Lo Zen è una via del cuore

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Lo Zen è una via del cuore

Un’intervista di Eric Rommeluère

Di recente stavo leggendo un articolo dedicato alle vie spirituali. L’autore
le classificava in due categorie: da una parte quelle che denominava
ascetiche, dall’altra quelle del cuore. Queste prime, ardue ed esigenti,
sono riservate a qualche audace solitario. Le seconde, più accessibili, si
allontanano da questi ardui cammini, per prendere le vie dell’amore o della
devozione; l’autore cita certi mistici occidentali, anziché il bakhti yoga,
la via indiana della devozione. Le prime sono fondate sullo sforzo, le
seconde sull’abbandono.

L’autore collocava lo zen nella prima categoria delle vie ascetiche. Ne
faceva persino un esempio tipico, col precisare che lo zen ignorava l’amore
(sic!). Tale presentazione di uno zen asciutto ed insensibile è purtroppo
ricorrente. Questo testo mi ha naturalmente molto sorpreso parendomi lo zen,
nella sua più intima esperienza, essere una via del cuore.

Già tale antagonismo dell’ascesi e dell’amore è discutibile. Un primo
sguardo alle grandi tradizioni spirituali certo può discernere tra le
diverse tendenze. Certi tratti sono più salienti di altri. Certe tradizioni
privilegiano effettivamente lo sforzo, ed altre l’abbandono. Ma ogni via
spirituale implica un apprendistato, uno sforzo, a volte uno strappo con se
stessi. L’amore è lungi dal venire naturalmente attribuito ai mistici e
molti di loro hanno dato testimonianza delle loro difficoltà in una via
[quella dell’amore] che spesso gli è parsa arida. Vi è anche un’ascesi
dell’amore. Meriterebbe persino il nome di Via?

Trattandosi dello zen, tutti i testimoni sembrano pero concordare: i monaci
si astringono ad esercizi intensi, a volte anche, come nello zen Rinzai,
gridono o si picchiano l’uno con l’altro. Dov’è si potrebbe vedere la bontà
in tali cose?

Il cammino dello zen è portato da una reale esigenza. Tutti i grandi monaci
lasciano l’immagine di uomini animati da una potenza interiore. Questa gli
conduce ad esporsi totalmente, a vivere senza limiti la loro pratica. Taluni
vanno proprio anche molto lontano in tale esigenza. Ad un momento della sua
vita, credo avesse 35 anni, Kôdô Sawaki (1880-1965) si allontanò per un
ritiro di meditazione di mille giorni. In uno dei suoi libri, riporta che lo
volle fare solo per se stesso, senza preoccuparsi che qualcuno venisse ad
interrogarlo, ammirarlo o criticarlo.

Questo ha stravolto la sua vita. Non so, comunque, se bisogni imitarlo.
Meditò tutti i giorni dalle due della mattina sino alle dieci della sera,
senza interrompersi tranne per un magro pasto che gli portava una vecchia
signora dei dintorni. Per mille giorni. Pare impossibile. Stando così le
cose, il termine di ascesi sembra quasi troppo povero quando si tenta di
immaginare la meditazione di un uomo seduto ritto, a gambe incrociate per
mille giorni. Eppure, era solo la volontà di un uomo di confrontarsi con se
stesso. L’intensità messa a nudo. Non per straziarsi ma per vivere
totalmente uno slancio interiore.

Naturalmente, tale esigenza si esprimerà in questo o quel modo a secondo
della personalità. Eppure l’esigenza non è nulla se non è accoppiata alla
dolcezza. Una formidable tenerezza emana da tutti gli autentici maestri zen.
Io credo che tale associazione dell’esigenza e della tenerezza sia una delle
caratteristiche essenziali dello zen. Nello zen soto, non si grida, non si
picchia. Eppure, nelle espressioni di questi monaci giapponesi, la bontà non
è sempre immediatamente visibile. Perlomeno ai nostri occhi occidentali. Per
afferrare tale bontà in tutto il suo spessore, ci vuole un’intimità reale.

Ed è qui che risiedono forse le incomprensioni sullo zen. Noi siamo
Occidentali ed aspettiamo, senza proprio averne coscienza, che lo sforzo da
una parte, e la bontà dall’altra, si manifestino in questo o quel modo. Ma
queste espressioni sono anche loro plasmate da una cultura [su di un’altra].
Le risposte che noi aspettiamo non sono necessariamente quelle che può
suscitare un quadro giapponese. E’ un punto sul quale dobbiamo ritornare e
riflettere. Queste diversità culturali ci impongono finalmente di desistere
dai modelli giapponesi che rischiano di creare confusioni di significato se
le si imita tali e quali. Dobbiamo soltanto creare [una nostra pratica] a
partire dall’esigenza e della dolcezza.

E’ essenziale risalire a tale dimensione di bontà interiore, giacché lo zen
oggi rimane incompreso. Dogen (1200-1253), il fondatore della scuola Soto,
aveva dei giovani discepoli. Tettsu Gikai era il più brillante tra di loro.
Gikai aveva vent’anni di meno di Dogen. Egli aveva raggiunto la comunità di
Dogen a Kyoto con il suo proprio maestro quando aveva solo una ventina
d’anni. Poco prima di morire, Dogen che già era malato si confidò con Gikai.
Gli sarebbe piaciuto conferirgli la sua trasmissione poiché egli capiva
profondamente lo zen.

Tuttavia non lo poteva fare, disse. Gikai era sprovisto, per riprendere
l’espressione tradizionale, di “questa bontà di buona nonna” (in giapponese,
si dice robashin), questa dolcezza che è il marchio dello zen. Egli tentava
di spiegargli che lo zen non è solo un sapere o un talento. E’ anche una via
del cuore. Questa confidenza di Dogen sconvolse il giovane Gikai. Nella
scuola Soto, spesso si ripete quest’aneddoto per illustrare il profondo
significato dello zen. Finalmente, Gikai ricevette la trasmissione da Ejo,
il principale discepolo di Dogen, molti anni dopo.

Nel tempio di Tôkei’in, il tempio radice del nostro lignaggio, l’oggetto
principale di venerazione del tempio, che si chiama gohonzon, è una statua
di legno di Kannon a mille braccia e mille occhi. Venne offerta da uno dei
fedeli del tempio, poco dopo la sua fondazione nel quattrocento. E da più di
cinquecento anni che quest’immagine testimonia per tutti la via del cuore.
Kannon [*] è il bodhisattva della compassione.

Il suo nome significa “Quello(a) che osserva i suoni [del mondo]”. Non si
accontenta di vedere la disperazione, sa anche risponderci, ha mille occhi e
mille mani, sia per vedere che per agire allo stesso tempo. Questa
straordinaria immagine di Kannon a mille braccia e mille occhi è
diffusissima in Giappone.

Si venerano anche le trentatré forme di Kannon. Si attribuisce a Kannon il
potere di manifestarsi sotto trentatré forme diverse per aiutare gli esseri
viventi, a secondo della loro sensibilità. Si può manifestare sotto forma di
un Buddha, ma anche sotto forma di un monaco, di un dio, magari di una
bambina o di un draco. Tale è il potere del cuore che sa trovare ogni volta
l’atteggiamento giusto.

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