata al nostro piacere, nel qual caso il
piacere stesso avrebbe luogo senza dubbio in modo immediato grazie al gusto, ma non risveglierebbe
interesse se non in modo mediato per la causa che ne costituisce il fondamento, ovvero per un’arte
che può suscitare interesse solo in base al suo proprio scopo, mai in se stessa. Kant non esclude
allora che possiamo provare un interesse mediato per l’arte, e l’interesse intellettuale non è
affatto precluso al bello artistico.

Annotazione

Wilhelm Windelband cita questo paragrafo a conferma della tesi che Kant avrebbe considerato i suoni
in tutta la terza Critica sensazioni riflesse, per giustificare l’assunzione della variante woran
ich doch gar nicht zweifle nel paragrafo 14 (cfr. AA V, p. 528; Windelband è seguito da Von Aster
1909, pp. 465 sg.; Buek, in Kant 1911-1922, V, pp. 612-613; La Rocca 1998, p. 537 nota; Böhme 1999,
p. 50). Si deve però notare che il discorso non verte qui su suoni musicali, ma esclusivamente su
suoni naturali.

È stato recentemente affermato che le proposizioni del paragrafo 42 sui suoni naturali come
linguaggio figurato avrebbero un contenuto esplosivo che minaccerebbe di far saltare l’estetica
kantiana (Böhme 1999, p. 44). Per Böhme il passo citato non risponde più alla domanda relativa
all’interesse intellettuale per il bello, perché la spiegazione che Kant ne dà sarebbe troppo
intellettualistica, ma alla seguente domanda: “Che cosa dovrebbe dire qualcuno il quale comprendesse
il linguaggio della natura più con il sentimento che con l’intelletto? Kant stesso ci dà una
risposta. Si tratta del secondo passo, che fa anch’esso l’effetto di un corpo estraneo nell’opera di
Kant, nel quale si parla di un linguaggio della natura” (Böhme 1999, p. 50). La ragione per la quale
Kant non dà risposta è, probabilmente, che egli non si è posto la domanda che inquieta Böhme. Böhme
coglie l’affinità fra giudizio estetico e giudizio morale, non la presenza della ragione pratica
nell’interesse intellettuale: il sentimento morale sarebbe una valutazione intuitiva dei motivi
dell’azione, delle massime pratiche in relazione alla loro convenienza morale. La natura, il cui
linguaggio, costituito anche da suoni, è oggetto dell’interpretazione umana è, secondo Böhme, un
contesto di comunicazione di cui l’uomo stesso è parte integrante; la comprensione di questo
linguaggio implica che il nostro animo sia posto in una Stimmung particolare. Kant espone qui,
prosegue Böhme, un’idea estranea al suo pensiero e se ne deve trarre la conclusione che egli conosce
evidentemente, come essere umano, esperienze che non può attribuirsi come pensatore; Kant non riesce
a decidersi ad assegnare al linguaggio della natura la legittimità di finzione necessaria che invece
riconosce all’idea della finalità della natura, perché la sua teoria del bello non è una teoria
della comunicazione, ma una teoria del giudizio. Mentre l’auscultazione del linguaggio della natura
presuppone compartecipazione, il giudizio sulla natura esige distanza dalla bellezza (cfr. Böhme
1999, pp. 52-53).

Coglie nel segno, a mio avviso, l’interpretazione di Hölderlin che premette come motto del suo Inno
alla bellezza le seguenti parole: “La natura nelle sue belle forme ci parla con un linguaggio
figurato e la capacità di interpretare la sua scrittura cifrata ci è data nel sentimento morale.
Kant”. Secondo Böhme, invece, Hölderlin misconoscerebbe che l’idea di un linguaggio e di una
scrittura cifrata della natura non è rigorosamente kantiana, dal momento che l’interpretazione di
quel linguaggio non dipenderebbe dal sentimento morale, ma si verificherebbe in modo solo analogo al
sentimento morale.

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