Il dolore nella pratica della meditazione

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IL DOLORE NELLA PRATICA DELLA MEDITAZIONE

da ERIC ROMMELUERE

Eric Rommeluère, vice-presidente dell’Università Buddhista Europea a Parigi,
è stato un’ allievo di Taisen Deshimaru per parecchi anni, ed anche, a suo
tempo, tesoriere dell’AZI. Dirige ora un gruppo di studio del Buddhismo.

– Meditazione e dolore –

L’apprendistato della meditazione porta a scoprire uno spazio di libertà
interiore. Ci si trova in -si ritrova ?- uno stato profondo di appagamento e
di tranquillità.

Questi stessi termini, in effetti, non sono propriamente adeguati, poiché
parlare di appagamento oppure di tranquillità rinvia nuovamente a termini
opponibili come agitazione o lotta. Nella meditazione si effettua una
trasformazione in cui ogni contrapposizione diventa caduca, non ci si
percepisce più come agitato o non-agitato e ci si ritrova ad essere
completamente “a proprio agio “.

Ma spesso coloro che praticano la meditazione, nella fattispecie i
principianti, vengono messi di fronte ad un altra modalità d’essere della
meditazione, dove non son tanto a proprio agio. Intendo parlare del dolore.
Non è molto evocato ed è quasi un tabù per i meditanti. Per gli insegnanti,
spesso in debito verso uno Zen giapponese dal temperamento marziale, la
sofferenza fisica viene percepita come normale, anzi perfino necessaria.
Questo problema deve tuttavia essere chiarito, tanto sono io stesso convinto
che lo stato d’intensa sofferenza fisica che si può ogni tanto sperimentare
nel corso di una meditazione rimane antinomico allo stato pacato di samadhi.

Sono colpito dal fatto che non si parla quasi mai di questa esperienza del
dolore. La letteratura Zen, oggi disponibile è ingente, vi si trovano un
sacco di manuali di meditazione, ma nessuno evoca il vissuto dei praticanti,
con tutto il suo corteo di difficoltà. Tutt’al più si stenderanno a lungo
sulle allucinazioni che, tutto sommato, riguardano poca gente. Ma nulla
sulla sofferenza fisica. Vi è una tale quasi non-considerazione del vissuto
interiore che non manca di stupirmi. Eppure, chiunque ha sperimentato ritiri
zen nello stile giapponese, sa che il dolore è una compagna abituale per
tutta la durata delle sedute di meditazione.

In parecchi centri zen occidentali, i praticanti vivono spesso la
meditazione come una prova. Per molti; le lunghe sedute di meditazione
creano uno stato di ipersensibilità e di invasione dolorosa dell’essere.
Siccome viene loro richiesto di non muoversi, la maggioranza deve quindi
venire a patti con la propria sofferenza : per qualcuno è un leggero
movimento del corpo, per un altro un raschiarsi la gola. Quando la cosa si
fà troppo urgente, devono inventarsi stratagemmi e accorgimenti mentali per
ammobigliare il tempo (e smobilitare il dolore).

Georges Frey (alias Taikan Jyoji) che visse parecchi anni nel monastero di
Shofukuji in Kobé lo spiega bene : «Vi sono due possibilità di fuggire le
difficoltà durante zazen : la prima consiste a praticare la concentrazione
sul koan o il respiro. Si dimentica la realtà, si sorpassa il dolore. Così
il tempo passa veloce. Ma mi è impossibile di rimanere concentrato più di
mezz’ora al giorno. Pratico allora una seconda possibilità, che è quella di
farmi dei film nella mente.» (Taikan Jyoji, Itinéraire d’un maître zen venu
d’Occident, Paris, Calmann-Lévy, 1996, pp. 154-155). Lo spirito è quindi
all’erta – preso in un via e vai continuo tra il «Posso tener saldo?» – ed
il – «Non posso tener saldo ?» Si fa la posta al minimo rumore che possa
indicare la prossimità della fine della meditazione. I lungimiranti prendono
analgesici ed altri balsami per le articolazioni. Perché ogni buon meditante
lo sà : fa male !

«Non bisogna negoziare col dolore, bisogna sorpassarlo», si sente spesso
dire. Un discorso ricorrente vuole infatti che il dolore abbia un valore
positivo. Sarebbe addirittura necessario : il dolore permetterebbe una
concentrazione migliore, anzi permetterebbe di sventare le trappole dell’
“ego”. Discorso paradossale, poichè lo scopo del Buddhismo rimane proprio
l’eradicazione della sofferenza : «soffrendo non soffrirete più». Leggiamo
il diario di Georges Frey :

«La prima sera, prendo la salda risoluzione di non muovermi più, sarà quel
che sarà. Dovessero staccarsi dal mio corpo le mie gambe, dovessi morire sul
mio cuscino, non cambierò la postura. Così ho modificato il mio approccio
del dolore. Non tento più di fuggire. Lo aspetto a piede fermo. E’ l’unico
modo perché la mia meditazione possa approfondirsi. Nonostante la
sofferenza, inevitabile, non mi muovo. Devo sorpassarla, altrimenti avrà
sempre l’ultima parola. Capisco che devo dominare il dolore o rimanere
dominato da esso. Non c’è altra scelta che mettermi in perpetua alta
tensione spirituale, dominare per non venir dominato». C’è nello zen
giapponese una certa cultura della violenza e della virilità, i novizi la
sperimentano nei monasteri, subendo non solo i dolori fisici della
meditazione, ma anche la sofferenza morale, la frustrazione e l’umiliazione
da parte dei decani.

Se è vero che il dolore modifica il nostro rapporto col mondo, – lo si
potrebbe qualificare come sottrazione, sottrazione al proprio essere, alle
proprie percezioni – non può portare allo stato di samadhi. Parlo
naturalmente del dolore totale, invadente, e non di semplici crampi che si
avvertono a volte. La confusione psicosomatica (cos’è il tempo, cos’è lo
spazio per l’uomo dolente ?) indotta da un corpo dolente è opposta allo
stato di tranquillità, di pacatezza. La meditazione ci introduce ad un nuovo
rapporto con noi stessi, essenzialmente non-violento. Il dolore,
inanzitutto, è totalmente fatto di violenza. Violenza contro se stessi,
violenza contro gli altri. Il dolore non è solo una sensazione, è prima di
tutto significato. In numerosi Centri, è, difatti, il segno di una coazione;
quella della sotomissione al gruppo. Una coazione che ci infliggiamo a noi
stessi, ma sopratutto, poichè consentita, una coazione inflitta dal gruppo.
Essa implica che il meditante sia in una relazione interattiva. Questo punto
è di rado chiarito. Segnado la carne, il dolore materializza l’appartenenza
dei corpi.

Questa dimensione interpersonale del dolore si rivelerà nelle sesshin
(ritiri zen alla giapponese) dove di seduta in seduta il dolore diventerà
poco a poco l’esperienza centrale della meditazione. Rimane da scrivere una
fenomenologia della sesshin. In ragione di otto a quattordici ore di
meditazione quotidiana, la sesshin si trasforma, per corpi poco agguerriti,
in una prova nella quale il dolore prende pressapoco un valore iniziatico…
La leggerezza o l’alacrità descritte da chi fuoriesce da un ritiro di questo
tipo è pari delle difficoltà che vi hanno trovate. Lo zendô, il dôjô,
diventa l’arena, il luogo chiuso, dove ognuno, nello stesso tempo testimone
ed agonista, partecipa al dolore collettivo. I limiti tra «io» e gli «altri»
si sciolgono : Cosa può il mio vicino circa l’irriducibilità della mia
sofferenza, soffre anche lui ? Eppure, a volte accade ch’io percepisca un
impercettibile movimento, il suo pianto muto. Così lontano e così vicino
dagli altri, il paradosso di quel luogo sta tutto qua.

Sarà affine a quello degli orientali questo vissuto ? Non dimentichiamo che
il dolore non è una semplice reazione fisiologica. Le percezioni, le
reazioni, le manifestazioni del dolore mutano a seconda della storia
personale, relazionale e culturale. «Pur essendo prossima la soglia di
sensibilità per l’insieme delle società umane, la soglia dolorifera cui
reagiscce l’individuo e l’atteggiamento che da quel momento utilizza sono
essenzialmente legati al tessuto sociale e culturale». (David Le Breton,
Anthropologie de la douleur, Paris, Métailié, 1995, p. 110). Per quanto io
sappia, non esiste uno studio comparativo sul vissuto meditativo degli
orientali e degli occidentali, ma si può supporre che l’acuità,
l’apprezzamento e l’integrazione del dolore in un contesto giapponese sia
largamente diverso dal nostro. Ho citato ad esempio Georges Frey, svizzero
educato nella cultura europea. Se un Giapponese soffre altrettanto, quale
sarà la sua percezione del proprio dolore ? Il fatto stesso che ne scriva (e
che impregni non solo la sua carne ma anche il suo discorso) è
significativo. Potrebbe un Giapponese anche solo parlarne ?

Nello Zen estremo-orientale, la rohatsu sesshin ha una parte particolare. Si
tratta di una commemorazione dell’Illuminazione del Buddha e dura dal primo
all’ottavo giorno del 12° mese lunare (oggi in Giappone, dove si usa il
calendario solare, e’dal 1° al 8° dicembre). E’ praticata in Giappone, in
Cina, in Corea. Si tratta di meditare in modo quasi ininterrotto per una
settimana. Tradizionalmente, si dorme seduti per solo qualche ora. Questa
sesshin è vissuta dai partecipanti, secondo le testimonianze che si possono
leggere quà e là, come una prova fisica intensa dove la deprivazione di
sonno si sovrappone al dolore… Viene assimilabile ad un rito iniziatico,
si tratta di morire e di rinascere. Nel monastero giapponese del Tenryûji,
il ritiro viene spostato per concludersi simbolicamente col solstizio
d’inverno. Secondo le parole di Omori Sogen :

«Quando si varca la soglia della rinascita del solstizio d’inverno, il yin
(oscurità) muta in yang (luce), simbolizzando la rinascita della nostra
propria natura originaria, dopo la nostra propria esperienza della Grande
Morte» [On crossing the threshold rebirth of the winter solstice, yin
(darkness) turns into yang (light), symbolizing rebirth to one’s original
self-nature after one’s experience of Great Death.] (Omori Sogen, An
introduction to zen training, Londres, Kegan Paul International, 1996, p.
146). La funzione della sesshin come rito di passaggio, in cui la sofferenza
fisica e psichica è centrale, risulta tale ancor più particlolarmente nella
scuola zen Sambô Kyodan fondata da Hakuun Yasutani. Sembra che
l’illuminazione avvenisse solo a costo di questa sofferenza. Eido Shimano,
che insegna oggi lo Zen nei Stati Uniti, riporta che la prima sesshin
condotta da Yasutani in Hawai’i nel 1962 che fù: «Altrettanto isterica
quanto storica. Si concluse con ciò che Yasutani rôshi considerò essere
cinque esperienze di kenshô [illuminazione].» (Senzaki Nyogen, Soen
Nakagawa, Eido Shimano, Namu Dai Bosa – A transmission of Zen Buddhism to
America, New-York, Theatre Art Books, 1976, p. 185). Non so da quando sia
databile la pratica di questi ritiri intensivi, che pare tardiva nella
storia dello Zen. Dôgen (1200-1253), per esempio, non la menziona.

Allora, bisogna fare l’elogio del dolore ? Costringersi, soffrire ? Bisogna
credere che «il dolore non è fine a se stesso, ma [che] impone sforzi per
sorpassare i propri limiti : sforzi necessari per cogliere l’esperienza zen»
(Taikan Jyoji, ibid., p. 60), e finalemente che «le austerità ascetiche zen
sono sempre praticate nel limite delle possibilità umane.

Se, dal 1° al 8° dicembre, durante Rohatsu, si pratica zazen in modo quasi
ininterrotto, questa è una prova che l’essere umano può non andare a letto
per otto giorni.» (Ibid., p. 123). Non avendo sperimentato un satori, non so
se lo strazio interno provocato dal dolore si confonde con, o provoca lo
strazio dell’ illuminazione. Nondimeno, mi pare evidente che ogni dolore
maggiore paralizza il samâdhi. Il dolore è chiusura. Ci rinchiude su di noi
stessi, il corpo non è più quel compagno silenzioso, grida e le sue grida
coprono tutti i suoni del mondo. All’opposto, la meditazione è tutta in
apertura. Il dolore è un carcere, la meditazione è una liberazione.

Non voglio dire che bisogna essere lassisti o diminuire il tempo della
meditazione. La domanda vera da farsi è questa :

-Cosa facciamo? : Meditazione, o facciamo finta di praticare ?

Leggiamo ancora Georges Frey : «L’occhio a mo’ di spada, vedo entrare il
Maestro. Regge un bastone corto e piatto. Avanza, piano piano, scruta e
valuta ciascun bonzo come un colonello che passa in rivista le truppe.
Stiamo sull’attenti, nella posizione seduta, faccendo finta di essere in
samâdhi.» (Taikan Jyoji, ibid., p. 40). Bisogna sottolineare il paragone.
Per un Giapponese, l’allenamento militare (marziale) e l’allenamento zen
quasi quasi si confondono. Conosciamo le influenze reciproche della Via del
Guerriero e dello Zen. Il bushidô, l’arte dei guerrieri fu considerato come
uno Zen in azione. In cambio, lo Zen giapponese è un’ arte marziale dove si
combatte, non un nemico esterno, ma un demonio interno : Mara? In tale
contesto, l’abnegazione è stata reinterpretata alla stregua della vacuità.
Vincere è essenziale :

«Durante la meditazione vespertina, ieri, soffrivo tanto d’avere le lacrime
agli occhi. Dolore, freddo e stanchezza sono le tre cose che mi accasciano.
Non sono ancora capace di superarle malgrado i progressi che ho fatto nel
mio zazen. Quanti sforzi per così poca realizzazione! Se il mio desiderio di
vincere quelle difficoltà è incrollabile, allora potrò riuscire. Dare il
meglio di me stesso sempre, ecco la mia meta, ma quanto è difficile! Mai
lasciarmi abbattere, ecco l’essenziale, sempre voler vincere, senza pensare
ad altro che di concentrarmi sul kôan.» (Taikan Jyoji, ibid., p. 162)

Sarà questo Zen che dobbiamo praticare ? Io credo in un’ altro modo di
percepire la meditazione, un modo non-violento, quasi “femminile”,
rispettoso del proprio corpo, opposto alla meditazione virile dello Zen
giapponese. Non c’è nulla da vincere nella meditazione. I meditanti non
hanno alcun record da superare. In certi Centri Zen, la meditazione diventa
l’oggetto di una gara visibile (contro se stessi, contro gli altri) : si
tratta di tener saldo ! Per molti, scavallare le gambe entro qualche minuto
dal gong fatidico verrà percepito come uno scacco. Eppure, ognuno ha la sua
propria storia corporale. Rimango convinto che ognuno deve imparare a
gestire la propria meditazione, e non fondersi in uno stampo ieratico la cui
serenità sarebbe soltanto apparente.

Questo non significa che bisogna smettere di meditare al primo crampo; si
tratta piuttosto d’imparare a gestire le proprie difficoltà. Lo Zen coreano
suggerisce un modo originale di gestire il dolore che potrebbe venir
ripreso. Proprio come in Giappone, i monaci coreani meditano molto. Per
loro, l’anno viene suddiviso in quattro periodi di tre mesi, due ritiri
formali e due periodi intermedi. Durante le ritirate, il programma
quotidiano comprende in genere quattordici ore di meditazione per blocchi da
tre ore in cui alternano 50 minuti di meditazione seduta seguiti da 10
minuti di meditazione in piedi. Nei periodi intermedi, si pratica un pò di
meno, e a “discrezione” Ciò significa che durante ciascun blocco di tre ore
ognuno è libero di gestire la meditazione al proprio ritmo. Le tre ore non
vengono segnalate ad ogni ora, ognuno può praticare alternativamente le
meditazioni sedute e in piedi come gli pare. Si può quindi uscire dopo
mezz’ora di meditazione seduta e fare un’ora di meditazione in piedi. Si ha
lì una combinazione astuta di una pratica rigorosa e nondimeno adatta alle
possibilità di ciascuno. Naturalmente, è quest’ultimo metodo che ottiene i
voti dei monaci. (Cf. Robert E. Buswell, Jr., The Zen Monastic experience –
Buddhist practice in contempary Korea, Princeton, Princeton University
Press, 1992, p. 167-168). C’è anche una tradizione orale nello Zen Sötô
giapponese : ai tempi di Dôgen, si poteva praticare la meditazione in piedi
“a discrezione” quando lo si desiderava. Ma non ho trovato alcun testo di
quell’ epoca che possa convalidare questa tradizione.

Nel mio gruppo, ho scelto di diminuire la durata dei periodi di meditazione.
Non fanno più 40 minuti (come in Giappone) ma 30. Non è indifferente. Per
parecchi occidentali, la soglia del difficilmente sopportabile o
dell’intollerabile sta approssimativamente sui 30 minuti. Meglio vale fare
una sequenza composta di tre volte 30 minuti di meditazione seduta,
inframmezzate da qualche minuto di meditazione in piedi, che consentono di
entrare in uno stato di concentrazione profonda senza venire turbati da
dolori fisici, piuttosto che due volte 40 o 45 minuti di meditazione
seduta… Le soglie del dolore non sono universali.

In una sala di meditazione, ogni violenza rispetto a se stessi o ad altri
deve essere vietata. Ho scelto di animare le sedute di meditazione nel modo
in cui lo faceva il monaco Ryôtan Tokuda durante i primi anni del suo
soggiorno in Francia : mi metto di fronte al muro come chiunque, non mi
alzo, non uso il bastone e non parlo. Per me è importante di rispettare
totalmente lo spazio meditativo di ciascuno. Imporre nulla, sovrimporre
niente, nessuna intromissione in questo spazio. In cinque anni di pratica
quasi quotidiana in compagnia di Ryôtan Tokuda, l’ho visto alzarsi durante
la meditazione magari tre o quattro volte, il più delle volte solo per
osservare le posture. Una volta, l’ho sentito alzarsi accanto a me. Ma,
appena alzato, si risedette subito. Alla fine della seduta, gli chiesi il
perchè di questo repentino mutamento. Mi fece questa risposta disarmante :
«Quando mi sono alzato, mi sono accorto che il parchè cigolava. Ho temuto di
disturbarvi.» Queste semplici parole mi hanno travolto ; sino ad allora, non
avevo mai sentito alcuno reagire in quel modo. Questo dimostrava il suo
totale rispetto della meditazione di ciascuno.

E’ diventato per me, da quel giorno, una linea di condotta. Naturalemente,
non si devono abbandonare completamente le persone. Certe hanno difficoltà
col meditare. Ma bisogna trovare il momento opportuno dove queste potranno
accettare ed integrare osservazioni o correzioni. Non necessariamente nel
quadro della meditazione stessa. “Rettificarle” affinchè corrispondano al
modello di una postura ideale senza tener alcun conto della loro storia
somatica o psichica è nel migliore dei casi inutile e, nel peggiore dei
casi, dannoso.

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