Domande e risposte al Dalai Lama 2

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Domande e risposte al Dalai Lama 2

Tratto dal testo: “I Valori della Vita”

del Dalai Lama

(seconda parte)

IL BUDDHISMO – Sulla giusta concezione della realtà e la saggezza

D: La giusta visione rappresenta sicuramente l’inizio del cammino verso la saggezza e non interessa
soltanto la religione.

R: È innanzitutto corretto affermare che la giusta visione non riguarda esclusivamente la
religione. 
Quando affermo che le visioni errate o perverse sono una delle Dieci Azioni Negative dal punto di
vista religioso è perché, nel buddhismo, simili prospettive si riferiscono allo scetticismo nei
confronti della rinascita e della possibilità di raggiungere il Nirvana. 
Si tratta, comunque, di elementi appartenenti unicamente alla fede buddhista.

Sulla meditazione

D: Come può la meditazione aiutare a raggiungere l’appagamento?

R: Quando si usa il termine “meditazione” bisogna innanzitutto ricordare che quest’ultima può avere
diverse connotazioni. 
Per esempio, la meditazione può essere contemplativa, assorbente o analitica. 

Nel caso del raggiungimento dell’appagamento si parla di meditazione analitica. L’individuo riflette
sia sulle conseguenze negative derivanti dalla mancanza di appagamento che sui benefici derivanti da
esso. 
Meditando sui pro e i contro, è possibile raggiungere più facilmente la soddisfazione. 

Se la meditazione viene intesa come un semplice stato mentale di assorbimento, senza tenere presente
l’applicazione della facoltà analitica, difficilmente si permetterà lo sviluppo della soddisfazione.
Questo perché uno dei fondamentali approcci buddhisti alla meditazione prevede una forma di pratica,
durante la sessione meditativa, che abbia un impatto diretto sul comportamento e i rapporti
interpersonali dell’individuo.
Sul karma

D: Il karma è la legge della causa e dell’effetto della nostra attività. 
E per quanto riguarda la causa e l’effetto dell’inattività?

R: Abitualmente, quando si parla della dottrina del karma, soprattutto quando si fa riferimento a
karma positivi e negativi, si intende una forma di azione. Questo però non significa che esistano
azioni neutrali o karma neutrali, che possono essere intesi come karma di inattività. 
Per esempio, se ci troviamo in una situazione in cui qualcuno ha bisogno di aiuto e le circostanze
sono tali per cui agendo possiamo alleviare la sofferenza di questo individuo, se rimanessimo
inattivi potremmo scatenare conseguenze karmiche.

Molto dipende dall’atteggiamento e dalla motivazione individuale. Indipendentemente dal fatto che un
soggetto abbia le capacità di alleviare le sofferenze di un altro essere umano, se il suo
atteggiamento è quello di assoluta indifferenza nei confronti del benessere altrui, possono
scatenarsi conseguenze karmiche negative. 
Questa situazione è ben diversa da quella in cui un individuo resta inattivo per mancanza di
coraggio e fiducia in se stesso. In tal caso, il suo comportamento viene considerato meno
negativamente del precedente.
Come acquistare fiducia nella nostra Natura di Buddha

D: Qual è il modo migliore per riuscire ad avere fiducia nella nostra Natura di Buddha?

R: Basandoci sul concetto di Vuoto, inteso come Chiaroveggenza obiettiva, e sul concetto di
Chiaroveggenza soggettiva, noi cerchiamo di sviluppare una più profonda comprensione della Natura di
Buddha. 
Non è semplice, ma con la riflessione intellettuale e l’aiuto delle nostre emozioni è possibile
sviluppare una sorta di esperienza più profonda della Natura di Buddha.
Sulla natura degli esseri senzienti

D: La scienza moderna non è in grado di fare una chiara distinzione fra le piante e le semplici
forme di vita animale. In che modo il buddhismo decide chi possiede intelletto e chi ne è privo? 
Secondo la sua religione, le piante partecipano ai cicli dell’esistenza e possiedono la Natura di
Buddha?

R: Durante un convegno sui rapporti fra scienza moderna e buddhismo, è stata sollevata la questione
di come sia possibile stabilire se un essere è senziente. Al termine della discussione siamo giunti
alla conclusione che il fattore decisivo è la capacità di muoversi, la mobilità. 
Naturalmente, dal punto di vista buddhista, esistono altri esseri senzienti che non hanno forma,
come quelli nel mondo senza forme. 
Inoltre, nel regno delle forme, dove gli esseri si manifestano in forma fisica, la letteratura
buddhista include, fra gli esseri senzienti, anche le piante e i fiori. 
Ma sinceramente non so come sia possibile stabilire se, per esempio, la pianta che abbiamo davanti a
noi in questo momento sia senziente o meno. Penso che a livello convenzionale la si accetti
semplicemente come pianta e non ci si ponga altre domande.

Non bisogna però dimenticare che nella nostra percezione della realtà esistono diversi livelli di
discordanza fra come noi percepiamo le cose e come le cose e gli eventi si manifestano. 
Quanto detto può essere collegato a un’affermazione contenuta nel Madhyamika Prasangika, una
dottrina filosofica buddhista, in cui se inizialmente si accetta la distinzione fra falsità e
realtà, illusione e realtà, in ultima analisi si giunge a rifiutarla.
Sulle convinzioni consce e subconsce

D: Nel tentativo di vedere la vita in un’ottica positiva, il buddhismo come risolve la dicotomia fra
credenze coscienti e subconsce?

R: Devo innanzitutto ammettere che il significato del termine italiano “subconscio” non mi è
completamente chiaro; comunque, per quanto riguarda il buddhismo, quando parliamo dei diversi metodi
per superare stati emozionali afflittivi e negativi, distinguiamo le esperienze coscienti o
manifeste da quelle che restano in forma di disposizioni, predisposizioni o tendenze. 
Fra le due, è più semplice vincere gli stati emotivi e cognitivi coscienti e manifesti piuttosto che
sottili tendenze e predisposizioni della mente. 

Per questo, quando nelle scritture buddhiste viene illustrato il cammino verso l’Illuminazione, la
comprensione della natura del Vuoto è considerata come la contromisura ideale per vincere le forme
ovvie e manifeste degli stati afflittivi. 
È soltanto tramite un’approfondita comprensione della natura della realtà, attraverso un lungo
processo di meditazione, che un individuo può infine riuscire a vincere tendenze e disposizioni.
La letteratura buddhista parla di diversi stadi nel processo di superamento degli stati afflittivi e
negativi. 
Il primo stadio richiede un “addestramento” attraverso il quale il soggetto raggiunge un livello in
cui, nonostante possa trovarsi coinvolto in situazioni che abitualmente provocherebbero reazioni
negative, grazie alla pratica e all’addestramento eseguiti le emozioni negative non insorgono. 

A questo primo stadio ne segue uno più avanzato, nel quale l’individuo riesce a contrapporsi
direttamente e a prevenire l’insorgere di emozioni spiacevoli. 

Quando infine raggiunge lo stadio più avanzato, la persona e’ in grado di eliminare le condizioni
potenziali che possono determinare stati emotivi negativi. 

Per vincere i nostri stati emotivi e cognitivi negativi e frustranti non basta quindi una semplice
comprensione della natura della realtà, ma è necessario passare attraverso un processo lungo e
complesso.

Per avere un’idea della complessità di tale processo, è sufficiente pensare ai diversi stadi che
attraversa la nostra mente quando si trova a dover affrontare una particolare situazione. 
Per esempio, la posizione della nostra mente allo stadio iniziale può essere totalmente opposta a
quella che è la realtà. 
Nel tentativo di comprendere l’esatta realtà della situazione può verificarsi un cambiamento, che
porta a uno stadio di incertezza ed esitazione, il quale, attraverso un’ulteriore analisi, può
trasformarsi in uno stato di supposizione, che tende verso la giusta conclusione. 
Una volta rinforzato, tale stato può trasformarsi in uno stato di vera conoscenza. 

Allo stadio iniziale, la vera conoscenza poteva essere solo una deduzione basata su determinati
presupposti, e perciò concettuale. Ma attraverso una costante familiarità, la comprensione deduttiva
può, secondo il buddhismo, culminare in una comprensione diretta e intuitiva della natura della
realtà. 

In conclusione, un vero stato di annullamento del desiderio, nel quale l’individuo abbia
completamente superato gli effetti di emozioni e stati cognitivi negativi e afflittivi, viene
considerato come una comprensione diretta e intuitiva.
Sul motivo per cui il buddhismo è descritto come un cammino spirituale

D: Perché il buddhismo viene descritto come un cammino spirituale quando ogni cosa ruota intorno
alla mente?

R: Sì, é vero. Molta gente descrive il buddhismo come una scienza della mente piuttosto che una
religione. 
Nagarjuna, uno dei più grandi maestri buddhisti, nei suoi scritti afferma che per avvicinarsi al
cammino spirituale buddhista é necessaria un’applicazione coordinata di fede e intelligenza. 
Sebbene non conosca perfettamente tutte le sottili connotazioni del termine italiano “religione”,
direi che il buddhismo può essere definito come una sorta di combinazione fra cammino spirituale e
sistema filosofico. 

Bisogna comunque ammettere che nel buddhismo viene data maggiore enfasi alla ragione e
all’intelligenza che alla fede, senza però togliere nulla all’importanza di quest’ultima. 

Il buddhismo ordina tutti i fenomeni in tre classi: 
1. la prima riguarda i fenomeni ovvi (cose di cui possiamo avere un’esperienza e una comprensione
immediata); 
2. la seconda comprende determinati tipi di fenomeni che richiedono una deduzione attraverso un
processo logico, ma che però possiamo ancora arguire da premesse ovvie; 
3. la terza interessa i cosiddetti “fenomeni oscuri”, che possono essere compresi soltanto fidandosi
della testimonianza di una terza persona, nel caso del buddhismo, del Buddha. Fidandoci delle parole
di Buddha accettiamo l’esistenza di tali fenomeni.

Tuttavia, la testimonianza di Buddha non è accettata basandosi sulla fede cieca, ma sulla veridicità
delle sue parole in riferimento a fenomeni riconducibili alla ragione e alla comprensione logica. 
Poiché Buddha è ritenuto degno di fiducia per quanto riguarda tali fenomeni, la sua parola può
essere considerata valida anche per quanto concerne avvenimenti ed eventi per noi non immediatamente
comprensibili. 

In questo caso, la fede gioca un ruolo importante, sebbene in ultima analisi tutto dipenda dalla
ragione e dall’intelligenza. 
Il buddhismo può quindi es-sere considerato una combinazione fra un sistema filosofico e un cammino
spirituale.

Una delle ragioni per cui affermo che nella metodologia buddhista si pone grande enfasi sulla
ragione e la comprensione, è perché il buddhismo Mahayana effettua una distinzione fra due diverse
categorie delle parole di Buddha. 
Alcune scritture buddhiste possono essere intese letteralmente e accettate come definitive, mentre
altre richiedono ulteriori interpretazioni. 
Per stabilire se una determinata scrittura può essere accettata come definitiva o meno, è necessario
affidarsi a una forma di ragionamento. Perciò all’esame e alla comprensione ultima spetta il
giudizio conclusivo. 

Tale spirito è chiaramente illustrato dalle parole del Buddha: «Bhikshus e gli uomini saggi non
accettano le mie parole semplicemente perché sono quelle del Buddha ma, come un orafo esaminerebbe
l’oro attraverso varie procedure per poi esprimersi in un giudizio, così questi uomini accettano la
validità delle mie affermazioni solo dopo averle sottoposte ad analisi.»
In un certo senso, Buddha ci concede di investigare ulteriormente la validità delle sue parole. 

Nel mondo sembrano esistere gruppi di uomini che si definiscono materialisti radicali e altri che si
basano esclusivamente sulla fede, senza approfondite analisi. Il buddhismo non è accolto da nessuno
di questi due gruppi. 
Da una parte è una scienza della mente, e quindi un gruppo lo rifiuta affermando che non è una
religione. 
Dall’altra è anch’esso spirituale, richiede meditazione, riflessione e preghiera e per questo viene
rifiutato dall’altro gruppo. 

Il buddhismo si trova quindi fra i due estremi e forse, in futuro, potrà agire come un ponte che
unisce due rive opposte.

Sul celibato

D: Per raggiungere lo stato di illuminazione é necessario il celibato?

R In linea generale direi di no, anche se il fatto che Buddha avesse deciso di diventare monaco
lascia da pensare. 
Comunque, penso che dal punto di vista del Viniya Sutra lo scopo principale del celibato sia quello
di cercare di ridurre il desiderio o l’attaccamento.

Secondo il Tantrayana, le “gocce”, o speciale beatitudine, sono la fonte di energia per dissolvere
il livello più basso di coscienza o quello più basso di energia. 
Provando tale speciale beatitudine, esiste la possibilità che il livello più basso si dissolva.
Perciò le “gocce” rappresentano il fattore chiave per la beatitudine.

Nell’iconografia del buddhismo tibetano, in particolar modo nella rappresentazione delle divinità
con consorti, sono evidenti molti simbolismi sessuali che spesso danno origine a interpretazioni
errate. 
Sebbene da quelle rappresentazioni sia chiaro l’utilizzo dell’organo sessuale, il movimento di
energia che ha luogo è perfettamente controllato. L’energia non viene rilasciata, ma, al contrario,
dopo essere stata controllata viene distribuita ad altre parti del corpo. 

Il seguace della fede tantrica deve sviluppare la capacità di utilizzare le proprie esperienze di
beatitudine, che sorgono in seguito al flusso dei fluidi rigenerativi all’interno dei canali di
energia dell’individuo. 
È fondamentale riuscire a proteggere se stessi dall’errore dell’eiaculazione. Non si tratta di un
semplice atto sessuale. In questo contesto si inserisce un particolare legame con il celibato. 
La pratica del Kalachakra Tantra ritiene particolarmente importante il proteggere se stessi
dall’emissione di energia. La letteratura Kalachakra cita tre tipi di esperienze gioiose: la prima è
quella indotta dal flusso di energia; la seconda è l’esperienza gioiosa immutabile e la terza é
l’esperienza gioiosa mutevole. 

Per quel che ne so io, quando Buddha fece voto di castità non spiegò le motivazioni che soggiacevano
a tale decisione. 
Una chiara spiegazione ci viene dal sistema del Tantrayana e ritengo, quindi, che la risposta alla
domanda sia contemporaneamente “si” e “no”!
Sulla donna e il nubilato

D: La sua risposta sulla necessità del celibato e l’utilizzo della beatitudine è chiaramente da un
punto di vista maschile. 
Perché non viene mai menzionata la donna? 
Come deve comportarsi quest’ultima nei confronti della propria energia per raggiungere lo stato di
Illuminazione attraverso la beatitudine?

R: La tecnica e il principio sono sempre gli stessi. Poiché anche la donna possiede una sorta di
energia, il metodo è uguale a quello dell’uomo.
Sulla forma della nostra rinascita

D: Chi o che cosa determina la forma della nostra rinascita?

R: Secondo il buddhismo sono le nostre azioni, il karma, a determinare la rinascita, sebbene anche
lo stato mentale al momento della morte rivesta un ruolo fondamentale. 
Chi ha già una certa familiarità con il buddhismo sa che esiste una dottrina, trasmessaci da Buddha
stesso, denominata “I Dodici Anelli dell’Originazione Dipendente”. 
Il secondo anello nella catena è rappresentato dal karma; ma poiché il karma da solo non è in grado
di condurre alla rinascita, sono necessari anche fattori circostanziali condizionanti quali emozioni
frustranti ed eventi conoscitivi. 
Questi ultimi costituiscono l’ottavo e il nono anello: attaccamento e comprensione. 

Quando il segno karmico è attivato dalla forza dell’ottavo e del nono anello, diventa maturo,
trasformandosi nel decimo anello, quello del divenire. 

La natura della rinascita di un individuo dipende quindi dai segni karmici e dalle potenzialità del
proprio essere, accumulate non solo durante la vita attuale ma anche in quelle precedenti. 

Fra i potenziali karmici ve ne possono essere alcuni più potenti di altri. Il testo buddhista
Abhidharma Kosha afferma che, fra i “potenziali karmici” che un individuo possiede nel proprio
continuum mentale, il più potente è quello che determina la natura della rinascita. 
Se l’individuo possiede numerosi segni karmici di uguale intensità, a giungere a buon fine sarà
l’azione karmica più vicina alla vita attuale. 
Se tuttavia esistono ancora numerosi segni karmici di natura simile, allora sarà l’azione karmica
alla quale l’individuo si sente più vicino a giungere a buon fine e a determinare la successiva
rinascita. 

Come ho già affermato, uno dei fattori determinanti è lo stato mentale al momento della morte.
Sullo stato di sogno

D: Che cosa può dirci dello stato di sogno?

R: Soltanto il buddhismo tantrico presenta tecniche meditative che possono essere applicate durante
lo stato di sogno. 
Due sono gli obiettivi principali di tali tipi di meditazione, che utilizzano la coscienza dello
stato di sogno. 

Durante lo stato di sogno abbiamo la possibilità di familiarizzare con i processi di morte, poiché
si prova un analogo processo di dissoluzione. 
In un certo senso, l’individuo si “esercita a morire” utilizzando lo stato di sogno così da
familiarizzare con i processi di dissoluzione e imparare a riconoscere i diversi segni associati ai
vari livelli di dissoluzione.

Ma lo scopo principale della meditazione nel sogno è quello di allenarsi in modo tale che, persino
durante lo stato di sogno, si sia in grado di sperimentare la cosiddetta Chiaroveggenza, il più
sottile livello di coscienza, riuscendo così a provare la dissoluzione dei diversi elementi. 
Per fare ciò, è necessario saper riconoscere i sogni come stati di sogno. 

Per raggiungere tale obiettivo esistono due metodi principali. 
Uno è attraverso il Prana Yoga, e cioè la pratica dei canali di energia, un metodo piuttosto
avanzato e di difficile esecuzione per i principianti. 
L’altro metodo prevede lo sviluppo di una sorta di determinazione, o forza mentale, che favorisce
l’insorgere di una forte volontà necessaria per riconoscere gli stati di sogno come tali.
Sulla posizione della donna nel buddhismo tibetano

D: Perché il buddhismo tibetano non riconosce le donne come lama o guru?

R: A dirla verità alcune alte posizioni sono occupate da donne. Per esempio, l’attuale Samdring
Dorje Phagmo Lama, rappresentante la quattordicesima incarnazione, è una donna.
Sebbene la maggioranza siano uomini, esistono alcune reincarnazioni di lama femminili. 

Bisogna però ammettere che, in passato, la posizione della donna non è mai stata presa in
particolare considerazione. Non ci si è mai preoccupati dei diritti e della posizione femminile
all’interno del buddhismo tibetano; ci si è sempre limitati a dare per scontato lo statu quo. 
Per esempio, recentemente ho incontrato alcuni maestri buddhisti occidentali che mi hanno fatto
notare come, nella cerimonia di ordinazione, le indicazioni sul come stabilire l’anzianità
dell’ordinazione contengano dei pregiudizi. Ho promesso che entro sei mesi avrei organizzato una
conferenza per discutere il problema.

In generale, penso che nel sistema buddhista, soprattutto nel Viniya Sutra, uomini e donne abbiano
gli stessi diritti per ottenere le nomine più elevate, quella di bhikshu e quella di bhikshuni. 
Bisogna comunque riconoscere che, di fatto, quella di bhikshu è una posizione più elevata di quella
di bhikshuni. 

Comunque, secondo il Bodhisattvayana, entrambi possiedono la stessa Natura di Buddha. Inoltre, le
possibilità per raggiungere il livello di Bodhisatta e per praticare i sei paramitas sono
esattamente le stesse.

Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti del sesso, della discriminazione, dei diritti
delle donne e della loro posizione all’interno della struttura religiosa, come ho già affermato in
precedenza, in relazione alla presenza della Natura di Buddha, non c’è differenza. E non c’è neppure
differenza per quanto concerne le potenzialità possedute da un individuo al fine di generare la più
alta aspirazione altruistica per poter conquistare lo stato di Buddha o la comprensione della natura
ultima della realtà.

Tuttavia esiste una parte della letteratura buddhista che riflette una sorta di discriminazione. Per
esempio, in uno dei testi Abhidharma Kosha, una delle caratteristiche dell’individuo che si trova in
un punto avanzato del cammino verso l’Illuminazione è il sesso maschile. 
Ma se considerassimo la questione da quella che ritengo sia la più alta posizione del buddhismo,
quella del Tantra Yoga, ci renderemmo conto che non esiste discriminazione fondata sul sesso, poiché
la pratica del Tantra Yoga richiede innanzitutto un’iniziazione che non è completa senza l’uguale
partecipazione di uomini e donne. 

Per quanto concerne il Tantra, esistono precisi dogmi secondo i quali chi sminuisce o denigra una
donna infrange un precetto tantrico. 
Inoltre, il cammino verso l’Illuminazione può dare esiti positivi solo se esiste complementarità fra
uomini e donne. Per esempio, se il praticante religioso è uomo avrà bisogno di assistenza e stimolo
da parte del sesso opposto e viceversa. 

In conclusione, poiché sia l’uomo che la donna possono essere Illuminati, è possibile affermare che
dal punto di vista del Tantra Yoga non esiste discriminazione basata sul sesso.

Ritengo sia giusto che le donne lottino per difendere i loro diritti. Per quanto mi riguarda, sono
anni che difendo la posizione delle monache all’interno della comunità di rifugiati tibetani in
India. 
Le religiose devono avere il coraggio di studiare quanto i monaci, poiché, sebbene attualmente i
conventi non siano luoghi di studio, un tempo esistevano monasteri femminili considerati centri di
dibattito filosofico altrettanto importanti di quelli maschili.
Sul determinismo

D: C’è chi afferma che non é l’individuo a prendere una decisione e che ciò che deve accadere accade
indipendentemente dall’azione individuale. 
Se non siamo effettivamente noi a prendere la decisione, come possiamo creare karma?

R: Ritengo sia una visione sbagliata. 
Se le nostre azioni e la nostra stessa esistenza fossero governate da un simile fatalismo, allora
l’idea della possibilità di liberazione, o di Illuminazione, non avrebbe alcun senso, poiché
quest’ultima implica un cambiamento totale del karma da parte nostra e un raggiungimento della
salvezza. 
Si tratta di un’iniziativa completamente nuova, mai attuata in passato; é quello che si intende per
“intraprendere un cammino spirituale”. 

Come ho già affermato in precedenza, ci sono persone, tibetani inclusi, che a volte utilizzano il
karma come una scusa, atteggiamento che ritengo assolutamente scorretto.
Sulla meditazione senza una motivazione pura

D: Se la meditazione viene praticata senza purificazione o motivazione può generare effetti
disastrosi. Ci sono persone che hanno sviluppato un certo potere mentale e lo utilizzano in modo
egoista, persino crudele. 
Esiste un metodo per decristallizzare energie aggregatesi in modo sbagliato?

R: Avere un approccio bilanciato nei confronti della meditazione é fondamentale, per questo spesso
parliamo di “cammino completo”. 
Per esempio, se un individuo si concentrasse esclusivamente sul tentativo di generare comprensione
del Vuoto, senza prestare attenzione allo sviluppo degli aspetti più compassionevoli della mente, il
risultato finale potrebbe essere quello di un cammino a livello inferiore. 

Allo stesso modo, se un altro soggetto si impegnasse esclusivamente nello sviluppo dei fattori
compassionevoli del cammino, senza preoccuparsi della saggezza e dell’intelligenza, non riuscirebbe
mai a migliorare il proprio atteggiamento altruistico, al quale mancherebbero sempre dei fattori
complementari. 

Possiamo quindi affermare che esistono due diversi approcci nella pratica del cammino buddhista. 
Uno si basa sullo sviluppo della comprensione dell’intera struttura del cammino buddhista e di come
la maggior parte degli elementi chiave si posizionino all’interno di una determinata struttura. 
L’altro, che potrebbe essere definito più individualistico, si fonda sul presupposto che un
individuo, non avendo piena comprensione della struttura generale del cammino buddhista, si limita a
seguire le indicazioni ricevute da un maestro esperto e qualificato.
Sulla fede cieca

D: Che cosa ne pensa della fede cieca per raggiungere l’Illuminazione?

R: Non aiuta certo ad andare lontano!
Sulla compassione e la dipendenza degli altri

D: Nel cercare di comportarci come uomini compassionevoli, quanto dobbiamo sentirci responsabili? 
Come dobbiamo agire nei confronti di un altro essere emozionalmente dipendente dalla nostra
compassione? 
È compassionevole ferire un nostro simile se siamo convinti che, a lungo termine, sia la soluzione
migliore?

R: La compassione deve andare di pari passo con la saggezza. È fondamentale giudicare con
intelligenza le conseguenze a breve e lungo termine delle proprie azioni.

Sul significato dell’azione individuale

D: Ognuno di noi capisce come le proprie azioni possano influire sulla propria vita. Queste stesse
azioni possono influenzare problemi a livello mondiale, come quello della fame e della povertà? E
come?

R: A volte riteniamo che l’azione di un individuo sia insignificante, perché siamo convinti che gli
effetti debbano derivare da un movimento unificante. 
Ma la società é composta da individui, dai quali deve prendere il via l’iniziativa, e se ogni
individuo non sviluppa un forte senso di responsabilità, l’intera comunità non può progredire. 
Per questo, non dobbiamo ritenere lo sforzo del singolo privo di significato.
Sui tempi di apprendimento del buddhismo

D: Agli occidentali che si avvicinano al buddhismo consiglia di procedere lentamente o di cercare di
imparare il più possibile e bruciare le tappe?

R: Dipende dal singolo individuo. In alcuni casi uno studio intensivo è più adatto e utile. Comunque
sia, non bisogna mai dimenticare che lo sviluppo spirituale richiede tempo, che non avviene nel giro
di ventiquattro ore.

D: Se lei avesse a disposizione tre desideri, che cosa chiederebbe?

R: È un segreto!
DIVERSI ASPETTI DELLA MORTE E DEL MORIRE
1- Sulla morte accidentale o improvvisa

D: Che cosa succede a chi muore di morte improvvisa, come in seguito a un incidente stradale?

R: In simili circostanze, l’individuo può trovarsi in uno stato di estrema ansia o shock, ma
generalmente lo stato mentale in cui si viene a trovare può essere definito neutro: né virtuoso, né
non virtuoso. 
Ciò che ho notato nei lavori di ricercatori che hanno condotto studi sul fenomeno della rinascita
basandosi sulla testimonianza di bambini che affermano di ricordare la loro vita passata é che, in
molti casi, la morte nella vita precedente é sopraggiunta improvvisa, a causa di incidenti
inaspettati. 
Ritengo che questo sia un punto da approfondire e da studiare attentamente.

Circa dieci anni fa, in India, ho conosciuto due ragazze le quali, nella loro vita precedente, erano
decedute improvvisamente. Una delle due ricordava in modo così dettagliato e preciso la sua vita
passata che persino i genitori della precedente vita l’avevano accettata come loro figlia,
permettendole così di avere quattro genitori! 
Mi chiesi se potesse esserci qualche collegamento: entrambe erano di sesso femminile ed entrambe
erano morte improvvisamente. 

Forse la mente femminile è più serena. Se così fosse, in futuro potrebbero esserci più
reincarnazioni fra le donne!
2- Sulle differenze fra una morte tranquilla e una improvvisa o violenta

D: Quali sono le differenze fra una morte tranquilla e una morte improvvisa e violenta?

R: Dal punto di vista del credente religioso la morte naturale è indubbiamente più auspicabile,
poiché c’è più tempo per pensare e praticare. 
Se il corpo è relativamente forte, le indicazioni sulla dissoluzione dei diversi elementi sono più
chiare e quindi la pratica diventa più semplice. 
Al contrario, se il fisico è molto indebolito a causa di una lunga malattia, le indicazioni possono
essere confuse. 

Nel buddhismo esistono alcune tecniche meditative, definite “trasferimento di coscienza”, alle quali
si dovrebbe fare ricorso solo all’ultimo momento, che permettono all’individuo di vivere i processi
di dissoluzione coscientemente e consapevolmente. 

Precedentemente a questo stadio sono percepibili altre indicazioni che possono aiutare a confermare
la certezza della propria morte. Quando tali indicazioni appaiono più volte e non è più possibile
tornare indietro, allora è possibile attuare le pratiche estreme come quella del trasferimento di
coscienza.
3- Sulla preparazione alla morte e lo stato di coma

D: Se si è preparati ad accettare la morte, è ininfluente il fatto che al momento del trapasso si
sia in coma? 
È possibile possedere la chiarezza di coscienza anche in stato comatoso?

R: Sebbene sia difficile giudicare la differenza fra i due stati, oserei dire che, probabilmente, se
ci si trova in stato comatoso, la capacità dell’individuo di comprendere le diverse indicazioni del
processo di dissoluzione ne risente molto. 
Nonostante al momento dell’effettivo processo di dissoluzione la capacità di comprensione non sia la
stessa che si possiede abitualmente, la volontà cosciente di distinguere i segni della dissoluzione
influisce sulle proprie capacità di restare consapevoli al momento della morte. 
Sarebbe interessante condurre alcuni esperimenti su questo fenomeno. Per esempio, scoprire se lo
stato comatoso influenza l’abilità di un esperto in meditazione nel mantenersi in uno stato di
Chiaroveggenza.

Alcuni anni fa un gruppo di scienziati è venuto a Dharamsala per condurre alcuni esperimenti.
Volevano studiare il processo di morte, così si presentarono con un macchinario particolare. In
quell’ultimo periodo si erano verificati casi in cui, dopo la morte, il corpo non si era decomposto
per una settimana e più, ma quando giunsero quegli studiosi non morì nessuno e così non poté essere
condotto alcun esperimento.
4- Sul modo di affrontare la sieropositività, la paura e la morte

D: Spesso chi è affetto da malattie quali l’AIDS è arrabbiato con il mondo intero e non riesce a
pensare alla morte con serenità. 
Che cosa può aiutare questi individui?

R Ha toccato un tasto dolente. L’atteggiamento della società stessa non è certo d’aiuto, poiché si
tende a emarginare i sieropositivi. Inoltre, gli stessi interessati sono scoraggiati e possiedono
pochissima forza mentale. 
Ma chi professa una fede, come quella buddhista, sa che questa è soltanto una vita e che la fine non
è eterna. 
Inoltre, gli eventi e le esperienze di questa vita sono dovuti al nostro karma, non necessariamente
di esistenze precedenti, ma anche in seguito ad azioni compiute in questa esistenza. 

Secondo la legge di casualità, le esperienze sfortunate dipendono da nostre azioni precedenti.
Riflettere su questi particolari può essere di consolazione e aiuto.
Ho conosciuto alcuni praticanti tibetani che mi hanno raccontato le loro esperienze. Alcuni pazienti
avevano chiesto al medico un parere onesto e sincero sulle possibilità di cura della loro malattia
e, nel caso, quanto restava loro da vivere. Una volta saputo che il tempo a loro disposizione era
ormai poco, quei pazienti si erano sentiti quasi sollevati, poiché ora potevano riorientare la loro
vita e comprenderne le priorità. 
La fede può quindi esserci di grande aiuto.
Sull’eutanasia
D: Nel caso di pazienti agonizzanti e ormai allo stadio terminale di una malattia, ritiene che
l’eutanasia sia giusta?

R: È difficile dirlo e, comunque, ogni caso va considerato singolarmente. 
Dal punto di vista buddhista, poiché simili situazioni sono provocate dal karma passato, o da azioni
passate, prima o poi si devono vivere simili esperienze dolorose. 
In tal caso è meglio soffrire finché si è uomini, poiché per lo meno ci sono medici e infermieri
pronti a prendersi cura di noi. Se tutto ciò accade in altre forme di vita, la stessa esperienza
potrebbe essere senza speranza.

D’altro canto, se un uomo si trova in stato comatoso da lungo tempo e non esistono speranze di
guarigione, la sua sopravvivenza diventa molto costosa, e da qui possono avere origine altri
problemi e difficoltà. 
Non è comunque possibile generalizzare il problema, poiché ogni caso è diverso dall’altro e come
tale va trattato.

C’è chi potrebbe vedere una certa analogia fra la pratica della dolce morte e quella buddhista del
trasferimento di coscienza, con la differenza che il trasferimento di coscienza è praticato su se
stessi. 
Anche gli obiettivi sono diversi. Il motivo che porta all’eutanasia può essere quello di strappare
l’individuo a una lenta e dolorosa agonia, mentre, per quanto riguarda il trasferimento di
coscienza, si é spinti dal desiderio di garantire alla persona l’opportunità di utilizzare
l’occasione della morte prima che gli elementi corporei raggiungano quello stadio in cui le
indicazioni del processo di dissoluzione non sono più percepibili.
Sul dolore della morte

D: Come bisogna comportarsi nei confronti del dolore al momento della morte?

R: Un credente, grazie alla fede e alla pratica, può superare senza problemi un momento simile, ma
per tutti gli altri non saprei proprio che cosa potrebbe essere di aiuto. Ecco perché, fin
dall’adolescenza, le pratiche religiose sono utili, indipendentemente dal fatto che l’individuo sia
qualificato o meno. 
Bisogna familiarizzare con esse per saperle utilizzare al momento opportuno. 

Chi é convinto che non sia necessario dedicarsi seriamente alla pratica religiosa fino a quando non
ci si trova a dover fronteggiare gravi situazioni, nel momento del bisogno si troverà in gravi
difficoltà e si renderà conto che é ormai troppo tardi per correre ai ripari.

Fondamentale é la familiarità dell’individuo con i diversi tipi di pratica. Per esempio, chi si è
esercitato in tecniche quali quella della meditazione sull’amore e sulla compassione, la meditazione
sulla “non identità” dei fenomeni e la meditazione sulla natura transitoria dell’esistenza, e sa che
cosa significa dare e prendere (dare la propria ricchezza e felicità agli altri e accollarsi il
dolore e la sofferenza altrui), al momento della morte sarà in grado di concentrarsi su una
particolare pratica, giungendo ad avvertire meno il dolore fisico. 
Ma a chi manca la conoscenza della pratica religiosa é difficile poter consigliare un metodo per
superare il dolore in punto di morte.
Sul karma e l’accanimento terapeutico

D: Riagganciandosi a ciò che ha affermato sul karma, quali sono le responsabilità karmiche di un
medico che interferisce o impedisce al processo di morte di attuarsi e prolunga la vita di un
paziente inutilmente?

R: Non vedo alcuna contraddizione fra l’impegno professionale di un medico per tenere in vita un
paziente e le responsabilità karmiche coinvolte in tale azione, poiché la morte, dal punto di vista
buddhista, é il risultato di diversi fattori, non solo del karma. 
Si potrebbe parlare di esperienza di morte come risultato di conseguenze karmiche nel caso in cui le
potenzialità karmiche fossero state esaurite. 
A volte la morte può essere prematura, come conseguenza di condizioni circostanziali; altre volte
ancora, si può esperimentare la morte, non a causa dell’esaurimento dell’utilizzo di un karma, ma a
causa dell’esaurimento del potenziale meritevole. 
Esistono inoltre diversi tipi di malattie: le malattie provocate karmicamente e le malattie per le
quali la causa primaria è esterna o interna. 

Con morte provocata karmicamente ci si riferisce a quelle situazioni in cui, nonostante si faccia
tutto per combattere la morte, non è possibile evitarla. 
Inoltre, in caso di morte improvvisa, dove le condizioni sono considerate esterne, il karma riveste
ancora una volta un ruolo importante. Per esempio, il fatto che si possa prolungare la vita di un
individuo, che vi siano le condizioni necessarie, è, in un certo senso, una conseguenza del karma.

Ho notato spesso che le persone non hanno il coraggio di prendere l’iniziativa e che tendono a
utilizzare il karma come una scusa. È un atteggiamento che ritengo assolutamente scorretto. 
Siamo infatti noi stessi, con le nostre azioni, a creare il karma. Per esempio, se desidero scrivere
qualcosa, la mia azione determina nuove circostanze, nuove cause e risultati. 
Ancora una volta si parla di causa ed effetto. 

Il karma non è un’energia indipendente. Nella nostra vita tutto avviene attraverso l’azione. Azione
che provoca un risultato. Azione che è soltanto nostra.

Anche chi ha accumulato del karma negativo può, attraverso l’azione, trasformarlo in karma
virtuoso. 

Un vero buddhista è convinto dell’esistenza della Natura di Buddha, che permette di ottenere lo
stato di Illuminato, uno stato di perfezione. Allo stesso modo un qualsiasi individuo deve
convincersi di poter superare e sconfiggere svariati problemi.

La teoria o dottrina del karma è piuttosto complessa, perciò è sbagliato generalizzare sostenendo
che ogni cosa è un prodotto o una conseguenza del karma. 
Per esempio, nel caso del mio corpo attuale, il fatto che la mia mano sia intimamente legata alla
mia esperienza e alle mie sensazioni fisiche di dolore e piacere è assolutamente evidente. Ma se
dovessimo risalire alla causa fisica che ha prodotto questa parte del mio corpo, dovremmo risalire
alla notte dei tempi. La mano è il prodotto di un fenomeno materiale, che a sua volta risale a uno
stato precedente e precedente ancora, fino a raggiungere uno stato in cui è un atomo o una
particella pura. 

La letteratura buddhista definisce tecnicamente tale particella una “particella spaziale”. Come
risultato di un processo di evoluzione durato miliardi di anni, quella piccola particella si è ora
trasformata in questo corpo fisico che emette sensazioni di dolore e piacere. 
Il fatto che questo corpo sia il mio corpo può essere ritenuto come un risultato del karma, ma il
fatto che questo corpo sia la conseguenza dell’infinito continuo di particelle materiali non può
essere considerato come un prodotto del karma, bensì come un prodotto sviluppatosi secondo una legge
di natura. 

Gli oggetti materiali derivano da cause materiali.
Allo stesso modo, quando pensiamo alle differenze fra mente e corpo, scopriamo che esistono alcune
caratteristiche fondamentali che distinguono queste due entità. 
Per esempio, i fenomeni materiali hanno determinate caratteristiche che li rendono fisici: sono
ostruttivi; mentre i fenomeni mentali sono caratterizzati da una natura chiara, luminosa,
conoscitiva, ma, non essendo fisici, non sono ostruttivi. 

Il fatto che questi due elementi esistano in modo così contrastante è dato da una semplice legge di
natura e non certo dal karma.

La letteratura buddhista Mahayana prende in considerazione questa complessità della realtà e mostra
come esistano diversi modi per accostarsi alla natura della realtà, per la cui comprensione la
religione buddhista si basa su quattro principi. 

Uno è il principio della deduzione logica, che può essere applicato sulla base della nostra
comprensione della natura ultima della realtà, ma solo se esiste una determinata connessione causale
fra i fenomeni (un elemento dà origine a un altro elemento). 
Sulla base di tale principio di dipendenza è possibile applicare la deduzione logica.

Il principio di dipendenza è inoltre possibile perché, per esempio, la materia e la mente, o la
materia e la coscienza, hanno diverse caratteristiche. 
Tali differenze esistono per una semplice legge di natura, definita dalla letteratura buddhista
Mahayana, principio della Legge Naturale. 
Prendendo in considerazione tale complessità della natura della realtà, dobbiamo avvicinarci alla
comprensione della natura della realtà seguendo diversi ragionamenti. 
Determinare l’influenza del karma diventa quindi difficile. Sebbene si possa affermare che molto di
ciò che noi sperimentiamo è una conseguenza del karma, stabilire fino a che punto giunga la sua
influenza e quanto dipenda da un semplice meccanismo della legge naturale è veramente complicato.
Sul modo di affrontare la morte di persone care

D: La religione buddhista insegna ad affrontare la propria morte con pace e serenità. E come si pone
nei confronti della morte di persone amiche?

R: Non lo so. Quando è morto mio fratello ho provato una profonda tristezza. Eravamo molto legati e
ancora oggi mi chiedo dove si trova, se in questo mondo o in un altro.
Sullo stadio mentale intermedio fra la morte e la rinascita

D: Lei ha parlato di uno stato mentale intermedio fra la morte e la rinascita. Si tratta di uno
stato legato a processi fisici e biologici o completamente indipendente da essi?

R: Dalle scritture risulta chiaro che si tratta di uno stato intermedio slegato dalla fisicità
corporea. Viene descritto come un essere con un corpo che, per natura, è energia sottile; un corpo
quindi privo di fisicità, ma che possiede una sorta di forma e colore. 
Questo corpo si dice assomigli a quello di un sogno. 

Alcuni maestri riescono, nello stato di sogno, ad assumere un corpo di sogno, che viene definito
molto simile a quello di un essere allo stato intermedio. 

Esistono individui in grado di sperimentare naturalmente un corpo di sogno e altri in grado di
provarlo deliberatamente.

Lei mi ha chiesto di parlare dell’energia sottile o di alcuni aspetti della mente sottile. Gli
uomini vedono i colori e le forme. È una questione complicata, ma a parer mio esistono i cinque
elementi esterni e i cinque elementi interni, e all’interno di questi ultimi si trovano il livello
più grossolano dei cinque elementi e gli elementi più sottili. 
Nella base più sottile si trova la Chiaroveggenza, che rappresenta un aspetto, mentre l’altro e
costituito dall’energia sottile. 
In tale energia è contenuto il seme dei cinque elementi. 
Perciò quando parliamo della Chiaroveggenza come un fondamento di tutta l’esistenza è perché esiste
una sorta di legame con le cose esterne e materiali. 

La letteratura buddhista tibetana cita una particolare forza, definita tecnicamente l’Energia con
Cinque Radianze, e sono convinto si possa rilevare una sorta di collegamento fra il mondo
macroscopico della nostra esperienza quotidiana e quello microscopico dell’energia sottile. 
Il legame esistente può essere assimilato, comprendendo la natura di tale forza citata nelle
scritture. 

Fondamentale è cercare di scoprire se esiste un rapporto significativo fra questa particolare forza
e ciò che ho descritto come particelle spaziali.

D: Leggendo il Libro Tibetano dei Morti è possibile conoscere e comprendere i processi di morte?

R: Sicuramente aiuta molto. 
Per quanto riguarda le diverse caratteristiche dello stato intermedio si trovano numerose divergenze
fra la letteratura Abhidabram e quella tantrica. Per avere quindi una visione più completa,
consiglio di leggere più testi. Comunque, la maggior parte delle visualizzazioni e delle visioni
descritte nel Libro Tibetano dei Morti possono essere considerate più specifiche per un praticante
di divinità conosciute come il mandala delle divinità irate e serene.
LA SITUAZIONE IN TIBET – Sul rapporto con la popolazione cinese non buddhista nel Tibet

D: Se lei tornasse in un Tibet indipendente, pensa che sarebbe difficile conciliare il principio
buddhista della compassione con il governare un paese abitato in gran parte da cinesi non buddhisti?

R: Negli ultimi vent’anni ho notato un’incredibile degenerazione nella cultura e nello stile di vita
tibetano. Il pericolo sembra annidarsi non solo fra i cinesi, ma anche fra i tibetani. 
Il comportamento di alcuni miei giovani compatrioti fuggiti dal Tibet mi preoccupa molto. Per
ottenere ciò che volevano hanno fatto ricorso alla violenza e, ultimamente, vi sono stati un paio di
casi di omicidio in cui erano coinvolti giovani fuggiaschi tibetani. La loro motivazione è
indubbiamente giusta, ma c’è una tale degenerazione nel loro comportamento! 

Comincio a preoccuparmi seriamente e ogni giorno mi chiedo che cosa stia realmente accadendo nel mio
paese.
Purtroppo questa è la realtà e non possiamo fare altro che affrontarla.
Quando però riconquisteremo la libertà di parola, di pensiero e di movimento, riusciremo a
minimizzare simili problemi. Quando il Tibet tornerà un paese libero, io non sarò più il capo del
governo tibetano. Abbiamo infatti redatto un documento ufficiale nel quale si afferma che, appena il
Tibet riacquisterà la propria indipendenza, verrà formato un governo ad interim al quale io cederò i
miei poteri. Nel giro di due anni, quel governo dovrà formare l’Assemblea del Popolo Tibetano e
redigere la costituzione del paese.
Sul ruolo futuro del Dalai Lama nel Tibet

D: Ha appena affermato che il comportamento dei giovani tibetani è per lei fonte di viva
preoccupazione. Perché allora ha deciso di rinunciare alla sua posizione in un momento in cui i
giovani sembrano avere bisogno più di una guida spirituale che politica?

R: Il fatto che non sarò più il capo del governo tibetano non significa che rinuncerò alle mie
responsabilità e impegno morale. Essendo tibetano e godendo della fiducia del mio popolo, è mio
preciso dovere aiutare il mio prossimo fino alla morte. 
Uno dei motivi per cui non voglio responsabilità governative è legato alla mia età anagrafica: ho
ormai cinquantasette anni e, sebbene speri di poter essere attivo ancora per una ventina di anni,
dopo sarò troppo vecchio. 
Comunque, all’interno della comunità in esilio in India stiamo già mettendo le basi del sistema
democratico. Entro i prossimi vent’anni, la democrazia dovrà essersi consolidata.
Inoltre, il fatto che io continui a rappresentare la massima autorità potrebbe diventare un ostacolo
per un sano sviluppo della democrazia. Perciò ho deciso di restarne fuori. 
A tutto ciò si aggiunge un altro vantaggio: se rimanessi a capo del governo e sorgessero problemi
fra il governo centrale e i singoli gruppi, la mia presenza potrebbe creare ulteriori complicazioni,
mentre agendo al di fuori del governo potrei darmi da fare per cercare di risolvere importanti e
delicate questioni.
Infine, non voglio trovarmi a vivere in un ambiente legato a etichette e cerimoniale. Voglio poter
essere libero di andare dove desidero senza dovermi preoccupare del protocollo. 
Queste sono le ragioni che mi hanno spinto a prendere una simile decisione. Tengo comunque a
sottolineare ancora una volta che rinunciando alla mia posizione di capo del Tibet non intendo
scaricarmi delle mie responsabilità.
Sul ricorso alla violenza per liberare il Tibet

D: Non pensa che per salvare il Tibet e alleviare le sofferenze del suo popolo varrebbe la pena
sacrificare le sue convinzioni nei confronti dell’utilizzo della violenza?

R: Assolutamente no. Un’azione simile farebbe nascere soltanto altra violenza. Certo otterremmo
molta pubblicità che, forse, potrebbe esserci d’aiuto. Ma il fatto è che la Cina e il Tibet devono
vivere una accanto all’altro, che ci piaccia o no. Perciò, per poter vivere in pace e armonia in
futuro, è essenziale lottare senza ricorrere alla violenza.
Inoltre, la soluzione definitiva del problema deve essere trovata dai cinesi e dagli stessi
tibetani. Per questo abbiamo bisogno dell’appoggio del popolo cinese. 
In passato abbiamo sempre mantenuto un atteggiamento contrario alla violenza, ottenendo così
l’appoggio di molti cinesi, non solo di quelli residenti in Tibet, ma anche di quelli residenti
nella madre patria. Con il passare del tempo, sempre più cinesi esprimono simpatia e apprezzamento
per il nostro comportamento. 
Se i tibetani prendessero le armi, perderemmo un simile sostegno che, sono convinto, è di estrema
importanza.
Sul contributo alla causa del Tibet

D: Che cosa vorrebbe che facesse il pubblico presente per aiutare la causa tibetana?

R: Sebbene sia molto felice dell’appoggio che stiamo ricevendo da Stati Uniti e Gran Bretagna,
abbiamo ancora bisogno di molto aiuto. La questione tibetana non interessa soltanto i diritti
dell’uomo, ma anche problemi riguardanti l’ambiente e la decolonizzazione. 
Al momento, la questione più pressante é quella del trasferimento della popolazione cinese. 
Ciò di cui abbiamo bisogno è un aiuto pratico per fermare tale stravolgimento demografico. In
qualsiasi modo vogliate aiutarci, ve ne saremo immensamente grati.

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