Lavorare con la paura

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Lavorare con la paura

di Michael Liebenson Grady

Questo articolo riassume il lavoro svolto durante un gruppo di
pratica durato otto settimane, condotto nel 1997 da Michael Liebenson
Grady al Cambridge Insight Meditation Center (CIMC), nel
Massachusetts, USA.
Informazioni sull’attività del CIMC si possono trovare nel sito
world.std.com/~cimc/

Possiamo avere una pratica spirituale molto impegnata, fare tutte le
cose ‘giuste’: sedere ogni giorno, partecipare ai ritiri annuali,
leggere e ascoltare il Dharma e perfino avere momenti di profonda
concentrazione e chiarezza mentale. Tuttavia, allo stesso tempo,
possiamo vivere la vita quotidiana evitando attivamente le nostre
paure e tenendole a distanza.

Rilke ha detto: “Quello che si richiede da noi è amare il difficile e
imparare a trattare con esso. Nella difficoltà ci sono le forze
amiche, le mani che lavorano su di noi”. Comprensibilmente, la paura è
un’energia difficile da amare. La fonte della nostra difficoltà nei
confronti della paura è collegata a due risposte profondamente
condizionate che abbiamo nei suoi confronti: l’avversione e
l’identificazione. A livello fisico, la paura fa star male. È
sgradevole. L’energia della paura si esprime in molti modi attraverso
il corpo, che vanno da sensazioni assai sottili che spesso passano
inosservate a sensazioni ben distinte di contrazione e tensione, come
un senso di compressione al petto, allo stomaco, al viso o alla gola.
Anche il respiro e il battito cardiaco vengono influenzati, così come
vengono coinvolti la pelle e la temperatura corporea (mani fredde,
umidicce). Se associamo queste sensazioni fisiche spiacevoli con le
analoghe sensazioni mentali (pensieri di vulnerabilità, impotenza e
separazione), cominciamo a capire perché rispondiamo con tanta
avversione all’esperienza della paura.

La nostra avversione per la paura – il giudicare e il condannare,
l’evitare e il negare, l’imbarazzo e la vergogna – sono intensificati
dalla nostra identificazione con la paura. C’è una forte tendenza a
personalizzare la paura, ad assumere un atteggiamento di separazione e
auto giudizio. La nozione di ‘sé’ non è lontana dalla nostra
esperienza della paura e condiziona il modo in cui la trattiamo.
Rafforza l’avversione e rende l’esperienza stessa più minacciosa.

Non solo giudichiamo la paura un’esperienza negativa (avversione), ma
giudichiamo noi stessi per avere questa esperienza. L’identificazione
con la paura ostacola lo sguardo diretto sulla paura e impedisce di
riconoscere la sua vera natura.

È questa incapacità di vedere la paura come una risposta impersonale,
condizionata, che crea tanta sofferenza. Un aspetto che apprezzo delle
nostre discussioni sulla paura nei gruppi di pratica è che facilitano
un modo più aperto di mettersi in relazione con essa. Per molti versi
queste discussioni aiutano a tirare la paura fuori dallo stanzino buio
dell’imbarazzo. Possiamo vedere che le nostre paure non sono di per sé
così personali come crediamo. Anche gli altri condividono paure simili
alle nostre e si rapportano con esse proprio come noi. Il
riconoscimento di questa somiglianza aiuta a dissolvere la separazione
causata dalla nostra identificazione con la paura e ci dà la fiducia
per esaminare la paura in modo meno reattivo.

Attraverso la ‘nobile amicizia’ e una conversazione adatta la mente
può diventare più equilibrata, facilitando la chiarezza e la libertà
interiore. La sfida, nel lavorare con la paura, è imparare come
attutire la reazione abituale di avversione lasciando andare la
stretta morsa dell’identificazione. Le pratiche di samatha-vipassana
possono tranquillizzare il cuore e riequilibrare la mente. Le pratiche
di samatha in particolare sono molto indicate per riacquistare
equilibrio e calma quando ci troviamo a reagire o a perderci
nell’energia della paura. Una pratica di samatha che abbiamo esplorato
in questo gruppo è stata la consapevolezza dei punti di contatto,
ossia del contatto del corpo con il cuscino, dei piedi o delle gambe
con il pavimento, delle mani che si toccano. Sia che si sperimenti la
paura sul cuscino (sotto forma di ansia, preoccupazione, paura) sia
che accada in altre attività quotidiane (per esempio incrociando di
notte un estraneo o affrontando un conflitto nei nostri rapporti),
ricordare i punti di contatto nel momento della paura può aiutare a
riportarci nel presente in modo più unitario. Portare l’attenzione su
uno soltanto o su tutti i punti di contatto può dare una stabilità di
cuore e di mente che controbilancia la reattività e la separazione
così spesso legate alla paura. Di frequente lasciamo indietro il corpo
quando ci confrontiamo con la paura. O almeno lo vorremmo, a causa
dell’avversione. La consapevolezza dei punti di contatto ci riporta
nel corpo. Ma, poiché queste sensazioni tendono a essere neutrali,
l’attenzione a esse può avere un effetto calmante, portandoci di più
nel momento presente. Il che è ben diverso dalla solita risposta di
fuga o di evitamento, che può portare un sollievo immediato, ma ha
l’effetto limitante di rafforzare la paura.

Il Buddha ha insegnato la pratica di metta (gentilezza amorevole) ai
monaci e alle monache come una risposta compassionevole alle loro
paure di praticare nella foresta. Coltivare pensieri di benevolenza
rafforza la capacità di affrontare la situazione con maggiore apertura
e meno avversione. La metta incoraggia anche una minore
identificazione con la paura perché dissolve il senso di separatezza e
alimenta la connessione. Usando la metta in relazione alla paura,
scegliete una frase o alcune frasi che entrino in risonanza con voi.
Io dico: “Possa io essere a mio agio” oppure: “Possa io essere in pace
con ciò che è”. Ogni volta che diventate consapevoli della paura,
ricordate la frase, pronunciandola dolcemente e in silenzio a voi
stessi. Ricordandoci di usare queste pratiche di samatha nel lavorare
con la paura, alimentiamo l’aspetto di serenità della pratica e
cominciamo a rispondere in modo molto diverso.

Possiamo scoprire un rifugio interiore che non ha nulla a che fare con
l’evitare o il rifuggire dalla spiacevolezza della paura, ma che ci
permette invece trovare un rifugio che riposa sulla nostra capacità di
stare nel momento presente con equilibrio e spaziosità. Senza un certo
grado di calma e stabilità, l’investigazione della paura può condurre
a un ‘girare in tondo’ e al proliferare di pensieri che deriva
dall’avversione. Quando la mente diventa un po’ più serena di fronte
alla paura, possiamo guardare la paura stessa più direttamente e con
meno reattività. Possiamo cominciare a investigare la paura con
l’intenzione di imparare piuttosto che liberarcene. Tanto del nostro
pensare riguardo la paura – l’analizzare, l’immaginare, il desiderare
di essere senza paura – deriva dalla reattività e dall’avversione.
Ricordo con chiarezza che una delle mie principali motivazioni nel
cominciare a praticare era proprio quella di poter superare la paura.

Coltivare la saggezza nel lavorare con la paura richiede una gentile
perseveranza nell’essere consapevoli di ciò che essa è. Cosa del tutto
diversa dal cercare di conquistare la paura. La pratica di vipassana
rivela direttamente il sorgere e svanire di tutte le esperienze,
compresa la paura. Attraverso questa pratica dell’attenzione momento
per momento iniziamo a capire la paura a livelli più profondi di
quello personale. Un utile strumento investigativo è ‘l’annotazione
mentale’. Fare una leggera nota mentale quando si sperimenta la paura
può aumentare la nostra abilità a riconoscere l’esperienza della
paura. Si tratta di un grosso passo investigativo da intraprendere
perché tanta parte della nostra esperienza di paura non viene
riconosciuta. La paura opera sotto il livello della coscienza, eppure
ci colpisce in modi profondi.

L’ansia e la preoccupazione sono forme comuni di paura che spesso non
sono riconosciute, ma pure condizionano tanto del nostro approccio
alla vita. La semplice nota mentale che io uso spesso è ‘paura,
paura’. L’annotazione mentale non serve a creare distanza
dall’esperienza della paura, piuttosto a portarci più nel presente,
mentre ci aiuta a riconoscere la paura come un processo condizionato
che non è me o mio. Vedere in modo molto diretto l’impermanenza della
paura, come essa sorge e svanisce, ci libera gradualmente
dall’opprimente morsa dell’identificazione con essa.

L’anno scorso ho passato un mese nel monastero della foresta di Maha
Boowa. Era una splendida opportunità di entrare in contatto con uno
degli ultimi grandi maestri di meditazione della tradizione della
foresta. A causa della sua età, Maha Boowa non insegna quasi più; ma
ho lavorato con il suo monaco anziano, Tan Panna, il quale aveva
praticato con Maha Boowa per qualcosa come quarant’anni. Sebbene non
dovessi affrontare la paura delle tigri (sono sparite da tempo),
c’erano molte opportunità di investigare la paura mentre praticavo di
notte, nella foresta, nella mia kuti (capanna di meditazione). Tan
Panna era incalzante nelle sue istruzioni sul lavorare con la paura.
Mi incoraggiava a portare un’attenzione continua alle miriadi di
sensazioni fisiche spiacevoli che sorgono a causa della paura, mentre
frenava il mio impulso di pensare alla paura. Mi ci è voluta tutta la
mia perseveranza per riuscire restare attento anziché andarmene via.

La meditazione formale è assai utile per portare equilibrio nella
mente quando nasce la paura. Ma è essenziale fare attenzione quando la
paura nasce durante tutte le nostre attività, e usare gli strumenti
che abbiamo appreso e rafforzato con la meditazione formale. È
importante ricordare che, in meditazione, abbiamo coltivato la
capacità di amare il difficile. Il tempo per usare questa capacità è
sempre ‘adesso’.

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