L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 4

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L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 4

secondo S.N.Goenka) – di William Hart (parte quarta)

L’ARTE DI VIVERE

“La tecnica di meditazione Vipassana secondo S. N. Goenka”

traduzione di

MARIA ANGELA PALA e PIERLUIGI GONFALONIERI

– Definizione della sofferenza –

II Buddha si rese conto chiaramente che la sofferenza esiste. È un fatto incontrovertibile, per
quanto spiacevole possa essere. La sofferenza inizia con l’inizio della vita. Non abbiamo alcun
ricordo conscio dell’esistenza intrauterina, ma l’esperienza comune è che veniamo alla luce piangendo. La nascita è un grande trauma.

Iniziata la vita, siamo tutti costretti ad affrontare la sofferenza delle malattie e della
vecchiaia. Per quanto malati possiamo essere, per quanto vecchi e decrepiti, nessuno di noi vuole morire, perché la morte è una grande infelicità.
Ogni creatura vivente deve far fronte a tutte queste sofferenze. E mentre la nostra vita scorre,
siamo costretti ad affrontare altre sofferenze, una varietà di dolori sia fisici che mentali. Siamo immersi nell’infelicità e la felicità ci sfugge.

Non riusciamo ad avere ciò che vogliamo e, al contrario, otteniamo ciò che non vogliamo. Sono tutti
casi di sofferenza evidenti per chiunque si fermi a riflettere. Ma il futuro Buddha non era
soddisfatto delle limitate spiegazioni dell’intelletto. Continuò ad esplorare dentro di sé per
sperimentare la vera natura della sofferenza e scoprì che « l’attaccamento ai cinque aggregati
costituisce la sofferenza».2 A livello più profondo, la sofferenza è l’attaccamento eccessivo che
ognuno di noi ha sviluppato per il proprio corpo e per la propria mente, con le sue cognizioni,
percezioni, sensazioni e reazioni. La gente si attacca con forza alla propria identità al proprio
essere fisico e mentale quando in realtà ci sono solo processi in evoluzione, Questo attaccamento
a un’idea irreale di sé, a qualcosa che di fatto è in costante mutamento, è sofferenza.

– Lattaccamento –

Ci sono diversi tipi di attaccamento. Per prima cosa c’è l’attaccamento all’abitudine di cercare la gratificazione dei sensi.

Un tossicomane si droga perché desidera sperimentare la sensazione piacevole che la droga gli
procura, anche se sa che drogandosi aumenta la sua dipendenza. Analoga è la nostra dipendenza da
desideri sempre nuovi: non appena un desiderio è soddisfatto, ne creiamo un altro. L’oggetto è
secondario; in realtà noi facciamo in modo di prolungare all’infinito lo stato di desiderio, in
quanto esso fa sorgere in noi una sensazione piacevole che vogliamo continuare a provare.

Il desiderare diventa un’abitudine che non possiamo abbandonare, una dipendenza. E proprio come un
drogato gradualmente sviluppa assuefazione nei confronti della sostanza che assume abitualmente e
quindi ha bisogno di dosi sempre maggiori, così più cerchiamo di soddisfare i nostri desideri, più
essi diventano forti, si trasformano in bramosia. È una via senza uscita, perché finché desidereremo ardentemente qualcosa, non potremo mai essere felici.
Un altro grande attaccamento si ha verso l’Io, l’ego, l’immagine che abbiamo di noi stessi. Per
ciascuno di noi, l’Io è la persona più importante del mondo. Ci comportiamo,come calamite che
accentrano automaticamente sopra se stesse la limatura di ferro. Se riflettiamo un attimo, tutti noi
istintivamente cerchiamo di sistemare il mondo a nostro piacimento, cercando di attrarre ciò che è
piacevole e di respingere ciò che è spiacevole. Ma nessuno di noi è solo al mondo; ciascun Io è
costretto a entrare in conflitto con un altro. Il modello che ognuno cerca di creare è disturbato
dai campi magnetici degli altri e noi stessi siamo soggetti a repulsioni e ad attrazioni. Il risultato non può essere altro che infelicità e sofferenza.

Né limitiamo l’attaccamento all’Io, ma lo estendiamo al «mio», a tutto ciò che ci appartiene.
Sviluppiamo un grande attaccamento a ciò che possediamo, perché è collegato a noi e sostiene
l’immagine dell’Io. Questo attaccamento non causerebbe problemi se quello che chiamiamo « mio »
fosse eterno e l’Io ne potesse godere eternamente. Ma, nella realtà, prima o poi l’Io viene separato
dal «mio». Il tempo della separazione deve necessariamente venire, e in quel momento la sofferenza sarà tanto più intensa quanto più grande è l’attaccamento al « mio ».

Ma l’attaccamento va anche oltre: si estende alle nostre opinioni e alle nostre convinzioni. Quale
che sia il loro contenuto, siano esse giuste o sbagliate, se siamo attaccati ad esse certamente ci
renderanno infelici. Siamo tutti convinti che le nostre opinioni e tradizioni siano le migliori e
ogni volta che le sentiamo criticare ne restiamo colpiti. Se cerchiamo di spiegare le nostre
opinioni e gli altri non le accettano, anche in questo caso ci turbiamo. Non siamo capaci di
riconoscere che ognuno ha le proprie convinzioni. Invece di perdersi in futili discussioni sulla
validità o meno delle varie opinioni, sarebbe più proficuo lasciare da parte le nozioni preconcette
e cercare di vedere la realtà. Ma il nostro attaccamento alle opinioni ci impedisce di far questo e così restiamo infelici.

Infine, c’è l’attaccamento alla religione e alle relative cerimonie. Tendiamo ad attribuire più
importanza alle manifestazioni esteriori della religione piuttosto che al loro significato
intrinseco e pensiamo che chi non compie tali cerimonie non può essere una persona veramente
religiosa. Dimentichiamo che senza la sua essenza, l’aspetto formale della religione è un guscio vuoto.

Recitare devotamente le preghiere o partecipare assiduamente alle funzioni non ha valore se la mente
rimane colma di ira, risentimento e malevolenza. Per essere veramente religiosi dobbiamo sviluppare
un’attitudine religiosa: purezza di cuore, amore e compassione per tutti. Tuttavia l’attaccamento
alle forme esteriori della religione ci induce a dare maggiore importanza alla lettera piuttosto che allo spirito. Perdiamo l’essenza della religione e quindi rimaniamo infelici.

Tutte le nostre sofferenze, di qualunque genere possano essere, sono collegate all’uno o all’altro di questi attaccamenti. Attaccamento e sofferenza vanno sempre di pari passo.

I! Sorgere Condizionato: la catena di causa ed effetto da cui trae origine la sofferenza.

Che cosa provoca l’attaccamento? Come sorge? Analizzando la sua propria natura, il futuro Buddha
scoprì che esso si sviluppa a causa di reazioni mentali momentanee di piacere e dispiacere. Le
reazioni brevi e inconsce della mente si ripetono e si intensificano momento per momento, fino a
trasformarsi in potenti attrazioni e repulsioni e in tutte le nostre forme di attaccamento.
L’attaccamento non è altro che la forma sviluppata di una reazione transitoria. È questa la causa immediata della sofferenza.

Che cosa provoca le reazioni di piacere e dispiacere? Andando ancora più a fondo, il Buddha osservò
che esse sono causate da una sensazione: proviamo una sensazione piacevole e iniziamo ad amarla; ne proviamo una spiacevole e iniziamo a rifiutarla, a respingerla.

Ora, perché queste sensazioni? Che cosa le provoca? Analizzandosi ancor più profondamente, egli vide
che sorgono a causa di un contatto: contatto dell’occhio con una cosa visibile, contatto
dell’orecchio con un suono, contatto del naso con un odore, contatto della lingua con un sapore,
contatto del corpo con un oggetto tangibile, contatto della mente con un pensiero, un’emozione,
un’idea, una fantasia o un ricordo. È con i cinque sensi fisici e con la mente che noi sperimentiamo
il mondo. Ogni volta che un oggetto o un fenomeno entra in contatto con una di queste sei basi dell’esperienza, si produce una sensazione, piacevole o spiacevole.

E perché questo contatto è il primo a prodursi? Il futuro Buddha vide che il contatto avviene
proprio in quanto esistono le sei basi sensoriali, ovvero i cinque sensi fisici più la mente. Il
mondo è pieno di innumerevoli fenomeni: visioni, suoni, odori, sapori, oggetti, pensieri ed
emozioni. Per tutto il tempo in cui i nostri recettori sono in funzione, il contatto è inevitabile.

E perché esistono le sei basi sensoriali? Perché sono gli aspetti essenziali del fluire della mente e della materia.

Perché allora questo flusso di mente e materia? Che cosa lo provoca? Il futuro Buddha comprese che
il processo sorge a causa della coscienza, l’atto cognitivo che separa il mondo in conoscente e conosciuto, soggetto e oggetto, l’Io e gli « altri ».

Da questa separazione deriva l’identità, la « nascita ». Ad ogni istante la coscienza sorge e assume
una specifica forma mentale e fisica. Nell’istante successivo, di nuovo, la coscienza prende una forma leggermente diversa.
La coscienza fluisce e muta attraverso tutta l’esistenza. Alla fine arriva la morte, ma la coscienza
non si ferma: senza alcun intervallo, nell’istante successivo, assume una forma nuova. Da un’esistenza a un’altra, vita dopo vita, il fluire della coscienza continua.

Qual è dunque la causa di questo fluire della coscienza? Egli ne vide il sorgere da una reazione. La
mente è costantemente reattiva e ogni reazione da forza al fluire della coscienza, così da
perpetuarsi nell’istante successivo. Più una reazione è forte, più grande è l’impulso che suscita.
La reazione leggera dì un istante sostiene il fluire della coscienza solo per un istante.
Ma se quella reazione momentanea di piacere o dispiacere si intensifica in bramosia o avversione,
guadagna forza e sostiene il fluire della coscienza per molti istanti, per minuti, per ore. E se la
reazione di bramosia o avversione si intensifica ancora, sostiene il flusso per giorni, mesi, anni.
E se durante la sua vita una persona tende a ripetere e a intensificare certe reazioni, esse
sviluppano una forza sufficiente a sostenere il fluire della coscienza non solo da un istante
all’altro, da un giorno all’altro, da un anno all’altro, ma da una vita allaltra.

E che cosa provoca queste reazioni? Osservando la realtà a un livello più profondo, egli comprese
che le reazioni avvengono a causa dell’ignoranza. Siamo inconsapevoli del fatto che reagiamo, e
altrettanto inconsapevoli della vera natura di ciò a cui reagiamo. Siamo all’oscuro della natura
impermanente e impersonale della nostra esistenza e ignoriamo che l’attaccamento a essa ci procura
soltanto sofferenza. Non conoscendo la nostra vera natura, reagiamo alla cieca. Non sapendo neppure
di aver reagito, persistiamo nelle nostre reazioni cieche e permettiamo loro di intensificarsi. Così, a causa dell’ignoranza, diventiamo prigionieri dell’abitudine a reagire. Ecco come la ruota della sofferenza inizia a girare:

Se sorge l’ignoranza, c’è la reazione;
se sorge la reazione, c’è la coscienza;
se sorge la coscienza, ci sono la mente e la materia;
se sorgono la mente e la materia, ci sono i sei sensi;
se sorgono i sei sensi, c’è il contatto;
se sorge il contatto, c’è la sensazione;
se sorge la sensazione, ci sono il desiderio e l’avversione; se sorgono il desiderio e l’avversione, c’è l’attaccamento;
se sorge l’attaccamento, c’è i! processo del divenire;
se sorge il processo del divenire, c’è la nascita;
se c’è la nascita, ci sono l’invecchiamento e la morte, insieme a dolore, lamenti, sofferenze fisiche e mentali, tribolazioni.
In questo modo sorge l’intera massa della sofferenza.

Da questa catena di causa ed effetto il sorgere condizionato siamo stati condotti nel nostro presente stato di esistenza, ad affrontare un futuro di sofferenza.
Alla fine la verità gli fu chiara : la sofferenza inizia con l’ignoranza della realtà della nostra
vera natura, del fenomeno etichettato come Io. E la causa successiva di sofferenza è il sankhàra,
l’abitudine mentale alla reazione. Accecati dall’ignoranza, generiamo reazioni di bramosia e di
avversione che si sviluppano in attaccamento, il quale conduce a tutti i generi di infelicità.
L’abitudine a reagire è il kamma, il modellatore del nostro futuro. Dunque la reazione sorge solo a
causa dell’ignoranza circa la nostra vera natura. Ignoranza, bramosia e avversione sono le tre radici da cui nascono tutte le sofferenze della nostra vita. La via duscita della sofferenza

Avendo compreso cosa sia la sofferenza e quale ne sia l’origine, il futuro Buddha affrontò il
problema successivo: come si può far cessare la sofferenza? Ricordando la legge del kamma, la legge
di causa ed effetto: «Se questo esiste, quello avviene; quello sorge dal sorgere di questo. Se
questo non esiste, quello non avviene; quello cessa dal cessare di questo».4 Nulla accade senza una
causa. Se la causa viene sradicata, allora non ci saranno effetti. In tal modo, il processo del sorgere della sofferenza può essere invertito:
Se l’ignoranza è sradicata e finisce del tutto, la reazione finisce;

se la reazione finisce, la coscienza finisce;
se la coscienza finisce, la mente e la materia finiscono;
se la mente e la materia finiscono, i sei sensi finiscono;
se i sei sensi finiscono, il contatto finisce;
se il contatto finisce, la sensazione finisce;
se la sensazione finisce, il desiderio e l’avversione finiscono; se il desiderio e l’avversione finiscono, l’attaccamento finisce; se l’attaccamento finisce, finisce il processo del divenire; se il processo del divenire finisce, la nascita finisce;
se la nascita finisce, l’invecchiamento e la morte finiscono, insieme a dolore, lamenti, sofferenze mentali e fisiche e tribolazioni. Così finisce l’intera massa della sofferenza.

Se mettiamo fine all’ignoranza, allora non ci saranno reazioni cieche con il loro seguito di
sofferenze di vario genere. E se non vi sarà più sofferenza, allora sperimenteremo la vera pace, la
vera felicità. La ruota della sofferenza può trasformarsi nella ruota della liberazione.

Questo è ciò che Siddhattha Gotama ha fatto per conseguire l’illuminazione. Questo è ciò che ha insegnato a fare agli altri. Egli ha detto:

Compiendo delle azioni negative
vi contaminate.
Non compiendo azioni negative
vi purificate.
Ognuno di noi è responsabile delle reazioni che causano la nostra sofferenza. Accettando questa responsabilità, possiamo imparare ad eliminare la sofferenza.

-II flusso delle esistenze successive

Con la Ruota del Sorgere Condizionato il Buddha ha spiegato il processo di rinascita o samsàra.
Nell’India dei suoi tempi questo concetto era comunemente accettato come un dato di fatto, mentre
oggi, per molti, può sembrare una dottrina estranea, forse insostenibile. Prima di accettarla o
rifiutarla, dovremmo tuttavia comprendere di che cosa si tratta e di che cosa non si tratta. Samsàra
è il ciclo delle esistenze ripetute, la successione delle vite passate e future. Le nostre azioni
sono le forze che ci spingono di vita in vita. Ogni vita, di basso o alto grado, sarà come sono
state le nostre azioni, vili o nobili. Sotto questo aspetto il concetto non differisce in sostanza
da quello di molte religioni che predicano un’esistenza futura in cui riceveremo la ricompensa o il
premio per le nostre azioni in questa vita. Il Buddha ha però compreso che anche nell’esistenza più
esaltante può esservi sofferenza. Quindi non dobbiamo lottare per avere una rinascita fortunata, dal
momento che nessuna rinascita è completamente fortunata. Il nostro scopo, piuttosto, dovrebbe essere la liberazione da tutte le sofferenze.

Quando ci liberiamo dal ciclo delle sofferenze, sperimentiamo una felicità pura più grande di qualsiasi piacere del mondo.

Il Buddha ha insegnato una via per sperimentare tale felicità proprio in questa vita.

Samsàra non è l’idea popolare della trasmigrazione di un’anima o di un sé che mantiene un’identità
fissa attraverso ripetute reincarnazioni. Questo, ha detto il Buddtia, è proprio ciò che non accade,
e ha ripetutamente affermato che non esiste un’identità immutabile che passa da una vita all’altra:
« Proprio come da una mucca proviene il latte, dal latte la cagliata, dalla cagliata il burro, dal
burro fresco il burro chiarificato, dal burro chiarificato la scrematura grassa. Quando c’è il
latte, non si pensa che sia cagliata o burro fresco o burro chiarificato o scrematura. Analogamente,
ogni volta va considerato reale solo lo stato di esistenza presente e non il passato né il futuro
».7 Il Buddha non riteneva che un ego fisso si reincarnasse in esistenze successive e neppure che
non ci fossero esistenze passate o future. Al contrario, egli ha compreso e insegnato che il
processo del divenire continua da un’esistenza all’altra, per tutto il tempo in cui le nostre azioni
gli danno impulso. Anche se non si crede che ci sia un’altra esistenza oltre la presente, la Ruota del Sorgere Condizionato ha ancora la sua importanza.

Ogni momento in cui ignoriamo che le nostre reazioni sono cieche, creiamo della sofferenza che sperimentiamo qui-e-ora.

Se eliminiamo l’ignoranza e smettiamo di reagire ciecamente, faremo esperienza della pace che ne deriva, qui-e-ora.

Il paradiso e l’inferno esistono qui-e-ora, possono essere sperimentati in questa vita, in questo
corpo. Il Buddha ha affermato: « Anche se [qualcuno crede] che non ci sia un altro mondo, né una
ricompensa futura per le buone azioni né una punizione per le cattive, già in questa stessa vita può
vivere felicemente, mantenendosi libero dall’odio, dalla malevolenza e dallansia ».

Sia che crediamo o non crediamo in esistenze passate o future, dobbiamo tuttavia affrontare i
problemi della vita presente, problemi causati proprio dalle nostre reazioni cieche. La cosa più
importante per noi è di risolvere questi problemi ora, fare dei passi avanti per porre fine alla
nostra sofferenza ponendo fine all’abitudine a reagire, e in tal modo sperimentare ora la felicità della liberazione.

– Domande e risposte –

DOMANDA: Ci possono essere bramosie e avversioni benefiche: per esempio combattere contro lingiustizia, bramare la libertà, temere i malanni fisici?

SATYA NARAYAN GOENKA: Avversione e bramosia non possono mai essere benefiche. Vi renderanno sempre
tesi e infelici. Se agite avendo nella mente bramosia e avversione, sia pure spinti da uno scopo
encomiabile, il mezzo usato per raggiungerlo non è sano. Certo dovete agire per proteggervi dai
pericoli. Potete farlo sopraffatti dalla paura, ma in questo modo sviluppate un complesso di paure
che alla lunga saranno dannose. Oppure, avendo odio nella mente, potete avere successo combattendo
contro l’ingiustizia, ma quell’odio diverrà un complesso mentale dannoso. Dovete combattere contro
l’ingiustizia, dovete proteggervi dai pericoli, ma potete farlo con una mente equilibrata, senza
tensioni. E potete lavorare in modo equilibrato per raggiungere qualcosa di buono, per amore degli altri. Una mente equilibrata è sempre utile e darà i risultati migliori.

Cosa c’è dì sbagliato nel desiderare cose materiali per assicurarsi una vita più confortevole?

Se è un’esigenza reale, non c’è nulla di sbagliato purché lo facciate con il dovuto distacco. Per
esempio, se avete sete e desiderate dell’acqua, non c’è nulla di dannoso in questo. Avete bisogno di
acqua e quindi fate in modo di ottenerla e placare la vostra sete. Ma se questo diventa
un’ossessione, non potrà aiutarvi: anzi, vi fa del male. Dovete lavorare per ottenere ciò di cui
avete necessità. Se non riuscite a ottenere qualcosa, ebbene dovete sorridere e tentare ancora, in
un modo diverso. Se ci riuscite, rallegratevi di ciò che avete ottenuto, ma senza attaccamento.

Che cosa potete dire circa la pianificazione del futuro? Si potrebbe chiamare attaccamento?

Ancora una volta, dipende da quanto siete attaccati ai vostri piani. Ognuno deve provvedere al suo
futuro. Se i vostri progetti non hanno successo e iniziate a lamentarvi: questa è la prova del fatto
che contavate troppo su di essi. Ma se non avete successo e riuscite ugualmente a sorridere
pensando: “Ho fatto del mio meglio. In che cosa ho fallito? Proverò ancora!”, allora state lavorando in modo distaccato e restate felici
.
Fermare la Ruota del Sorgere Condizionato sembra una specie di suicidio, di auto-annullamento. Perché dovremmo volerlo?

Cercare l’annientamento della vita è certamente dannoso, così come attaccarsi alla vita. Ma, al
contrario, si impara a permettere alla natura di fare il suo lavoro, senza desiderare ardentemente nulla, neanche la liberazione.
Ma avete detto che non appena la catena dei sankhàra ha termine, allora anche la rinascita si ferma.

Sì, ma questa è una cosa ben lontana. Interessatevi ora della vita presente! Non preoccupatevi per
il futuro. Rendete buono il presente, il futuro sarà automaticamente buono. Certamente, allorché
vengono eliminati tutti i sankhàra che sono responsabili di una nuova nascita, il processo di vita e morte si ferma.

Non è forse questo un annullamento, un’estinzione?

L’annullamento dell’illusione dell’Io, l’estinzione della sofferenza. Questo è il significato della
parola nibbàna: l’estinzione del bruciare. Bruciamo costantemente nella bramosia, nell’avversione,
nell’ignoranza. Quando il bruciare si ferma, l’infelicità si ferma, e ciò che rimane è solo
positivo. Ma descriverlo in parole non è possibile, perché è qualcosa che va al di là del campo
sensoriale. Dovete sperimentarlo in questa vita, solo così saprete di che cosa si tratta. Allora la paura dell’annullamento scomparirà.

Cosa accade poi alla coscienza?

Perché preoccuparsene? Non aiuta nessuno speculare su qualcosa che può solo essere sperimentato, non descritto.

Questo non fa che distrarre dallo scopo reale, che è lavorare per arrivarci. Quando raggiungerete
quel livello, ne gioirete e tutte le domande spariranno. Non avrete altre domande! Lavorate per raggiungere quello stadio.
Come può funzionare il mondo senza attaccamento? Se i genitori sono distaccati, allora non si
prenderanno certamente cura dei figli. Come è possibile amare ed essere coinvolti nella vita senza attaccamento?
Distacco non significa indifferenza; è corretto chiamarlo «santa indifferenza». Come genitori,
dovete assumere la responsabilità di prendervi cura dei vostri figli con tutto l’amore possibile, ma
senza attaccamento. Dovete fare il vostro dovere per amore. Supponete di aver cura di un malato e che, nonostante le vostre attenzioni, questi non si ristabilisca.

Non iniziate a lamentarvi, sarebbe inutile. Con mente equilibrata, cercate di trovare un altro modo di aiutarlo.

Questa è la santa indifferenza: né inazione né reazione, ma un’azione concreta e positiva con una mente equilibrata.

Molto difficile.

Sì, ma è ciò che bisogna imparare.

CAPITOLO QUINTO

LA PRATICA DELLA CONDOTTA MORALE

II nostro compito è di eliminare la sofferenza sradicandone le cause: ignoranza, bramosia e
avversione. Per conseguire questo scopo, il Buddha ha scoperto, seguito e insegnato una via pratica. Ha chiamato questa via il Nobile Ottuplice Sentiero…

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