CARL GUSTAV JUNG – parte 2

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CARL GUSTAV JUNG

a cura di Anna Rita Fabbri

parte 2

Il rapporto con Freud

Verso il 1906, Jung aveva scoperto l’opera di Freud e preso pubblicamente posizione in favore della
psicanalisi.
Freud è stato indubbiamente l’artefice di una vera rivoluzione copernicana della concezione della
natura umana. Partendo dalla nota teoria fisica in base alla quale “nulla si crea, nulla si
distrugge e tutto si trasforma”, per primo postulò che l’energia, laddove è negata, rimossa o
relegata nell’inconscio, è pronta a riemergere da qualche altra parte. Si rese conto cioè che quello
che vediamo e conosciamo dell’uomo è solo la “sovrastruttura” e fu tra i primi ad operare con gli
strumenti della letteratura e della mitologia per arrivare alla “struttura”. In un periodo in cui si
cominciava a parlare di “superuomini”, la malattia psichiatrica era vista come una tara ereditaria;
Freud invece parlò di impulsi rimossi e di ricordi traumatici. Fu la liberazione da un pesante
destino biologico, la sensazione di non essere condannati senza appello; in una parola egli
distrusse ogni netta distinzione fra sanità mentale e follia.

Jung considerò Freud “il primo uomo veramente notevole che avesse incontrato fino a quel momento,
dotato di un’intelligenza acuta, fuori dall’ordinario e mai banale. Dal canto suo Freud era molto
interessato al lavoro di Jung. Però Jung aveva il vantaggio, rispetto al maestro, di non essere
ebreo: fu così eletto primo presidente della Società Psicanalitica Internazionale, divenendo anche
redattore del giornale psicoanalitico Jahrbuch diretto dallo stesso Freud. Nonostante queste
investiture, che portavano a considerare Jung come l’erede legittimo della psicanalisi, nel 1912 si
consumò la rottura con il grande maestro.

In “Metamorfosi e simboli della libido” – opera in cui Jung descrive il suo concetto di psiche umana
– diversi punti erano in opposizione con il pensiero di Freud, in particolare gli contestava il
primato della sessualità nei processi psichici. Le divergenze cominciarono però già nel 1909 durante
il viaggio che fecero insieme negli Stati Uniti per tenere un ciclo di lezioni alla Clark
University. Freud, ritenendo evidentemente che Jung accettasse le sue idee senza riserve, adottava
spesso atteggiamenti paternalistici che Jung poco sopportava. Racconta Jung, nella sua
autobiografia, che durante il viaggio si analizzavano reciprocamente i sogni che facevano; ma alla
richiesta di Jung di svelare qualcosa della sua vita privata, per riuscire a meglio interpretare il
sogno, c’era un’immediata chiusura da parte del maestro, probabilmente timoroso di mettere in
discussione la propria autorità.

Un’altra grande divergenza emerse durante una conferenza alla Fordham University di New York, dove
Jung sfidò apertamente le teorie del maestro, reinterpretando ogni cosa e adattandola a quella che
era la sua idea di analisi. Sostenne, infatti, che i disturbi psicotici e la schizofrenia non
potevano essere spiegati da traumi di natura sessuale. Dalla sua esperienza era giunto a pensare che
la perdita totale del senso di realtà che caratterizza queste due malattie era così estrema da
implicare la perdita di altre forze istintive il cui carattere sessuale andava negato poiché –
secondo Jung – nessuno poteva affermare che la realtà fosse una funzione del sesso. Fu a questo
punto che Freud cominciò a considerarlo un vero traditore.

I due uomini rimasero profondamente feriti da questa rottura, perché la loro delusione fu grande
quanto le reciproche aspettative. La fine dei rapporti tra loro fu inevitabilmente seguita da uno
“scisma” tra le due scuole analitiche che rese quasi impossibile ogni serio confronto tra esse.
Contrariamente a quanto si pensa comunemente, infatti, i due maestri non erano “contro”,
semplicemente si sono posti come osservatori della psiche in modo diverso. Del resto, quando si
parla di psiche, è pressoché impossibile non vedere sempre nuove sfaccettature.
Indubbiamente un ruolo importante, nel dissidio tra i due maestri, è da imputarsi alla loro
differenza di età che portò, soprattutto Jung, al bisogno di differenziarsi, come lui stesso
racconta:

“Spesso, in precedenza Freud aveva fatto ripetute allusioni a me come al suo successore. Queste
allusioni mi erano penose, poiché sapevo che non sarei mai stato capace di sostenere le sue teorie
correttamente, e cioè come le intendeva lui. D’altro canto non mi era ancora riuscito di elaborare
le mie critiche in modo tale che egli potesse prenderle in considerazione, e il rispetto che avevo
per lui era troppo grande per costringerlo ad un confronto definitivo con le mie idee. Ma l’idea
che, senza la mia accettazione, mi fosse imposto il peso di dirigere un partito mi era per più
ragioni sgradevole. Non lo desideravo, non potevo sacrificare la mia indipendenza spirituale, e un
tale onore mi sarebbe stato assai poco gradito, poiché mi avrebbe soltanto allontanato dai miei veri
scopi. Il mio interesse era la ricerca della verità, e questo non aveva nulla a che fare con
questioni di prestigio personale.”

In queste righe si può leggere fortemente il bisogno di soggettività di Jung, il bisogno di
differenziarsi senza accettare qualcosa che non era suo, che non gli apparteneva e che non avrebbe
quindi potuto sostenere, nonostante in molte cose il pensiero dei due maestri convergeva: lavorando
entrambi direttamente a contatto con pazienti gravi ebbero modo di comprendere appieno il materiale
inconscio che emergeva dai sogni, dai deliri, dalle immagini e dai traumi, e di comprendere quindi
che tutto ciò rappresentava un “sintomo” che cercava di manifestare la presenza di qualcosa.

L’ipotesi di Freud, che teorizzò il processo di rimozione considerandolo all’origine della
costituzione dell’inconscio come campo separato dalla parte cosciente del cervello, rimane tuttora
il modello più valido per spiegare molti fenomeni della vita psichica. Jung, quindi, ampia il
concetto di inconscio freudiano come sola sede dell’irrazionale, dei conflitti rimossi e delle
esperienze inaccettate. Anche il concetto di libido è diverso nei due maestri: Freud riconosce la
libido nella forza sessuale, che in modo più o meno palese ritiene coinvolta in tutte le produzioni
della psiche. Per Jung la libido ha un valore estremamente diverso: è un moto, una forza che opera
sul sistema totale della psiche sia in modo astratto che concreto attraverso le pulsioni, gli
affetti, la volontà e il comportamento. La libido, ancora, è l’energia vitale che condiziona tutti i
fenomeni viventi.

Occorre considerare, a questo riguardo, che Freud trattò prevalentemente pazienti nevrotici, mentre
Jung trattò prevalentemente pazienti psicotici. La psicosi è una delle forme più difficili e più
profonde di sofferenza mentale; in questi pazienti non è presente un Io che possa fornire un esatto
esame della realtà. Proprio per questo, Jung arrivò alla conclusione che l’inconscio non era solo il
passato rimosso ma anche una serie di esperienze e patrimoni archetipici dell’intera umanità, perché
i contenuti psichici di questo tipo di pazienti erano troppo lontani dal vissuto personale degli
stessi. Studiando la mitologia verificò che molti simboli mitologici erano presenti nelle visioni
dei suoi pazienti psichiatrici. Cominciò quindi ad interrogarsi su queste apparenti coincidenze ed
arrivò ad ipotizzare che l’inconscio potesse trattenere “residui arcaici” che si strutturavano in
immagini collettive ereditate e collegate a mitologie lontane, dimenticate dalla coscienza, ma
sepolte nell’inconscio stesso.

Insomma i suoi studi a diversi livelli, non ultimi il suo interesse per l’Astrologia, per il
simbolismo dei Tarocchi e per il mondo esoterico, lo allontanarono sempre più da Freud fino ad
arrivare alla rottura definitiva. Per Jung iniziò un periodo molto difficile. Fra il 1914 e 1919 si
allontanò anche dall’università, pronto ad affrontare il proprio inconscio personale con tutti i
pericoli di cadere in quella psicosi che conosceva bene, avendola vista e studiata nei suoi
pazienti. Aveva 39 anni e aveva perso ogni interesse per i testi scientifici.
In questo periodo Jung ebbe una serie di sogni e di visioni che anticiparono la Prima Guerra
Mondiale; ciò lo portò a comprendere che i sogni non erano solo qualcosa di personale, ma potevano
includere anche l’esperienza collettiva, e comprese, ancora, l’esistenza di sogni premonitori che
egli definì “profetici” poiché indicavano la capacità dell’inconscio di anticipare alcuni eventi.
Questi sogni furono da lui visti come una combinazione anticipatoria di probabilità; essi potevano
coincidere con l’effettivo verificarsi di un fatto, anche se tale fatto poteva non essere identico
in dettaglio.

Egli non accettava che il sogno venisse considerato solo come manifestazione di un desiderio
represso. Vedeva per esempio la possibilità che il sogno fosse un atto compensatorio della psiche,
un meccanismo di autoregolamentazione, paragonabile al meccanismo omeostatico del corpo. Per Jung
quindi, i sogni erano un mezzo per venire in contatto con l’inconscio e poiché nessuna persona è
identica all’altra, il significato del sogno doveva essere cercato in base a quello che il sognatore
era realmente: “conoscere il soggetto è di fondamentale importanza, poiché il sogno è un suo
prodotto, il sogno è il sognatore”.

Per Jung, l’incontro con il proprio inconscio, fu anche quello con personaggi biblici come Elia e
Salomè. Fu l’incontro con immagini tra cui la più conosciuta è Filomene, con la quale si scopriva
spesso a parlare di filosofia. Da un punto di vista psichiatrico Filomene era una fantasia, un
sintomo psicotico simile a tutte le voci che sentono gli schizofrenici. Da un punto di vista
psicologico, invece, Jung la considerava “un’immagine archetipica dello spirito”, una di quelle
immagini che aveva verificato giungere dall’inconscio e che potevano turbare molto un malato di
mente. Egli definì questo mondo sommerso “la matrice mitopoietica” scomparsa dalla nostra epoca
troppo razionalistica; matrice sempre presente anche se temuta dalla psiche cosciente.

Nel 1919, Jung usò per la prima volta il termine “archetipo” per nominare queste immagini affioranti
dall’inconscio e fu in questo momento che parlò per la prima volta di un Inconscio Collettivo
formato da due componenti: istinti e archetipi. Gli istinti determinano le azioni; sono impulsi,
cioè, che realizzano le azioni secondo una necessità ed hanno una componente biologica. Allo stesso
modo egli ipotizza che vi siano modi di comprensione inconsci, innati, che regolano la nostra
percezione: gli archetipi che sono necessariamente determinanti di ogni processo psichico. Così come
gli istinti determinano le azioni, gli archetipi determinano le nostre percezioni. Entrambi sono
collettivi perché hanno a che fare con contenuti universali ereditati oltre il mondo personale e
individuale. Il modo in cui percepiamo una situazione (archetipo) determina il nostro impulso ad
agire. La percezione inconscia, attraverso l’archetipo, determina la forma e la direzione
dell’istinto, l’impulso ad agire (istinto) determina anche come noi percepiamo una situazione
(archetipo). L’archetipo però, può essere solo dedotto; l’immagine archetipica, invece, penetra
nella coscienza e diventa la nostra percezione dell’archetipo stesso.

La psicologia analitica

Jung decise di chiamare il suo metodo “psicologia analitica” per distinguerlo dalla psicanalisi
freudiana. Attorno a lui aveva ormai molti allievi, molti dei quali intrapresero il training per
diventare analisti. Egli continuò per tutta la vita a metterli in guardia sui pericoli dell’uso di
un solo metodo analitico.

Tre sono i cardini della sua scuola:

1) L’analisi è una relazione a due e ogni caso è unico. Solo chi ha fatto su di sé l’esperienza
della malattia può curare gli altri.

2) In chirurgia e in medicina il medico deve avere le mani pulite: un analista deve essere sicuro di
essere ripulito dalle sue nevrosi.

3) La promozione di un training di analisi per terapeuti e un’ulteriore supervisione da parte di un
“padre confessore” (celebre, a questo proposito la frase di Jung: “anche il Papa deve avere un
confessore”).

Tre, anche, le cose da evitare:

– perdersi dietro ai ricordi inutili;

– tralasciare la componente spirituale;

– tralasciare la storia segreta del paziente.

La psicologia analitica vede nella psiche una struttura dinamica. Con il termine psiche, Jung
intende tutto il nostro essere conscio ed inconscio che definisce “teleologico”, cioè in costante
bisogno di crescita, di completezza e di equilibrio. Questo essere “teleologico” è distinto dal Sé,
che invece rappresenta la meta verso cui la psiche è orientata e che è, secondo Jung, l’archetipo
centrale.

La parte inconscia della psiche serve a compensare l’attività cosciente: quando l’attività conscia è
troppo unilaterale e consapevole, la controparte inconscia si manifesta autonomamente per correggere
lo squilibrio: i contenuti inconsci repressi accumulano una carica energetica tale da riuscire a
manifestarsi sotto forma di sogni, immagini, oppure di patologie.

Le componenti inconsce possono manifestarsi anche sotto forma di proiezione in qualche cosa di
esterno. Tutto ciò comporta una risposta emozionale di grande intensità, spesso eccessiva, verso
qualcosa o qualcuno: quando accade dobbiamo pensare che un contenuto inconscio sta cercando una
strada per “farsi notare” dalla coscienza; non riuscendo però ad aprirsi un varco può attivarsi solo
all’esterno mediante la proiezione su un’altra persona. Certo è che a questo punto noi non amiamo od
odiamo l’altra persona, ma amiamo od odiamo quella precisa parte di noi.

Jung studiò a lungo le direzioni dell’energia psichica e sviluppò la teoria dei tipi psicologici
secondo cui l’energia psichica stessa si manifesta con due modalità: estroversa ed introversa. La
prima è caratterizzata dall’apertura del soggetto verso l’oggetto: pensare, sentire ed agire sono in
relazione a fattori esterni oggettivi; l’energia, quindi, fluisce verso il mondo. La seconda è
caratterizzata da una concentrazione dell’interesse del soggetto per sé stesso: pensare, sentire ed
agire sono in relazione a fattori soggettivi; l’energia si ritira dal mondo. Estroversione ed
introversione sono reciprocamente esclusive: se una rappresenta l’atteggiamento cosciente abituale,
l’altra agirà inconsciamente in modo compensatorio; per esempio, se l’atteggiamento cosciente è
troppo rigido, l’inconscio tenderà ad aprirsi una breccia tesa a creare una frattura
nell’unilateralità.

La coscienza quindi, non è che una parte della totalità della psiche. Può essere paragonata ad un
piccolo atollo che nuota nel mare dell’inconscio. Al centro dell’atollo c’è una sorta di roccaforte
che noi chiamiamo Io e che può essere considerata quella piccola parte delle psiche che deve
permettere un adattamento alla realtà esterna.

L’Io, quindi, è un insieme di rappresentazioni che costituiscono il campo della coscienza personale
e che consentono di mantenere il senso della continuità e dell’identità con sé stesso. Oltre all’Io
e al campo della coscienza, vi è l’inconscio personale, rappresentazione di tutto ciò che sta
leggermente sotto la soglia della coscienza stessa, che Freud definì come pre-conscio, vale a dire
ciò che è dimenticato e che può essere riportato in superficie con uno sforzo di volontà e
attraverso le libere associazioni. Attorno all’inconscio personale vi è poi l’inconscio collettivo,
i cui contenuti non sono né conosciuti né specifici per l’Io, perché non derivano da esperienze
personali ma da una sorta di eredità del passato umano, come una “struttura cerebrale ereditata”.

Cercando di visualizzare la struttura della psiche secondo Jung, possiamo immaginare l’atollo
dell’Io che emerge dalla totalità del mare protetto da una barriera corallina. La terra ferma è l’Io
con tutti i suoi abitanti: è la coscienza. Il tratto tra l’atollo e la barriera corallina è una
laguna che possiamo invece paragonare all’inconscio personale. Al di là della barriera corallina vi
è il mare aperto dell’inconscio collettivo. Dentro la laguna troviamo pesci che conosciamo, che
possiamo assimilare ai nostri contenuti consci, quelli che nutrono l’Io e quindi, metaforicamente,
possiamo immaginarli come gli abitanti dell’atollo. Oltre la barriera corallina ci sono invece pesci
molto più grandi e per lo più sconosciuti, che non hanno mai attraversato la barriera: qui c’è la
vera vita, ma per conoscerla occorrerà avere il coraggio di abbandonare le sicurezze che troviamo
all’interno della barriera.

Questo sistema non è statico, bensì dinamico, in costante movimento; è un sistema che tende ad
autoregolarsi alla ricerca dell’armonia tra conscio e inconscio. Quando questa armonia non si trova
oppure si rompe, si avranno manifestazioni evidenti di squilibri psichici o fisici più o meno gravi.
Jung individua nel sogno una straordinaria via per raggiungere l’inconscio e riconoscere la sua
attività di autoregolazione della coscienza. I sogni, infatti, sono caratterizzati spesso da un
linguaggio arcaico, pre-logico e simbolico, in cui non vi è traccia del sistema spazio-tempo;
insomma, ci fanno nuotare nel mare aperto dell’inconscio alla scoperta di quei pesci che ancora non
conosciamo.

Ovviamente l’inconscio collettivo è molto più antico della coscienza individuale, e quindi comprende
contenuti che rappresentano potenzialità, comportamenti e modi di reagire che appartengono
all’umanità fin dai suoi esordi: Jung specifica che tutto ciò avviene in quelle tipiche situazioni
quali la paura, il pericolo, la lotta contro le forze della natura, le relazioni tra i sessi o tra
genitori e figli, di fronte all’odio, all’amore, alla vita e alla morte, indipendentemente dalle
differenziazioni di momenti storici e dalle differenziazioni etniche o di altro genere. Queste
modalità di reazione, quindi, fanno parte del bagaglio psichico ereditato dai nostri antenati e le
possiamo ritrovare nei Miti, nelle immagini religiose, nei rituali, nelle esperienze collettive;
sono il patrimonio comune dell’intera umanità. Jung paragona questo patrimonio ad un grande pozzo da
cui ognuno di noi attinge contenuti che poi rende individuali: siamo tutti eredi di una memoria
inconscia che ha alla base i sedimenti delle esperienze fondamentali dell’uomo dall’inizio della
propria storia evolutiva.

Queste intuizioni junghiane furono il frutto dell’analisi degli esperimenti di un biologo inglese,
Rupert Sheldrake, che nel 1981 ipotizzò l’esistenza di una realtà che trascende le determinazioni
spazio-tempo dell’esistenza e che definì “campo morfogenetico”, considerandola simile all’inconscio
collettivo junghiano e riconducibile ad un modello di risonanza, che va ad influenzare le esperienze
simili vissute in tempi successivi, come se si depositasse in una specie di memoria collettiva e
universale che viene attivata ogni volta che si verifica un evento analogo. In sintesi questa teoria
sostiene che quando un membro di una specie raggiunge una certa qualità o specialità, da quel
momento in poi tutti i membri della stessa specie potranno potenzialmente raggiungere la stessa
specialità o quanto meno l’apprendimento di quel tipo di specialità sarà più facile rispetto a chi
l’ha affrontata, invece, per la prima volta.

E’ indubbio che il concetto di inconscio collettivo, così come formulato da Jung, cioè con la
funzione di consentire risposte di adattamento utili per la sopravvivenza, è molto vicino al
concetto darwiniano che sostiene che l’individuo più adattabile all’ambiente finirà con l’essere
avvantaggiato rispetto agli altri e quindi avrà più probabilità di sopravvivere e di continuare ad
espandere i suoi geni. Quindi l’inconscio collettivo è come una funzione adattiva della psiche umana
di fronte a paure, angosce e situazioni che minacciano la disintegrazione e il senso di continuità
della stessa.

La psicologia junghiana aiuta l’individuo a dare un senso al mondo grazie alla capacità di
rapportarsi al simbolo, riuscendo così a dare maggiore pienezza e spessore alla personalità. L’uomo
occidentale, che non è più in grado di interpretare il simbolo, ha anche perso la capacità di
attribuire un significato agli eventi; la conseguenza è la sensazione della sconfitta e della
sopraffazione. Quando però l’uomo comincia ad interrogarsi riuscendo a “strappare” una serie di
contenuti all’inconscio (compiendo un atto simile a quello di Eva nel Paradiso Terrestre), si
sentirà obbligato a chiedersi il perché di tutto ciò che lo circonda e che sperimenta.

Se riusciamo a dare un significato a ciò che viviamo, la vita diventa ricca e interessante.

La vera disperazione sorge quando non riusciamo a cogliere alcun senso di ciò che ci succede e
restiamo imprigionati in una visione paranoica tesa ad accusare fatti e persone esterne come cause
dei nostri problemi. L’immagine del Diavolo è stata percepita dall’uomo proprio in questo senso e ha
permesso per lungo tempo la rimozione della nostra ombra, essendo egli colui che assumeva su di sé
tutto il male del mondo.

La diversa interpretazione dell’inconscio, rispetto a Freud, è quindi evidente: per il maestro
viennese, infatti, l’inconscio è la sede dell’irrazionale, dei conflitti rimossi e delle esperienze
non accettate. Per Jung, oltre a tutto ciò, l’inconscio possiede un grande dinamismo progettuale ed
è la sede di una profonda sorgente di sapienza.

Quella di Jung è una vera e propria “psicologia della trasformazione” che riesce a superare la
contrapposizione freudiana tra pulsione di vita e pulsione di morte; e lo fa attraverso il processo
di individuazione cioè attraverso la tensione a raggiungere l’integrazione delle diverse parti della
psiche in una totalità chiamata Sé, in cui il conflitto è il dato strutturale creativo della psiche
umana.

Il modello junghiano della psiche è costruito sul parallelismo con gli aspetti termodinamici della
fisica: la psiche possiede una capacità di autoregolazione per riunire a sé i contrari; per
scorrere, l’energia psichica deve avere una dinamica di contrasti come succede per la produzione di
corrente elettrica; infatti nella vita psichica, dopo un’attività di pensiero positiva, appaiono
contenuti affettivi o reazioni negative; questi opposti non sono in realtà negativi, ma
rappresentano la possibilità di mantenere in continua tensione il moto e le trasformazioni
dell’energia psichica.

continua…

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