Il Karma (karman)

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Il Karma

di autore sconosciuto

Il termine sanscrito karma (karman) etimologicamente significa “azione”,
e anche attività, principio di causalità, effetti risultanti da
un’azione. Originariamente indicava il sacrificio culturale, il rito
religioso, in quanto nella cultura indo-vedica anche la vita del
brahmana era presa nel solco dell’atto liturgico, perché niente
nell’esistenza sfugge al Dharma, alla Onnipresenza divina. Il dominio
profano non esiste, tutto partecipa al sacro. Più recentemente, grazie
agli insegnamenti della Bhagavad-gita, il karma è visto anche come atto
in forma di “servizio” alla comunità umana o in un particolare contesto.
In genere è tout court percepito nel significato di “reazione”, in
special modo la serie causale che ci farà raccogliere nel corso delle
vite successive il risultato di ciò che abbiamo fatto e pensato. Il
karma è il frutto dell’azione che determina l’individuazione di un
soggetto agente; è l’inerzialità della massa mentale del soggetto, ciò
che lo sospinge ad agire, pensare, identificarsi, esistere in una data
condizione. Può dunque considerarsi come “causa ed effetto” dell’azione,
tale da coinvolgere e costringere l’essere nel perenne ciclo del
divenire, della trasmigrazione da una condizione di coscienza-esistenza
all’altra.

Una legge della fisica (anche spirituale) dice: “Ad ogni azione
corrisponde una reazione uguale e contraria”. Quando qui si parla di
azioni si allude sempre anche a: pensieri, parole e omissioni. Un altro
assioma fondamentale è: “La legge del karma opera anche se una persona
non la conosce”.

Ci sono tre tipi di karma: il prarabdhakarma, il samcitakarma (sanchita),
agaminkarma (kriyaman).

Il prarabdhakarma viene comunemente associato al “destino” di una
persona. È il karma di “ritorno”, cioè la conseguenza delle nostre
azioni le cui reazioni stanno andando a compimento. Nessuno su questo
piano di esistenza, governato dalle leggi della dimensione
spazio-tempo-causale, può sfuggire a questo karma, es.: Cristo muore in
croce, Giuda si impicca ecc.

Il samcitakarma è il karma pregresso, non
ancora maturato, procurato da azioni compiute nelle vite precedenti e in
quella attuale, cioè il peso karmico che ci portiamo dietro attraverso
il ciclo delle rinascite.

L’agaminkarma (kriyaman) è il karma potenziale, quello
che può essere generato da nuove azioni.

Il prarabdhakarma, il frutto delle azioni compiute nel corso delle varie
esistenze, è il samcitakarma che va a compiutezza. È ineluttabile – ad
esempio il nostro corpo – e deve essere esaurito o bruciato
completamente in questa vita alla morte dell’involucro fisico o nelle
prossime esistenze, mediante l’acquisizione di altri veicoli formali.
Oltre al karma individuale ci si deve confrontare anche con il karma di
famiglia, che viene trasmesso tra generazioni, con il karma di popolo
(es. la nazione ebraica tormentata da diaspora, shoah, guerre per la
conquista di un territorio ecc.), con il karma di istituzione (es. la
chiesa, prima perseguitata e martirizzata, poi divenuta essa stessa
carnefice verso gli eretici e i credenti in altre religioni).

Il samcitakarma deve essere neutralizzato per non compromettere le vite
future perpetuate nel ciclo della trasmigrazione.

L’agaminkarma può essere positivo, ovvero contribuire a migliorare la situazione debitoria
cioè alleggerendo il karma accumulato (samcita), ma anche negativo e
peggiorarla.
Quando una persona muore (meglio dire lascia il corpo in quanto l’Essere
è immortale) i conti vengono fatti anche sulla base dei vasana e dei
samskara che hanno prodotto il karma personale. I vasana sono le
tendenze latenti che, avendo a che fare con il subconscio, inducono la
persona a cadere sempre negli stessi errori e di conseguenza a seminare
i semi causali, i samskara, che hanno diretta relazione con il citta (la
sostanza mentale).

La reincarnazione è la “necessità” di esaurire le dinamiche residuali
dei vasana e dei samskara e quindi estinguere il debito karmico,
fornendo nuove opportunità di risolvere la propria situazione non
permanendo nell’ignoranza (avidya); ciò che si ottiene percorrendo la
Via della Conoscenza, che conduce all’immediata estinzione della
sostanza karmica e di conseguenza alla liberazione (moksa) dal samsara
(il ciclo delle morti e rinascite). La consapevolezza di non essere identificati
nel veicolo corpo-mente, ma di essere l’essenza spirituale
indifferenziata, il Sé ovvero la pura Coscienza, ha questa prerogativa.

Ecco perché l’uomo negli stadi finali della sua vita (vanaprasthya e
samnyasa) si dedica alla ricerca interiore e si scioglie dagli
attaccamenti causati dall’inerzia spirituale, dall’orgoglio, dal
desiderio, dalla possessione, dalle emozioni, dai sentimenti, dalle
passioni smodate, dalle paure, dall’odio, dalla depressione ecc. ovvero
dalle sovrapposizioni imprigionanti della mente proiettiva e velante,
che creano i legami karmici caratteristici del senso dell’io
psicologico.

Si potrebbe concludere che nell’esperienza esistenziale non è importante
che cosa ci succede, processo pressoché inevitabile in quanto – se
compreso – funzionale al nostro progresso evolutivo, ma come noi
reagiamo a quanto ci accade. Una modalità per parametrare il nostro
grado di purezza emozionale e inconscia è quello di tenere sotto
osservazione il verificarsi di eventi spiacevoli che si possono
riscontrare nella quotidianità. Se abbiamo la sensazione di aver
commesso una scorrettezza verso qualcuno o verso noi stessi (ad esempio
una arrabbiatura) e riceviamo “subito” una “punizione” diretta o
indiretta, così ritenendo di aver scontato immediatamente il “peccato”
appena commesso, significa che il nostro contenitore karmico è
sostanzialmente vuoto. Questo fenomeno viene definito: “karma veloce”.
Da un lato determina l’ineludibilità di qualche fastidiosa seccatura,
dall’altro è confortante constatare che grazie alla purificazione
ottenuta con la nostra sadhana (disciplina spirituale) abbiamo
raggiunto, o siamo vicini, allo stato coscienziale della liberazione.

In ogni caso sarebbe bene riflettere sempre sull’antichissimo
insegnamento upanisadico: “Quello che pensiamo diventiamo”.

Molti sottovalutano il potere della mente, non tenendo presente che ogni
nostro pensiero è un ente a cui diamo esistenza e di cui dobbiamo
rispondere; diventa quindi fondamentale il controllo della psiche,
stratificata in: mente funzionale, concettuale e intuitiva (l’unica
porta d’accesso all’anima incarnata o jiva). Solo quest’ultima ci
consente di percepire la consapevolezza del Sé (l’atman non duale, Dio
in noi) e realizzare lo scopo della nostra vita: il riconoscimento della
nostra vera natura che è lo Spirito (Paramatman).

Shivo ’smy aham

 

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