LA TEORIA MUSICALE DELLA CRITICA DEL GIUDIZIO 5

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LA TEORIA MUSICALE DELLA CRITICA DEL GIUDIZIO 5

Piero Giordanetti

Kant e la musica

11.3. Matematica e affetti

Qual è il rapporto fra questa concezione e l’idea che una composizione musicale esprime, e al
contempo suscita, affetti?

Parlare di formalismo kantiano e di un suo preteso contrasto con il contenuto non è a mio avviso
corretto: la forma non è infatti separata dal contenuto, ma assolve esclusivamente al compito di
esprimerlo; la teoria dell’arte di Kant si può comprendere solo quando si tenga presente
l’unitarietà di forma matematica e tema. Già nella Critica della ragion pura si incontra il concetto
del tema: in ogni conoscenza di un oggetto è richiesta l’unità del concetto, che si può chiamare
unità qualitativa, in quanto è solo l’unità dell’unificazione del molteplice della conoscenza, ed è
analoga all’unità del tema di una rappresentazione teatrale, di un discorso, di una favola (B 114);
il tema musicale è, dunque, un’unità qualitativa perché rende possibile l’unificazione del
molteplice a scopi conoscitivi.

Nella Critica del Giudizio, per la vera e propria musica senza tema, cioè per le improvvisazioni,
vale l’idea che esse possono sussistere senza affetto ed essere quindi additate a esempio di
bellezza libera, la quale non si limita alla natura ma si estende ad alcune specie di arte. Solo in
quanto Kant si riferisce alla musica senza tema, potremmo riconoscere nella sua posizione
l’espressione del formalismo. Se si prende in considerazione la musica che prevede la presenza di un
tema si può certo ancora parlare di formalismo, ma questa espressione deve essere ulteriormente
specificata: si tratta di un formalismo a priori che è espresso nella teoria dell’arte, ovvero della
fondazione del giudizio a priori sulla forma matematica. Ciò non significa che la forma matematica
sia sufficiente di per sé a costituire la musica, ma che il giudizio deve fondarsi sulla forma, se
vuole essere dotato di necessità. Esclusivamente la forma matematica dell’unificazione delle idee
estetiche come sensazioni rende possibile l’espressione delle idee estetiche: l’espressione
dell’affetto dominante in una composizione musicale si può quindi ottenere solo per mezzo della
matematica; la forma matematica non sussiste indipendentemente dal contenuto, ma lo esprime, dà
espressione all’affetto dominante nella composizione musicale, affetto che si identifica con l’idea
estetica del tema. Matematica e affetto, forma e contenuto non sono tenute separate l’una
dall’altro, ma costituiscono i due aspetti della composizione musicale: della musica strumentale con
un tema. Che la forma “sia separata in modo evidente dall”espressione’ della musica, dal suo
carattere come ‘linguaggio delle sensazioni’” è una determinazione che si può spiegare da un punto
di vista esclusivamente filosofico in quanto riguarda il nostro giudizio estetico e l’espressione di
idee estetiche per mezzo dell’arte; ma la musica senza testo è in sé un fenomeno unitario e
l’ascoltatore percepisce contemporaneamente forma e attrattiva, l’elemento matematico e l’affetto.
Kant intende cercare l’apriorità di questo fenomeno e la rinviene nella forma matematica grazie alla
quale è data espressione al tema e all’idea estetica, non negli affetti che essi presuppongono o
suscitano.

Le idee estetiche non sono né concetti né pensieri determinati, ma idee di una totalità coerente di
un’inesprimibile ricchezza di pensieri. Ciò non significa che il tema sia empirico, poiché il tema
non è identico agli affetti ma costituisce l’oggetto cui si riferiscono gli affetti; le idee
estetiche non possono essere empiriche, perché Kant le definisce rappresentazioni dell’immaginazione
alle quali nessun concetto può essere adeguato; il tema è, in quanto tono affettivo dominante della
composizione, l’oggetto di un piacere universale e necessario.

Si può avanzare l’ipotesi che anche le idee estetiche dominanti nella musica siano il prodotto del
genio; il paragrafo 51, che introduce il principio dell’espressione delle idee estetiche, analizza
solo l’aspetto del giudizio sull’opera d’arte musicale, non quello della sua produzione e il
paragrafo 53 non tratta, se non per qualche accenno, il processo della creazione, ma il rapporto fra
l’espressione delle idee estetiche e il piacere estetico [Wohlgefallen] oppure il piacere corporeo
[Vergnügen]. Ciononostante, non è ingiustificato supporre che l’espressione delle idee estetiche di
cui parla il paragrafo 53 e il concetto del tema siano prodotti del genio (sul concetto del tema e
dell’idea estetica si vedano le corrette osservazioni di Cohen, in Nachstheim 1997, pp. 191-192).

Annotazione

A Kant si dovrebbe rimproverare, pensa una nutrita schiera di interpreti, di aver teorizzato “la
rigorosa separazione fra la musica come esperienza vissuta della forma e la musica come esperienza
vissuta di un affetto”, “dalla quale deriva la separazione fra bellezza musicale ed espressione
musicale”. Marschner (in Nachtsheim 1997, p. 207) afferma: “Nella Critica del Giudizio di Kant sono
presenti in nuce i due orientamenti opposti dell’estetica musicale contemporanea: l’estetica formale
e l’estetica contenutistica ed essi si trovano l’uno accanto all’altro senza mediazione. Kant, che
non sembra aver avuto la conspavolezza della netta opposizione di quei due momenti, non ha né
tentato né realizzato il superamento di questa contraddizione”. Wieninger cita a conferma di questa
opinione un passo della Anthropologie-Brauer: “Un brano composto in osservanza di tutte le regole
della musica può essere bello e piacere, ma non avere alcuna attrattiva. Ci lascia indifferenti; noi
ci limitiamo ad approvare” (Wieninger 1929, p. 54). Hilbert scrive: “L’idea kantiana della musica ha
elementi formalistici ed elementi contenutistici; posizioni che, nel corso dello sviluppo storico,
saranno antitetiche e si escluderanno a vicenda sono qui strettamente connesse. Kant non prende una
decisione definitiva […]” (Hilbert 1911, p. 14). Secondo Schmidt 1990 (p. 23), nel paragrafo 53 il
concetto di forma è separato nettamente dal concetto di espressione e di linguaggio delle
sensazioni. La musica non può avere l’effetto particolare che è tipico del bello secondo la Critica
del Giudizio: l’unificazione soggettiva di validità universale delle facoltà conoscitive, l’unità di
sensibilità e intelletto come libero gioco.

Schering ritiene che Kant sia consapevole del fatto che “l’intrinseco valore di bellezza” della
musica non possa essere esaurito dalla considerazione della sua fondazione matematica. Il contenuto
della musica, la sua attrattiva, i movimenti dell’animo che essa suscita, la “unnenbare
Gedankenfülle” espressa nell’elaborazione di un tema ricco di affetti sono oggetto di studio
analogamente all’elemento matematico. Tutti questi temi, però, si baserebbero per Schering su
presupposti casuali e non interesserebbero veramente Kant, perché la loro analisi non “rientrava nei
compiti della sua ricerca” il cui scopo era la fondazione dei princìpi del giudizio di gusto puro,
non quella del giudizio di gusto applicato.

12. Musica e Vergnügen

Sono in particolare due le premesse che devono essere prese in considerazione quando ci si proponga
di esaminare la teoria kantiana dell’effetto suscitato dalla musica e soprattutto della sua
attrattiva. Anzitutto, l’antropologia empirica ci insegna che le nostre rappresentazioni, a
prescindere dalla loro origine e a prescindere dal fatto che esse siano meramente sensibili o
meramente intellettuali, non possono essere indifferenti; ciò è valido però solo a condizione che
colpiscano il nostro sentimento vitale. In questo caso esse sono necessariamente connesse o con il
sentimento del piacere [Vergnügen] o con il sentimento del dolore [Schmerz], come già avevano
insegnato Burke e Verri. Passiamo ora alla seconda premessa: Vergnügen e Schmerz sono in ultima
analisi sempre di natura corporea, a prescindere dal fatto che derivino dall’immaginazione o da
rappresentazioni dell’intelletto. La motivazione di questa seconda tesi si può ritrovare nella
decisa differenziazione fra vita come “coscienza della propria esistenza” e vita come “sentimento di
benessere o malessere”. Questa separazione è strettamente legata alla concezione del sentimento
vitale, il quale, nel caso in cui sia sentimento vitale corporeo, esige che la coscienza della
propria esistenza sia al tempo stesso sentimento dell’organo corporeo; esclusivamente in questo modo
risulta pensabile il sentimento del benessere. Wieninger scrive che la teoria della sensazione
vitale come effetto della musica si fonda su ben determinate premesse della psicologia empirica di
Kant, la cui esposizione sarebbe assente nella Critica del Giudizio, ma non può essere omessa
(Wieninger 1929, p. 56). Paul Menzer crede che il sentimento vitale sia un tema irrilevante sul
quale Kant avrebbe scritto osservazioni altrettanto insignificanti (Menzer 1952). Il sentimento
vitale è spesso interpretato come la coscienza della nostra libertà empirica. “La vita, per Kant, è
la proprietà di una volontà intelligente, la capacità di scegliere, di agire. È libertà della
volontà nella sua effettività: Willkühr secondo la precisa terminologia kantiana”. Zammito
sottolinea anche che il sentimento vitale ha in Kant un significato fisiologico quando è stadiato
nella psicologia empirica (Zammito 1992, p. 295).

Questa non è però l’unica connotazione assunta dal sentimento vitale nella terza Critica: oltre alla
vita del piacere e del dolore corporei, vi compaiono sia il sentimento vitale legato al gusto, sia
il sentimento spirituale del rispetto che porta al sublime. Quando si afferma che il giudizio di
gusto si riferisce al sentimento vitale ciò non significa che il gioco delle facoltà conoscitive,
che si identifica nel giudizio di gusto con il piacere [Wohlgefallen] per l’oggetto e riguarda il
livello trascendentale dell’armonia delle facoltà conoscitive, sia un sentimento di benessere
corporeo. Le rappresentazioni producono Vergnügen o Schmerz solo a condizione che colpiscano il
soggetto; se però le rappresentazioni non sono modificazioni del soggetto, non le si potrà
interpretare in senso corporeo. Il gusto e il sentimento del rispetto non sono modificazioni del
soggetto: sono anzi gli unici sentimenti che possano essere a priori senza avere derivazione
empirica; di conseguenza non hanno a che vedere con benessere e malessere. Il concetto di vita e
quello di corpo non sono quindi identici, poiché si dà anche un sentimento vitale indipendente dal
corpo: vi può essere un sentimento vitale che sia solo coscienza della propria esistenza (cfr. CdG,
p. 252). Se si tiene presente ciò risulta chiaro che le osservazioni sull’influsso della musica sul
corpo rappresentano una parte dell’antropologia empirica che si colloca su di un piano diverso
rispetto alla critica trascendentale del gusto. Non è necessario supporre che il paragrafo 54
risalga ad un periodo precedente della teoria di Kant per poterne giustificare la presunta
contraddizione con altre parti della teoria; ne è necessario formulare l’ipotesi che la musica in
una fase precedente della redazione dell’opera rientrasse nell’ambito delle arti piacevoli, per
dimostrare che le osservazioni del paragrafo 54 sono compatibili con quelle che le precedono. Non
abbiamo infatti alcuna possibilità di ricostruire dal punto di vista filologico il processo della
redazione dell’opera poiché non sono rimasti a nostra disposizione i manoscritti. Occorrerà invece
porre in rilievo che mentre le ricerche dei paragrafi 14 e 51, che attribuiscono la musica
all’ambito delle arti belle, rientrano nell’orizzonte di una critica del gusto che indaga i
fondamenti del nostro giudizio, il paragrafo 54 analizza il Vergnügen e il piacevole. In questo modo
si potrà dimostrare, ad un tempo, la compatibilità delle due tesi e la coerenza della teoria di
Kant.

Annotazione 1

Molti interpreti hanno rivolto lo sguardo a questo paragrafo per suggerire l’idea che la concezione
della musica di Kant nel suo insieme sia localizzata al livello empirico della considerazione
fisiologica e psicologica degli effetti sulle fibre del corpo. A partire da Herder si è imposta la
convinzione che Kant scorga il valore della musica nella “heilsame Erschütterung des Zwergfells” e
nella “gesunde Verdauung in einem uninteressierten, rein ästhetischen Gedankenspiele” (SW, Bd. XII,
p. 72 f.). Friedrich Rochlitz, che pubblica fra il 1824 e il 1832 quattro volumi Für Freunde der
Tonkunst scrive che per Kant l’arte musicale è arte piacevole. Gli esempi che egli adduce sembrano
derivare dalla convinzione che non vi sia alcun altro tipo di musica in Kant oltre alla musica da
ballo e alla musica da tavola (Rochlitz 1824-32, 2. Band, p. 185 sg.). Kant tendeva, secondo
Friedländer, a considerare gli effetti della musica come effetti puramente materiali e ad intendere
la musica non come arte bella, ma come arte piacevole; Schlapp scrive che Kant pone sullo stesso
piano musica e comicità giungendo all’esilarante conclusione che in realtà in entrambi i casi i
muscoli addominali svolgono un ruolo considerevole. L’attività dei musicisti e quella dei buffoni
sono quindi considerate da Kant fondamentalmente sotto il profilo pratico della ginnastica
favorevole alla salute (Friedländer 1867, p. 124). Anche Marschner nota che, quando (nel paragrafo
54) stabilisce la differenza essenziale fra ciò che piace solo nel giudizio e ciò che piace nella
sensazione, Kant, per il quale la musica è gioco di sensazioni, considera quest’arte in modo così
superficiale da trasformarla in mero godimento e arte piacevole (cfr. Marschner 1901, p. 29; cfr.
anche Sponheuer 1987, p. 103). “Non si può comprendere infatti con quale diritto Kant, che in altri
passi esalta gli effetti della musica, possa spiegare il mero piacere [Vergnügen] che la musica
dovrebbe offrire e dovrebbe essere come fosse un’opera d’arte. La concezione che vi possa e debba
essere anche entro la musica un gioco che suscita piacere non si potrebbe considerare quella
accettata dall’autore, come invece risulta dal paragrafo che sarà ora oggetto di indagine”
(Marschner 1901, in Nachtsheim 1977, p. 209). Anche Klinkhammer ritiene che queste spiegazioni
fisiologiche occupino uno spazio troppo esteso. “Fondamentalmente, contro questa descrizione
dell’aspetto sensistico della musica si deve obiettare che Kant la svolge con una tale inattesa
dovizia che fa apparentemente scomparire sullo sfondo le altre sue considerazioni sull’estetica
musicale” (Klinkhammer 1926, p. 40) e crede che “Kant in questo passo pensi alla musica da tavola”
(Klinkhammer 1926, p. 39). Per citare un ultimo esempio, Moos condanna questo paragrafo e crede che
Kant si spinga troppo in là, decretando che lo scopo finale della musica non è spirituale, ma
corporeo (citato in Nachtsheim 1997, p. 261). Per Schering, Kant si interessa della musica come arte
piacevole più di quanto facciamo noi oggi e ciò non può essere se non la conseguenza della sua
intrinseca assenza di musicalità, del suo gusto dilettantesco; tutto ciò che egli dice in proposito
non ha se non un valore storico. Da questo punto di vista la concezione kantiana è lo specchio di
una valutazione condizionata dall’epoca che si può documentare in numerosi altri autori (Schering
1910, pp. 170-175). Anche Meredith si è lasciato guidare dall’idea che la musica nel paragrafo 54
sia considerata un’arte piacevole. Ciò non sarebbe però compatibile, a suo avviso, con i paragrafi
14 e 51 che assegnano la musica alla sfera delle arti belle (in Kant 1911).

Annotazione 2

Secondo Maecklenburg l’origine di questa concezione fisiologica sarebbe il saggio di carattere
psicologico di Kausch sull’influsso dei suoni sul corpo e sull’anima pubblicato nel 1782
(Maecklenburg 1914, p. 211). Come si è visto nel capitolo precedente, la concezione è stata
elaborata da Kant prima del 1782; è però un dato di fatto che Kausch ha inviato a Kant il proprio
contributo nel 1787. Nachtsheim ha toccato, seppure rapidamente, il tema del rapporto fra il
piacevole nella musica e la valutazione positiva dell’antropologia di Burke nella Nota generale
all’esposizione dei Giudizi estetici riflettenti. Nachtsheim nota che il nesso fra il sistema di
Kant e la sua estetica musicale è rimasto inesplorato (1997, p. 31 nota 96): “Kant accenna alla
motivazione sistematica di ciò nella Esposizione generale dei giudizi estetici riflettenti,
constatando mediante il richiamo a Burke che accanto ad un’esposizione trascendentale è possibile
anche una deduzione empirica (fisiologica o psicologica) del bello, che rientra però
nell’antropologia empirica […]. Ma questa esposizione empirica sfocia sempre soltanto in ciò che
Kant chiama piacevolezza. Detto altrimenti: la teoria di Burke è, agli occhi di Kant, in quanto si
occupa di prodotti delle arti belle, una teoria (meritevole di essere studiata) del piacevole”. Al
contrario, Moos sostiene che “Kant non si arresta a questa concezione materialistica, ma che essa
significa una ricaduta occasionale nel sensismo di un Burke combattuto da Kant” (Moos 1922, citato
in Nachtsheim 1997, p. 262).

13. Musica e finalità oggettiva formale

Il paragrafo 62 affronta il tema della finalità oggettiva e meramente formale e della sua differenza
dalla finalità materiale; esso mira a dimostrare che accanto alla finalità soggettiva e formale, di
cui si è svolta l’analisi nella teoria del bello, nell’analitica del sublime e nella definizione del
genio, vi è anche una finalità oggettiva, anch’essa formale, che deve essere a sua volta
differenziata dalla finalità oggettiva e materiale che rappresenta l’oggetto vero e proprio della
teleologia. Il gusto si fonda sulla finalità soggettiva e formale che coincide con il libero gioco
delle facoltà conoscitive; anche il sublime si può ricondurre a una forma particolare di finalità
soggettiva e formale che non deriva dal rapporto fra immaginazione e intelletto, ma dal rapporto fra
immaginazione e ragione; immaginazione, intelletto, spirito e gusto sono le facoltà da cui risulta
la finalità soggettiva e formale che è alla base del genio.

In che consiste, allora, la finalità oggettiva e formale? Kant illustra questo concetto con due
esempi: le figure geometriche, i numeri aritmetici. Se i primi sono oggetto della geometria i
secondi rientrano nella matematica come scienza dei numeri. Certo, l’argomentazione si sofferma più
sulle figure geometriche e l’intero paragrafo si prefigge di dimostrare che alle figure geometriche
non si può attribuire la qualifica della bellezza perché il giudizio che si formula su di esse è
fondato su concetti e quindi è in contraddizione con le condizioni che rendono possibile il gusto,
il quale non può essere ricondotto a concetti conoscitivi determinati. Tuttavia, è possibile
applicare le considerazioni relative alle figure geometriche anche all’aritmetica e ai suoi numeri e
chiedersi quale sia il rapporto fra la musica e la matematica come scienza dei numeri. “Si usa il
termine bellezza a proposito di queste proprietà sia delle figure geometriche che dei numeri” (CdG,
p. 337): numeri e figure geometriche sono atti alla soluzione di una quantità di problemi secondo un
unico principio, e questa soluzione non ha luogo sulla via del pensiero discorsivo bensì su quella
dell’intuizione. I numeri sono considerati belli da alcuni autori e posti sullo stesso piano della
bellezza delle figure geometriche perché rivelano una certa finalità. Kant critica qui Johann Georg
Sulzer che attribuisce alle formule algebriche la qualifica della “bellezza intellettuale”: il suo
errore consiste nel chiamare “bellezza” la finalità delle figure geometriche e dei numeri; la
finalità è un accordo, una convenienza nei confronti della nostra facoltà conoscitiva, ma non
riguarda il sentimento di piacere.

Platone ha compreso che l’animo è dotato della facoltà di percepire i rapporti numerici armonici, ma
ha cercato l’origine dei rapporti numerici musicali in un intelletto divino; la sua ammirazione per
l’armonia si è così surrettiziamente trasformata in esaltazione.

Questi passi sembrano non essere noti a Bosanquet che afferma che il nostro filosofo non aveva
conoscenza alcuna del valore che la musica rivestiva per i pensatori dell’antichità: “Prendendo nota
delle perplessità di Kant sulla musica, possiamo ricordare che egli fece ben poco uso degli antichi
che sapevano qualcosa del vero valore di quell’arte che abbiamo visto trascurata nel medioevo e
nell’estetica del diciottesimo secolo” (Bosanquet 1949, pp. 281-282).

Differenziandosi esplicitamente da Platone e anche da Pitagora, Kant non reputa che i rapporti
matematici siano oggetto di una conoscenza che derivi a priori dalla mera ragione e non pensa che i
sensi non svolgano alcun ruolo in essa. Egli non può accettare che i sensi contengano lauter
Blendwerck, mero inganno: proprio il senso dell’udito, un senso esterno, può percepire i rapporti
fra i suoni; Kant rimprovera a Platone e Pitagora la tendenza a sconfinare nel misticismo,
sottovalutando la sensibilità e la sua funzione.

Se non vogliamo commettere l’errore di chiamare belle le formule algebriche e le proprietà dei
numeri per cui essi si distinguono per la loro attitudine alla soluzione di una quantità di problemi
secondo un unico principio, dobbiamo quindi tracciare una netta linea di separazione fra la finalità
che le caratterizza e la vera e propria bellezza: non esiste una bellezza intellettuale, perché la
bellezza è sempre soltanto sensibile; l’espressione “bellezza intellettuale” dovrebbe essere
sostituita dal termine “finalità formale e oggettiva”. Se però si vuole applicare l’aggettivo
“bello” anche alla scoperta di rapporti numerici e alla soluzione di problemi aritmetici, si deve
chiarire che non le formule algebriche sono belle; bella è la dimostrazione matematica in cui
intelletto e immaginazione si sentono corroborati a priori, bello è il fondamento del piacere che ne
deriva, il quale, sebbene sia dato da concetti, è comunque soggettivo; la perfezione, al contrario,
è connessa con un piacere [Wohlgefallen] oggettivo (cfr. CdG, p. 337).

È dunque chiaro che la critica al concetto di bellezza intellettuale riguarda solo i numeri
algebrici e il loro uso nella matematica; in questo senso Kant è avversario di Sulzer. Per quanto
concerne però la bellezza sensibile di cui parla Sulzer, Kant non nega che essa sia vera e propria
bellezza; allorché Sulzer adduce come esempio di bellezza intellettuale regole algebriche, e si
riferisce alla matematica come scienza dei numeri, ed esemplifica la bellezza sensibile con le
proporzioni aritmetiche stabilite da Euler fra i numeri delle vibrazioni delle onde sonore, Kant ne
apprezza il discorso. Contro Sulzer egli annovera le formule algebriche nella finalità oggettiva e
formale; con Sulzer inserisce i rapporti fra le note nella sfera della bellezza. I rapporti numerici
che stanno a fondamento della musica non sono, quindi, per Kant, bellezza oggettiva e formale, ma
corrispondono al gioco delle facoltà in quanto sono musica senza testo e anche musica senza tema
come è stato mostrato dal paragrafo 16, con il quale il presente paragrafo è in completo accordo.

14. La seconda edizione della Critica del Giudizio (1793)

14.1. Kant a Hellwag

Sebbene numerosi editori e interpreti abbiano pensato che la variante della terza edizione woran ich
doch gar nicht zweifle fosse corretta anche per la prima e per la seconda, si è mostrato
precedentemente per quale motivo sia verosimilmente esatta, in relazione alla teoria esposta nel
1790, la variante della prima edizione. Le ricerche sopra condotte hanno portato al seguente
risultato: secondo Kant si ha ragione di supporre che i suoni non siano altro se non una successione
regolare di vibrazioni dell’aria che colpiscono le parti elastiche del nostro orecchio. Non si può
peraltro sostenere con certezza che l’animo sia in grado di percepire la natura fisica dei suoni
come unità di una molteplicità, sebbene si possano addurre motivi che rendono legittima la tesi
della bellezza dei singoli suoni.

La teoria musicale della seconda edizione non si differenzia da quella della prima. La seconda
edizione coincide con la prima nei paragrafi sulla musica e l’espressione woran ich doch gar sehr
zweifle compare anche nella seconda. Può forse trattarsi di un errore di stampa sia nella prima sia
nella seconda edizione? Si può dimostrare che Kant ha avuto a lungo fra le mani la prima edizione
dell’opera e che la sottopose ad accurate revisioni. Ciononostante egli non mutò il gar sehr,
sebbene si possa constatare che egli corresse abbondantemente il testo precedente e seguente a
questo passo. Si può dunque accettare che la variante gar sehr rifletta la posizione di Kant nel
1790 e nel 1793. Erdmann scrive nell’introduzione alla sua edizione della Kritik der Urteilskraft
che Kant mostrava una rara indifferenza per la correzione dei suoi scritti a stampa e che
probabilmente dalla fine degli anni Cinquanta in poi non ha mai corretto personalmente una delle sue
opere; si limitava ad approntare di malavoglia errata corrige per gli errori di stampa che gli
balzavano agli occhi in modo particolarmente evidente a una lettura superficiale (cfr. Erdmann 1880,
pp. XXXIII-XXXIV). Werner Stark si è opposto a questa tesi diffusa nella filologia kantiana, secondo
la quale Kant aveva scarsissimo interesse per la forma esteriore delle sue opere, affermando che la
collaborazione dell’autore era ridotta per motivi esteriori. Non fu dunque l’autore, ma il
correttore a rivedere le opere al momento della loro stampa (cfr. Stark 1988).

Sulla stampa della seconda edizione siamo però ben informati grazie alle lettere di Kant a De La
Garde; “le lettere di Kant alla casa editrice berlinese, che ebbe vita breve, di François Théodore
de LaGarde (1756-18??) sono il documento più esausitivo per comprendere il modo in cui Kant
collaborò alla stampa dei suoi scritti” (Stark 1993, p. 32); esse dimostrano che Kant era
interessato alla revisione dell’opera e che se ne occupò a lungo. Il 2 agosto 1791 Kant prega De La
Garde di inviargli l’esemplare interfogliato promesso (AA XI, p. 275); il 28 ottobre 1791 conferma
di aver ricevuto l’esemplare e comunica di voler restituire l’esemplare corretto entro la fine di
novembre 1791 (AA XI, p. 301). Il 12 giugno 1792 scrive, infine, di avere inviato il 10 giugno
l’esemplare corretto dell’opera in un pacco; segnala che le correzioni iniziano dalla lettera A ad
eccezione della prefazione e della introduzione e che, fatta eccezione per la nota a p. 462, nulla è
stato aggiunto perché non lo si è ritenuto necessario. La correzione della prefazione e della
introduzione, se vi si trovano errori oppure sono necessarie piccole aggiunte, sarà inviata tra
breve, garantisce Kant che prega il suo destinatario di iniziare la stampa dal foglio A. (AA XI, p.
341). Da queste lettere risulta che Kant ha sottoposto la prima edizione a una revisione protrattasi
dall’agosto del 1791 al luglio del 1792. Rosenkranz riteneva che Kant non avesse mai compiuto “una
trasformazione intrinseca del testo”. Hartenstein conosce la differenza fra la prima e la seconda
edizione, ma crede che la terza sia una semplice ristampa della seconda e Kirchmann parla di una
ristampa immutata. L’ultima lettera è particolarmente rilevante poiché ne risulta che Kant finì solo
il 10 giugno 1792 la correzione dell’esemplare della Kritik der Urteilskraft ad eccezione della
prefazione e della introduzione che aveva promesso per la fine del mese di novembre 1791. Ancora più
significativo è il fatto che Kant dica di non avere aggiunto nulla al testo, fatta eccezione per la
nota a p. 462.

Sul periodo di tempo che intercorre fra la prima e la seconda edizione della Critica del Giudizio
abbiamo a nostra disposizione un certo numero di informazioni che si possono ricavare soprattutto
dall’epistolario di Kant. Hellwag ricordava a Kant nella lettera da lui inviata di aver pubblicato
nel “Deutsches Museum” del 1786 un saggio su questo tema. Il 3 gennaio 1791 Kant risponde in una
lettera della quale ci sono conservati, nell’Edizione dell’Accademia, sia la stesura definitiva sia
il progetto. Arthur Warda pubblicò entrambi i testi in un saggio dal titolo Zwei Briefentwürfe Kants
che comparve nel volume del 1900 della “Altpreußische Monatsschrift”. A differenza della
trascrizione della Edizione dell’Accademia, nel saggio di Warda è accessibile anche la stesura
originaria del progetto che Kant sottopose poi a revisione, modificando le proposizioni in alcuni
punti.

Opportuno, a questo punto, un confronto fra la lettera, il progetto e la trascrizione del progetto
ad opera di Warda, che riporta alla luce oscillazioni e incertezze che possono dimostrarsi
rilevanti. Sebbene la lettera non contenga alcuna dichiarazione sul passo del paragrafo 14 relativo
a Euler e alla teoria della riflessione, si può determinare sulla base degli altri due documenti
quale variante rifletta la posizione di Kant nel 1791. Dalla lettura comparata dei tre testi si
possono trarre le seguenti conclusioni: 1) anche durante la stesura della risposta a Hellwag, Kant
si sente insicuro e dubita di fatto che la musica abbia a che fare con la riflessione; egli
definisce “problematico” anche il parallelismo fra suoni e colori 2) Kant è però incline a designare
“belli” sia i suoni sia i colori singoli. Ecco testo e progetto della lettera inviata da Kant a
Hellwag:

In primo luogo, per quanto concerne l’analogia fra i colori e i suoni, Ella porta sicuramente più
vicino alla soluzione il problema del loro rapporto con il giudizio di gusto (che non può essere un
mero giudizio dei sensi sul piacevole e sullo spiacevole). A questo proposito, mi sembra
interessante, e meritevole di venire ulteriormente sviluppata, la Sua scala delle vocali, intese
come gli unici suoni che possono avere di per se stessi un suono. Infatti nessuno può pensare la
musica, se non è al tempo stesso in grado di accompagnarla con il canto, per quanto inetto egli sia.
Qui appare nel contempo evidente la differenza fra il gioco dei colori e quello dei suoni, giacché
il primo non presuppone il potere produttivo dell’immaginazione. Sennonché al momento attuale sono
troppo immerso nella meditazione di altri argomenti, per potermi per ora adeguatamente occupare di
questa indagine. Devo solo rilevare che, quando nella Critica del Giudizio ho parlato di persone
che, sebbene possedessero un ottimo udito, non sapevano distinguere una nota dall’altra, ma che non
erano assolutamente in grado di distinguere una nota da un semplice suono. Avevo presente alla mente
il mio migliore amico, il commerciante inglese Green, scomparso quattro anni fa. Quando era bambino,
i suoi genitori avevano rilevato questo difetto e perciò gli avevano fatto imparare a suonare il
piano con le note. Sennonché né allora né dopo egli riusciva a rilevare la minima differenza quando
era un altro a suonare al piano o a cantare un pezzo totalmente diverso; di conseguenza, le note
erano per lui un mero rumore. Analogamente, ho letto da qualche parte di persone le quali non
riuscivano a discriminare nell’insieme della natura altro che luci e ombre e, sebbene i loro occhi
fossero sanissimi, vedevano tutti gli oggetti come in un’incisione in rame. È interessante notare
che nel mio amico Green questa incapacità si estendeva anche alla poesia: non riusciva mai a
riconoscere la sua differenza rispetto alla prosa, se non per il fatto che essa consiste in una
disposizione delle sillabe coatta ed artificiosa. Perciò leggeva molto volentieri gli Essays on Man
di Pope, ma trovava seccante che fossero scritti in versi (Kant 1990, pp. 249-250).

Progetto

Vs. Sig. Ill. ma mi pone una quantità di problemi che per la maggior parte ha già risolto benissimo
da sé. Permetta che le comunichi per cenni, piuttosto che renderlo perspicuo nei dettagli, il mio
giudizio, giacché esso – a causa della brevità del tempo a mia disposizione – non è ancora pervenuto
a maturazione. Ritenendo che li si debba giudicare come un bel gioco delle sensazioni, Ella ha
sicuramente portato più vicino alla soluzione il parallelo fra i colori e i suoni in un giudizio
estetico; parallelo che io ho avanzato in modo meramente problematico. Sennonché mi sono attualmente
tanto allontanato da questo tipo di indagine, che – per tener conto dell’insieme delle ragioni pro e
contro – mi occorrerebbe adesso molto più tempo di quello che posso dedicarvi, e lascio volentieri
alla Sua ulteriore indagine l’esecuzione di questo compito. Mi sembra che la Sua scala dei suoni
verbali indipendenti (le vocali) dia occasione ad importanti osservazioni: le vocali sono le sole ad
essere dotate di suono, a differenza degli elementi verbali puramente sonori (le consonanti), che
non sono di per sé veicoli dei suoni, ma servono alla voce umana solo per collegare le vocali.
Infatti nessuno può intendere una musica se non sa accompagnarla con il canto, e nemmeno può
indicare chiaramente le note (per questo motivo il canto degli uccelli non è per noi vera musica). A
questo proposito rilevo ancora soltanto che, quando a p. 2[09] della Critica del Giudizio parlavo di
coloro che non riescono a percepire alcuna differenza fra le note nel canto di un altro o in una
musica strumentale, non intendevo dire che essi confondono spesso le note, ma che non riescono
assolutamente a distinguere una nota da un semplice suono. Un esempio sorprendente me lo forniva un
mio amico scomparso quattro anni fa, il commerciante inglese Joseph Green. Durante la giovinezza era
stato costretto a suonare al piano pezzi di spartiti, ma né allora né per tutta la vita riuscì a
percepire la differenza quando qualcuno suonava su questo strumento un pezzo totalmente diverso;
egli possedeva perciò il senso della sonorità, ma non possedeva minimamente quello della tonalità.
Ciò era collegato anche con la sua restante capacità di giudicare esteticamente: leggeva volentieri,
per es., gli Essays on Man per i pensieri contenutivi, ma, avvertendoli come qualcosa di coatto, non
riusciva a provare piacere nel verso e nella rima. Analogamente, d’altro canto, per quanto concerne
le differenze cromatiche, intendevo riferirmi all’esempio (ancorché raro) di quella famiglia
inglese, alcuni membri della quale non avevano assolutamente nessuna rappresentazione di colore, ma
nel mondo visibile percepivano solo luci ed ombre, come in un’incisione in rame (Kant 1990, pp.
255-256).

Nella trascrizione del progetto pubblicata da Warda si può notare la presenza, in seguito riprodotta
entro parentesi quadra, di un’affermazione poi cancellata da Kant, che non è trascritta
nell’Edizione dell’Accademia; sebbene il suo contenuto renda manifesto come Kant fosse propenso ad
accettare la soluzione della bellezza dei suoni e dei colori, il fatto stesso che egli dapprima la
scrisse e in un secondo momento la cancellò lascia trasparire visibilmente la sua indecisione al
riguardo, e la presenza in lui di un “dubbio” non ancora risolto.

Ritenendo che li si debba giudicare come un bel gioco delle sensazioni [opinione alla quale io
stesso sono maggiormente incline] Ella ha sicuramente portato più vicino alla soluzione il parallelo
fra i colori e i suoni in un giudizio estetico; parallelo che io ho avanzato in modo meramente
problematico.

14.2. L’assenza di urbanità della musica

Nella seconda edizione della Critica del Giudizio Kant aggiunge, inoltre, la seguente
considerazione:

Inoltre, alla musica, bisogna rimproverare una certa mancanza di urbanità, soprattutto per la
proprietà dei suoi strumenti, di spandere il proprio influsso al di là del richiesto (al vicinato),
per così dire imponendosi e violando la libertà di quanti non partecipano al trattenimento musicale;
cosa che non fanno le arti che parlano agli occhi, poiché basta distogliere questi quando non se ne
vuole accogliere l’impressione. Pressoché lo stesso accade per il piacere che dà un odore che si
spande lontano. Chi estrae dalla tasca il fazzoletto profumato tiranneggia chi sta intorno a lui
ignorandone la volontà e costringendolo, se vuole respirare, a godere anch’egli di quel piacere; è
perciò che quest’uso è passato di moda (CdG, p. 303).

Nella nota soggiunge:

Coloro che hanno consigliato per le devozioni domestiche anche il canto di inni spirituali non hanno
riflettuto sul fatto che, con una pratica di culto tanto chiassosa (e proprio per questo sovente
farisaica) causavano un grosso incomodo al vicinato, costretto, o ad unirsi al canto, o ad
interrompere il suo lavoro intellettuale (CdG, p. 303).

Dal momento che il giudizio negativo del filosofo e le sue lamentele si riferiscono al canto degli
occupanti la prigione posta nelle vicinanze della sua abitazione, alla loro “stentorische Andacht”,
non è facile trarne la conclusione che Kant non apprezzasse la musica intesa come arte bella.
Nessuno valuterebbe come musica sublime i canti provenienti da un istituto penitenziario. Fra i
canti spirituali cui Kant pensa e i capolavori dei grandi maestri vi è un abisso incolmabile, e
nessuno direbbe che coloro che apprezzano i canti spirituali provenienti da una prigione abbiano, al
contrario, una profonda conoscenza dell’arte musicale. L’aneddoto mette in luce un contesto
biografico la cui presenza è ancora visibile nella seconda edizione della Critica del Giudizio.
Bersaglio polemico del filosofo sono qui coloro i quali hanno consigliato per le devozioni
domestiche anche il canto di inni spirituali, usanza da deplorare soprattutto dal punto di vista
morale e religioso. La forma musicale di questi canti non è qui oggetto di discussione; essi non
sono nominati, infatti, come oggetti di un giudizio di gusto estetico, ma come dimostrazione di una
pratica di culto farisaica che non trova origine nella pace e nella serenità della coscienza morale.
Poiché questo tipo di musica provoca notevole fastidio, l’ascoltatore può essere costretto a unirsi
al canto e ad interrompere il suo lavoro intellettuale. Egli deve necessariamente unirsi al canto
perché, come sappiamo, la musica attrae con molta forza la facoltà dell’immaginazione involontaria.
Che la musica ci attragga a sé al punto tale da costringerci ad ascoltarla contro la nostra volontà
anche quando siano emessi suoni stentati che nulla hanno a che fare con la bellezza e sono percepiti
nella loro spiacevolezza, non è certo ammissione che possa fornire testimonianza della valutazione
sprezzante e negativa, da parte di Kant, della musica in generale. L’attenzione del filosofo non è
qui rivolta alla musica in sé e per sé, ma solo alla musica spiacevole, il cui effetto sull’animo è
analizzato nei suoi fondamenti antropologici e fisici. Che questo tipo di musica ci disturbi deriva
dalla natura fisica dei suoni musicali, fondata a sua volta sulla costituzione fisica del suono in
generale: è una proprietà del suono in generale che esso penetri dappertutto. Esclusivamente sotto
questo aspetto la natura dei suoni musicali non è più comparata con la natura dei colori; il mondo
dei colori e degli oggetti della vista che nel paragrafo 14 era posto sullo stesso piano dell’udito
e dei suoni musicali ora si avvicina all’odorato e alle sensazioni che lo riguardano, le quali, per
la loro natura fisica, colpiscono necessariamente l’uomo.

Annotazione

Questo aneddoto è citato quasi di norma in ogni contributo sul tema per dimostrare che il filosofo
di Königsberg era uomo poco amante della musica e che gli eventi musicali non rientravano nelle sue
esperienze di vita. Desmond scrive: “Kant usa un’immagine veramente indicativa: compara la musica
con un gentiluomo che estrae un fazzoletto profumato dalla sua tasca – il profumo si diffonde
dappertutto in modo indeterminato e nessuno può decidere di sottrarsi al suo effetto […] Kant vede
in ciò solo un’intrusione indesiderata” (Desmond 1998, p. 613). Anche Menzer nota: “Qualcosa di
ancor meno rallegrante si può dire, infine, sul rapporto fra Kant e la musica […]. Purtroppo il
vecchio Kant si è reso colpevole di un biasimevole e deviante fraintendimento nella seconda edizione
della Critica del Giudizio quando ha rimproverato alla musica una mancanza di urbanità perché
disturba il vicinato” (Menzer 1952, p. 20). E spiega poi che una nota ci rivela il motivo di questa
condanna. Erano i canti farisaici dei reclusi del carcere che lo avevano disturbato nel suo lavoro
(cfr. Menzer 1952, p. 20). Cfr. anche Moos 1992 (citato in Nachtsheim 1997, p. 263): “Sono note le
lamentele del grande filosofo sul rumore molesto prodotto dalla musica […]”. Odebrecht ritiene che
l’amareggiata e caricaturale critica alla teoria musicale di Kant nella Kalligone colga nel segno
(Odebrecht 1938, p. 139).

fine

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