La storia della matematica: le origini della scienza dei numeri

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La storia della matematica: le origini della scienza dei numeri

Quando è nato il linguaggio della matematica? Già intorno al 300 a.C. la matematica era la cosa più
vicina alla scienza che il mondo avesse mai visto.

9 ottobre 2023 – Aldo Carioli

Si chiama Plimpton 322 ed è una tavoletta d’argilla scoperta dagli archeologi oltre un secolo fa nel
deserto dell’Iraq. È incisa con caratteri cuneiformi, è antica di almeno 3.600 anni e dimostra che
gli scribi delle prime civiltà mesopotamiche applicavano il teorema di Pitagora oltre un millennio
prima che Pitagora venisse al mondo. Tuttavia, quella che può sembrare una “prima pietra” della
matematica è in realtà solo la tappa di un lungo viaggio. Le origini della scienza dei numeri sono
infatti molto più remote.

DALLA NATURA AL NUMERO. La capacità di cogliere quella che i neuroscienziati chiamano “numerosità”,
ossia una quantità approssimativa più o meno precisa, è innata ed è una facoltà che abbiamo in
comune con scimmie, ratti, uccelli e perfino api. Fin qui la natura. Ma quando e come è avvenuto il
passaggio ai numeri veri, ai calcoli e al linguaggio della matematica?

«Esistono società umane nelle cui lingue sono presenti solo i concetti di “uno”, “due” e “molti””,
spiegava l’astronomo e divulgatore John Barrow nel suo libro Perché il mondo è matematico?
(Laterza). “E in molte lingue europee gli aggettivi per indicare “primo” e “secondo” non derivano
dalle parole “uno” e “due”, mentre “terzo”, “quarto”, e così via, sono chiaramente legati a “tre”,
“quattro” e agli altri numeri». Furono dunque questi concetti astratti (uno, due, molti, pochi) i
primi a svilupparsi, sotto la spinta di necessità pratiche. Quali fossero queste necessità e come
contassero i nostri antenati lo svelano reperti archeologici precedenti perfino alle tavolette
cuneiformi. «Il metodo di conteggio basato sugli intagli è sicuramente uno dei più antichi»,
racconta il matematico Bruno D’Amore nel saggio La matematica e la sua storia (Dedalo), scritto con
Silvia Sbaraglia. Il più antico esempio noto si trova su un osso di babbuino rinvenuto nello
Swaziland, in Africa: ha 37 mila anni e qualcuno vi ha inciso 29 tacche. Secondo Barrow si tratta di
un’arma sulla quale il cacciatore teneva il conto degli animali uccisi; per altri era un oggetto
legato al ciclo lunare, che è appunto di 29 giorni.

Un manico d’osso inciso e con una punta di quarzo, trovato a Ishango presso il Lago Edoardo, sempre
in Africa, è anche più sorprendente: le sue tacche sono raggruppate in modo da formare una sequenza
di numeri primi. Ma non sappiamo a che cosa servisse, né se gli uomini che lo incisero, a cavallo
tra Paleolitico e Neolitico, conoscessero davvero i numeri primi.

Accanto alla numerazione per intaglio, c’era quella “di Pollicino”, affidata a sassolini o oggetti
analoghi. Tra le rovine dell’antica città di Nuzi (Iraq) è stato trovato un contenitore di argilla
sul quale è inciso un elenco di 48 capi di bestiame: 21 pecore, 6 agnelli femmina, 8 montoni, 6
capre e così via. Dentro c’erano altrettante palline d’argilla. Semplice il principio, praticato
ancora oggi in alcune società tradizionali: il pastore che lo ha usato 3 mila anni fa aggiungeva una
pallina per ogni animale, tenendo così il conto delle sue bestie.

DI CHE BASE SEI? I sistemi di calcolo dei nostri antenati all’inizio furono probabilmente “a base 2”
(come quelli usati ancora oggi dagli aborigeni australiani, che possiedono solo le parole “uno” e
“due” per i numeri) oppure a base 5. Le 55 tacche incise oltre 30 mila anni fa su un osso di lupo
ritrovato in Moravia (Repubblica Ceca) sono, spiega D’Amore, «uno dei più antichi documenti
aritmetici in cui è presente il principio della base di calcolo, dato che le tacche sono raggruppate
in gruppi di cinque, come le dita di una mano».

L’uso delle mani (ma anche di falangi, spalle, testa, piedi e così via) come calcolatrici era comune
in Mesopotamia, in India, in Cina, tra gli Egizi, i Greci e i Romani. E questa tecnica ha continuato
a tenere banco per tutto il Medioevo, nonostante la diffusione dell’abaco e il successo del Liber
abaci (“Il libro del calcolo”) con il quale il matematico e mercante pisano Leonardo Fibonacci nel
Duecento diffuse in Europa i numeri arabi. Dall’altra parte dell’oceano Atlantico, intanto, Maya e
Aztechi sviluppavano un sistema a base 20, grazie al quale misero a punto calendari precisi e
sofisticati sistemi di misurazione del tempo.

NUMERI ARABI. Sumeri e Babilonesi usavano invece una numerazione a base 60 (sessagesimale). Forse
derivava da un sistema di pesi e misure comune nell’area, di certo fu favorita da una svolta
culturale: la nascita della civiltà urbana in Mesopotamia (ma anche, negli stessi secoli, in Cina e
nella Valle dell’Indo), l’accumulo di cereali nei magazzini e una rete dei commerci sempre più
estesa richiedevano maggiori capacità di calcolo. Fu per questo che i Sumeri inventarono appunto
l’abaco (noto anche in Estremo Oriente) e, tra 5.300 e 4.500 anni fa, i simboli dei numeri, usati
per compilare elenchi di merci, liste di rifornimenti per gli eserciti, contratti di compravendita.
«Risale ai Sumeri anche il primo sistema posizionale, perfezionato in seguito dagli Indiani», spiega
D’Amore.

«Al valore di ogni simbolo andava aggiunto quello del simbolo immediatamente successivo,
addizionandoli». In pratica, lo stesso modo di formare i numeri che usiamo noi, che però lo abbiamo
adottato nel Medioevo dagli Arabi: una rivoluzione, perché permette di scrivere qualsiasi numero
usando pochi segni (nel nostro caso 10, compreso lo zero). Il sistema sessagesimale ci ha lasciato
due eredità importanti: il calcolo del tempo (un minuto di 60 secondi, un’ora di 60 minuti) e quello
delle coordinate per la navigazione (ogni grado d’arco si divide in 60 minuti e 60 secondi).

L’altra “casa dei numeri” del Vicino Oriente era l’Egitto dei faraoni. Gran parte di quello che
sappiamo della matematica egizia viene dai poco più di due metri di lunghezza del Papiro Rhind:
un’ottantina di problemi e varie tabelle di operazioni, con relative soluzioni, destinati a scribi o
sacerdoti di 4 mila anni fa. Gli Egizi usavano un sistema a base 10, ma non posizionale; non
conoscevano lo zero e facevano di conto per scopi astrologico-religiosi, per costruire templi e
tombe e per misurare terreni agricoli. Nemmeno loro svilupparono un sistema matematico che andasse
oltre le necessità pratiche. Per questo, ci volevano i filosofi greci.

E POI EUCLIDE… Se i Sumero-Babilonesi sapevano produrre terne pitagoriche, non vuol dire che
conoscessero il significato del teorema che quei numeri nascondevano. Furono i semileggendari
matematici greci Talete (VII-VI secolo a.C.) e Pitagora (VI-V secolo a.C.), riprendendo la
tradizione mesopotamica e quella egizia, a fornire i primi tasselli del pensiero matematico
astratto. E sarà poi Euclide (IV-III secolo a.C.) a mettere insieme il puzzle nei suoi Elementi, un
testo fondamentale per millenni, dove si trova anche la dimostrazione del teorema di Pitagora che
oggi si studia a scuola.

Geometria e aritmetica nacquero veramente soltanto allora. In un fazzoletto di terra e mare tra
l’Asia Minore (Turchia) e l’Attica, nel giro di tre secoli presero forma il pensiero deduttivo, gli
assiomi della geometria, il concetto di infinito, i numeri irrazionali e l’idea che tutto in natura
si può misurare. Verso il 300 a.C. la matematica era la cosa più vicina alla scienza che il mondo
avesse mai visto.

Il sapere greco fece da ponte tra gli antichi e i moderni. Passando però dall’India, grazie alle
conquiste di Alessandro Magno, che aveva spinto fin là la cultura ellenistica. «Un’efficace base di
calcolo, la notazione posizionale e l’uso dello zero garantiscono un sistema di numerazione di
successo», spiega Barrow.

«E nella storia antica, questi tre elementi si ritrovarono insieme solo in India». I sapienti hindu,
partendo dalle conoscenze ellenistiche, perfezionarono il sistema decimale posizionale, che giungerà
in Europa nel Duecento attraverso gli Arabi e grazie, ancora una volta, a Fibonacci. Ci fu qualche
resistenza: la Chiesa tentò inizialmente di vietare l’uso dei numeri “pagani” e del demoniaco zero.

NUOVI MONDI. Ma presto in Occidente si tornò a osservare il mondo con gli occhi della matematica,
come già avevano fatto Talete, Pitagora, Euclide e gli alessandrini. Le conseguenze furono epocali:
la teoria musicale scoprì i rapporti matematici tra i suoni, individuati già da Pitagora; l’economia
medievale svoltò grazie alle cifre arabe, che aprirono la strada alla partita doppia e alle banche;
la riscoperta degli antichi trattati ellenistici dal ‘400 portò i geografi a misurare il Pianeta, i
navigatori a raggiungere nuove terre, gli astronomi a comprendere i moti celesti. Finalmente, la
scienza riuscì a darsi un metodo con Galileo Galilei (1564-1642): un uomo per il quale il
“grandissimo libro” dell’universo e della natura è scritto “in lingua matematica”, cioè con i
numeri.

da focus.it

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