La fabbrica della felicità

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La fabbrica della felicità

di Giampiero Ciappina

°°°

Il destino e la felicità sono nelle nostre mani

La felicità da dove arriva? Come posso ottenere più felicità? Sarò
felice quando finalmente troverò l’uomo ideale. Acquisterò la casa dei
miei sogni, e alla fine sarò felice. Avete mai sentito dire queste
parole? O vi è mai capitato di sorprendervi a pensare in questo modo?
Bene, allora scordiamoci la felicità: almeno finquando non
modificheremo questi schemi di pensiero. Almeno finchè non comincerà
ad affermarsi un nuovo modello antropologico e una nuova visione del
mondo. Non credo di rivelare nulla di nuovo. Ad esempio nel bel libro
di Paul Watzlavick “Istruzioni per rendersi infelici”, ironica
disamina delle illusioni umane alla disperata ricerca di una felicità
che non si riesce ad afferrare. Secondo la religione, le sofferenze
umane “…derivano dal fatto che l’uomo si è ribellato al Creatore.

Per conoscere veramente la felicità, una felicità più forte delle
circostanze, bisogna ritornare a Dio. Per mezzo della fede impariamo a
conoscere Dio e quindi scopriamo la felicità” (dal Messaggero
Cristiano, Agosto 2004). Purtroppo anche il messaggio religioso tende
a sottolineare che l’uomo in sé, non ha alcuna possibilità di essere
felice. Può esserlo soltanto rimettendo questa capacità fuori di lui,
nelle mani di qualcun altro: in questo caso, di Dio. In questa
visione, la vita appare come una sofferenza, e Dio crudelmente avrebbe
creato l’uomo privandolo della possibilità di essere felice, a meno
che non si ricongiunga con Lui. Non riesco a credere in un Dio così
sadico. E credo che l’attesa di una nuova età dell’oro in cui
finalmente potremo affondare le mani nella felicità mentre ce ne
stiamo oggi soltanto ad attenderla con le mani in mano, o che provenga
da fuori di noi, è soltanto un’illusione. Non solo.

Credo che questo pensiero è anche uno dei più pericolosi nemici della
felicità. L’idea infatti che la felicità non dipenda da noi è un
pensiero che ci rende impotenti rispetto ad uno dei più importanti
obiettivi della nostra esistenza. Il rischio è quello di sentirsi
incapaci e di rimanere in attesa mentre siamo indaffarati a
conquistare future mete materiali. Ma confidare nel futuro è una
trappola. E’ nel presente che dobbiamo concentrare la nostra
creatività. Il nostro presente infatti è già il futuro che avevamo
immaginato tempo fa.

Questa modalità rivela uno dei messaggi più subdoli della nostra
cultura. Il mondo è malato di guerre, di sofferenze, di delitti. La
terra è rovinata dall’inquinamento. Eppure la nostra Società si sforza
di comunicarci che la felicità esiste ed è acquistabile attraverso
beni concreti. In questo assurdo modo di pensare, la felicità è quindi
considerata un risultato. Ne consegue che – soprattutto per le nuove
generazioni di adolescenti, ma non solo – gli obiettivi considerati
desiderabili sono il possesso, il divertimento ad ogni costo, il
narcisismo di sentirsi invidiati dagli altri. Dovremmo profondamente
interrogarci su quanta fatica dovranno fare gli adulti di domani, se
oggi sono così confusi rispetto alla felicità. Credo che per avere
qualche possibilità di essere felici, dobbiamo invece fare lo sforzo
di cambiare modelli di pensiero, ovvero cominciare a considerare che
la felicità non è affatto un risultato, ma è soprattutto un processo.
Il possesso o l’invidia degli altri possono darci un’illusione di
felicità solo per brevi attimi. Se non impariamo ad essere
autenticamente felici, difficilmente potremo trattenere a lungo le
sensazioni piacevoli.

In altre parole, la felicità è concretamente una competenza da
imparare e da costruire. Tanto per cominciare, è la competenza di
sviluppare una forte componente emozionale (e di ridimensionare quella
che talvolta diventa una ipertrofica componente razionale). La
felicità infatti, è prima di tutto uno stato d’animo. Se cerchiamo la
felicità attraverso le strategie della mente, rischiamo di non
trovarla semplicemente perché cerchiamo nel posto sbagliato e con lo
strumento sbagliato. Magari la felicità ce l’abbiamo sotto gli occhi,
ma semplicemente non riusciamo a vederla. Ciò perché siamo stati
incoraggiati a sviluppare al massimo le nostre capacità razionali,
logiche, strategiche, mentre la felicità è principalmente uno stato
umorale, appartiene più al mondo delle passioni che non a quello della
scienza. E’ come cercare di vedere la televisione senza accendere il
televisore. Ci vuole lo strumento giusto, quello adeguato per il tipo
di segnale televisivo. Per la felicità, lo strumento giusto è una
grande competenza emotiva, legata alla capacità di gustare le emozioni
della vita. Purtroppo, troppo spesso, diamo per scontato che le
competenze emotive siano naturali, istintive, presenti alla nascita e
sufficientemente sviluppate, mentre non è così per quelle razionali.

Si finisce quindi per incoraggiare lo sviluppo di competenze logiche a
discapito di quelle emotive, che invece sono lo strumento giusto per
imparare ad essere felici. Osservare sereni la propria vita e sentirsi
di buon umore perché ci si accorge che non manca nulla, non è affatto
una capacità logica, ma una capacità emotiva. Con la logica possiamo
provare un piacere intellettuale, ma non possiamo godere a fondo,
sentirci sereni e saziati dei doni che la vita ci ha fatto fino ad
oggi. Sentirsi soddisfatti e avere la percezione profonda che
possediamo abbastanza, sviluppare la capacità di godere autenticamente
di quello che abbiamo, sono competenze emotive che si sviluppano con
un addestramento paziente. La felicità non è neppure un’area cerebrale
o un sistema chimico da attivare (malgrado quanto vadano propagandando
le multinazionali farmaceutiche). A maggior riprova di quanto detto,
dice Gallese, uno dei più illustri neuroscienziati italiani: “La
ricerca dello scatolino nel cervello la cui attivazione mi rende
felice, mi lascia davvero un po’ scettico”.

Un’altro elemento della felicità è la competenza di gestire i
conflitti, ma non soltanto in direzione del Problem Solving, ma
soprattutto in direzione di acquisizione di senso, di attribuzione di
significato. Se la felicità viene confusa con il miraggio della pace
dei sensi e l’utopia di una vita in assenza di dolore, significa
infilare la testa sotto la sabbia come gli struzzi. In altre parole:
manca un atteggiamento adulto e responsabile nei confronti della
nostra esistenza. Poiché i conflitti non sono eliminabili a priori,
illudersi che la nostra felicità sia seguente alla soglia
dell’eliminazione di tutti i conflitti, significa intrappolarsi in un
meccanismo mentale luciferino. In altre parole, prima costruisco un
luogo ideale e impossibile da raggiungere (l’assenza di conflitti e di
dolore), poi attribuisco a questo luogo (per essere felice)
l’imperiosa necessità di raggiungerlo, ed ecco che ho costruito la mia
singolarissima macchina infernale, il mio Personal Torturer. Un po’
come la carota attaccata al bastone dell’asino. Vado avanti inseguendo
qualcosa che – se continuo a mantenere questi modelli di pensiero –
non potrò mai raggiungere. Il cambiamento richiesto è imparare (e ci
vuole davvero tempo, impegno e pazienza) a considerare i conflitti e
il dolore come eventi che richiedono un intervento di trasformazione
interiore.

Questo è un salto quantico, è un nuovo modello di pensiero in grado di
mettermi in condizione di imparare ad essere felice. In questa nuova
visione, il conflitto è una spinta evolutiva e non una punizione per i
peccati commessi o un avverso e accidentale destino. Il Terzo Teorema
della Cosmo-Art di Antonio Mercurio si concentra proprio sul
significato evolutivo del dolore. Il Dolore – dice Mercurio – è una
forza cosmica che serve per creare ( – Guarda il Video sul Terzo
Teorema della Cosmo-Art). Se rimaniamo impantanati in una visione
impotente dell’uomo, oppresso della propria incapacità ad ottenere una
legittima felicità, saremo sempre vittime del dolore. Se invece
impariamo a vedere opportunità invece che castighi, se impariamo a
scorgere nuove sfide invece che disgrazie, allora avremo appreso una
nuova competenza in grado di farci costruire la felicità. E’ questo
anche, in sintesi, il senso del Forum Nazionale per la Promozione del
Benessere, svoltosi nell’ottobre 2006 a Palazzo Farnese a Piacenza,
“la competenza conflittuale consente l’emersione e quindi la
trattabilità del conflitto. Diventa determinante dunque per gli
individui e le organizzazioni assumere le sfide di interazione
trasformativa che il conflitto richiede. Una maggiore competenza
conflittuale riduce la reattività e le strutture di violenza, creando
le condizioni evolutive di bellezza e felicità”.

Credo che questa sia la nuova rivoluzione copernicana che l’umanità
deve imparare ad affrontare, proposta per primo da Antonio Mercurio
già nel 1989 nel bel libro “Antropologia Esistenziale e Metapsicologia
personalistica”. E’ un vero e proprio ribaltamento del pensiero, un
mutamento dei modelli mentali tanto profondo e disarmante, quanto
straordinariamente efficace e concreto. E’ questa una rivoluzione
antropologica e culturale che restituisce all’Uomo le sorti del
proprio destino, e che permette di comprendere – come dice Wyne Dyer –
che “… Quando cambi il modo di guardare le cose, le cose che guardi
cambiano”.

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