Un’etica buddhista senza rinascita karmica?

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Un’etica buddhista senza rinascita karmica?

ISSN 1076-9005

Journal of Buddhist Ethics

Un’etica buddhista senza rinascita karmica?
Winston L. King
Professore emerito, Università di Vanderbilt

E’ possibile un’etica buddhista percorribile ed autentica senza il prospetto della rinascita
governata dal proprio passato karmico?
Se si dovesse accettare solo la raffigurazione della buona vita buddhista presentata dal Canone
Pali e le sue interpretazioni Theravada, la risposta sarebbe negativa. Cominceremo con il rivedere
brevemente questa interpretazione.

La rinascita karmica nel buddhismo pali

Nel Canone Pali/Buddhismo Theravada tradizionale il karma (kamma) gioca il suo ruolo decisivo sul
campo della doppia eternità di ciascun essere esistente, e perfino dello stesso universo. Ogni
essere esistente al momento presente non è che un anello in una catena di esistenze continuantesi in
varie forme da un’eternità senza principio nel passato proiettata in un’eternità futura senza fine,
a meno che una breccia esistenziale (illuminazione) non sia conseguita.

C’è una seconda rilevante caratteristica riguardo una qualsiasi esistenza: l’apparente
arbitrarietà delle sue forme e sorti. A livello umano alcuni sono nati sani, belli, in famiglie
ricche e sperimentano una buona sorte per tutta la loro vita. Altri sono nati brutti e malati e
nella povertà e nell’indigenza. Ma chi onestamente sa quando la malattia, il disastro, o la morte
possono colpire? L’esistenza, per lo meno nella sua forma umana, sembra essere totalmente
arbitraria nella sua ripartizione del bene e del male. Perché deve essere così? Questo è il
principale problema che tutte le religioni hanno cercato di risolvere.
Per il buddhismo Theravada la risposta è chiara. Le nostre vite sono governate dal karma. Ha
scritto lo scomparso Venerabile Nyanatiloka nel suo Dizionario Buddhista:

KARMA (Skt.), Pali: kamma «Azione», nella sua accezione corretta denota la
volizione salutare e non salutare … e i suoi fattori mentali concomitanti,
che causano la rinascita e modellano il destino degli esseri.

E ancora, citando il Canone Pali:

C’è Karma (azione), O monaci, che matura nell’inferno … Karma che matura nel
mondo animale … Karma che matura nel mondo paradisiaco … Triplice … è il
frutto del karma: che matura durante la vita [umana] … che matura nella
nascita che segue … che matura in nascite successive. [1]

E qual è l’influsso del karma? Non è che l’influsso delle azioni compiute da esseri senzienti nella
loro forma umana. Le forme possibili di rinascita dallo stato umano includono inferni che durano
un’eternità (purgatorio), forme spiritiche infelici, esistenze animalesche, ed esistenze celestiali
della durata di ere.

Si può facilmente capire l’attrattiva di questa versione dell’esistenza. Essa razionalizza e
moralizza quello che sembra essere l’emanazione di un fato cieco, casuale, o di una divinità
capricciosa. Non ci si può più ragionevolmente sentire afflitti e feriti dalla propria presente
mala sorte; questa è il risultato che si è meritato dalle azioni e disposizioni erronee relative a
qualche precedente esistenza umana. Una buona sorte è il frutto di atti eticamente meritevoli
passati.

Così pure questa visione insegna l’essere umano ad aver caro il proprio presente stato umano quale
opportunità impagabile per creare “buon” karma, cioè che conduca a felici rinascite e che offra la
base per un’eventuale liberazione dal ciclo delle rinascite (samsara). Perché tutti gli altri stati
non umani non sono che la ricompensa o la punizione – o meglio, l’inevitabile maturazione karmica di
atti compiuti come esseri umani. Non sono che la consumazione del proprio capitale karmico buono o
cattivo, per così dire.

C’è un importante corollario a questa versione della dinamica della realtà: ciascuna catena di
esistenza individuale è una storia quasi a filo unico. Il karma di ciascun individuo, nella sua
creazione così come nella sua consumazione, rimane quasi interamente un percorso a canale singolo, a
circuito chiuso. Nessun’altro può aumentare, o diminuire, il mio cumulo individuale di merito o
demerito. Sì, c’era (c’è) una tradizione di condivisione del merito ma sembra contribuire ad un
certo tipo di fondo generale di merito, non ad altri “conti” individuali. Questo ha in qualche modo
condotto caratteristicamente ad un ottundimento dell’attività caritatevole e di riforma sociale
nelle società Theravada, giacché ciascun individuo è adesso nello stato in cui l’hanno condotto le
sue azioni passate. Vale a dire, ciascuno ottiene quello che si merita. E la carità tende ad
essere quasi esclusivamente diretta verso il Sangha, che produce dividendi di merito superiori
confrontati con quelli [gli atti di carità] diretti verso i laici o a necessità della comunità.

Si, ci sono stati sublimi più elevati dello spirito che sono elogiati nelle scritture Pali come il
conseguimento supremo della buona vita: la gentilezza amorevole, la compassione, la gioia
compartecipativa nella gioia degli altri, e l’equanimità, uno stato di benevolenza non vanitosa
verso tutti gli esseri. Ma complessivamente, piuttosto che nell’attività migliorativa o redentiva,
sembra esserci il contrassegno di un conseguimento spirituale superiore da parte di coloro che
posseggono una più elevata maturità spirituale, e occasionalmente da parte di quanti hanno
conseguito un frutto inferiore. Principalmente è la considerazione del
merito-per-una-rinascita-umana che prevale, dato questo contesto.
Questa credenza basilare nella rinascita perpetua dell’individuo come è determinata dal
merito/demerito karmico, fino a che e a meno che la salvezza nirvanica sia garantita, sembra essere
rimasta fermamente radicata nella maggior parte del Buddhismo asiatico, Theravada o Mahayana.
Alcuni esempî scelti a caso dispersi nei secoli dell’esistenza del Buddhismo renderà evidente quanto
detto; sembra che si trovi questa credenza ovunque si approdi al Buddhismo in Asia.

Ad esempio, possiamo notare l’atmosfera generale del Sutra del Loto, così influente in Asia. Il
Sutra del Loto trasuda la filosofia della rinascita karmica in quasi ogni pagina; la nascita
determinata dal karma è data per scontato dappertutto: gli arhat sono lo stato di buddhità di
qualche esistenza futura benedetta lontana ma certa; molti dei grandi santi del passato appaiono
sulla scena. Veramente l’intero sutra è uno spettacolo di gloriosi destini spirituali rappresentati
nell’eternità futura in una multitudine di universi.
Poi ci sono i Sutra della Terra Pura. Qui leggiamo di Amitabha Buddha che è divenuto un Buddha in
virtù di innumerevoli infinità di atti virtuosi e può adesso offrire agli esseri umani peccatori,
con molto “debito karmico” accumulato, la distruzione della loro passibilità morale-spirituale
accumulata nel passato fuor della sua infinita riserva di merito. Il santo Hoonen, il fondatore del
Buddhismo giapponese della Terra Pura nei secoli 12°-13°, dà espressione a questo senso di rinascita
legata al karma come del destino di tutti gli uomini:

Per il peccato o il merito di una vita passata, gli uomini possono essere nati
buoni o malvagî in questo mondo fugace. [2]

Suzuki Shoosan, samurai del 16°-17° secolo diventato maestro Zen a metà della sua vita, parla delle
“sei forme di trasmigrazione e i quattro tipi di nascita”, e vede se stesso sforzarsi per
l’illuminazione “nascita dopo nascita”. [3] Per venire al tempo presente: lo scomparso Yasutani Roshi, usando termini moderni, disse quanto
segue:

Adesso nel nostro inconscio si trovano le impressioni residue delle nostre
esperienze di vita incluse quelle delle esistenze passate, indietro nel tempo
immemore. [4]

E nel presente-presente Abe Masao, parimenti da una prospettiva Zen, parla di agire in “saggezza e
compassione … operando per emancipare innumerevoli esseri senzienti dalla trasmigrazione”. [5] Questo tuttavia non è il resoconto completo della faccenda. Lo sviluppo della vita e della
dottrina Mahayana è risultato in importanti modifiche del complesso di idee e pratiche sulla
rinascita e il karma. Centrale al cambiamento del loro significato è stato lo sviluppo del tema e
dell’ideale bodhisattvico. La filosofia del vuoto (sunyata) di Nagarjuna (circa 150-250) ha
contribuito grandemente a questo sviluppo. Egli assunse la distruzione della rigida fissità dello
scolasticismo buddhista come la propria missione filosofica buddhista. Egli asserì che i concetti
intellettuali mantenuti rigidamente sono utili strumenti linguistici ma non rappresentano la realtà
delle cose. La maggior parte degli opposti o dei contrasti, per esempio, sono mutualmente
interdipendenti. Ciò è vero anche di quei fondamentali opposti buddhisti, samsara e nirvana. Così,
come ha scritto Frederick Streng:

L’ideale spirituale [per Nagarjuna] non è la liberazione (nirvana)
dall’esistenza condizionata da parte di una persona individuale, perché
questo sforzo implica una distinzione essenziale tra il nirvana e l’esistenza
condizionata (samsara).
Piuttosto l’idea è quella di un bodhisattva (“essere illuminato”) la cui
consapevolezza della non sostanzialità … della natura di bodhisattva è
espressa in un tipo di saggezza che cerca la liberazione di tutti gli esseri.
[6]

Così Nagarjuna ha trasportato il pensiero buddhista in una nuova fluidità del concetto di destino
karmico: non si può, non si deve più considerare il proprio destino spirituale come ermeticamente
sigillato da quello degli altri. Infatti questi si intrecciano; non si può essere salvati dalla
propria situazione dolorosa senza la salvezza dei proprî simili. Questo naturalmente è l’ideale
bodhisattvico, adesso allargato dalla vicenda di Gotama Buddha prima dell’illuminazione per
estendersi ad ogni uomo!

Ovviamente questo è stato un passo enormemente significativo per l’etica buddhista. Portato alle
sue estreme conseguenze lega indissolubilmente tutte le creature ciascuna all’altra nel bene e nel
male. Nella sua esistenza prima dell’illuminazione colui che sarebbe divenuto il Buddha
(bodhisattva) visse innumerevoli vite (come animale, spirito, essere umano) sempre nel servizio
disinteressato per gli altri giungendo perfino al sacrificio della propria vita. Adesso questa
qualità della vita deve essere quella di ciascuno. Nel Sutra di Vimalakirti lo stile di vita
bodhisattvico è esteso, è preminentemente incorporato nella vita del laico Vimalakirti, il quale,
sebbene sia completamente un laico attivo, ha una comprensione della verità buddhista più penetrante
dei grandi santi del primo Buddhismo!
Questo nuovo ideale del bodhisattva ha ricevuto una descrizione eloquente da Santideva (7°-8°
secolo) nel suo Sentiero di Luce in queste parole:

Tramite l’uso costante l’idea di «io» si attacca a gocce esterne di seme e
sangue, nonostante che queste cose non esistano [come entità genuine]. E
così perché non dovrei concepire il corpo del mio simile come il mio stesso
sé? … Cesserò di vivere come un sé e assumerò i miei simili come me stesso
… perché non dovrebbe egli [l’uomo] concepire il suo sé come inerente anche
nei suoi simili? … Fà si che il tuo stesso sé perda i suoi piaceri e che si
prenda carico del dolore dei tuoi simili. Fà ricadere sulla sua [la propria] testa la colpa anche delle opere degli altri.

Un tale uomo dovrebbe “essere protettore degli indifesi, guida dei viandanti, nave, diga e ponte
per quelli che cercano l’Altra Sponda, lampada per chi ha bisogno di lampada, letto per chi ha
bisogno di letto, schiavo per chi ha bisogno di schiavi”. [7]

Questo nuovo buddhista bodhisattvico quindi fa voto che anche sull’orlo dell’illuminazione
nirvanica finale (liberazione dalla rinascita samsarica) egli non si abbandonerà alla liberazione
finale dal ciclo delle rinascite fintanto che tutti gli altri esseri abbiano conseguito la propria
liberazione.
C’è uno sviluppo ulteriore da notare prima di dedicarci alla natura del Buddhismo occidentale. Il
Buddhismo Hua-yen, sviluppatosi in Cina nel 7° secolo, procurò un modello filosofico cosmico di
interrelazionalità che universalizzava e circoscriveva l’deologia bodhisattvica. La sua tipologia
base è contenuta nel concetto di un universo organicamente integrato, usando il modello della Rete
di Indra. Scrive Robert Gimello:

Questo tropo ispirato [la Rete di Indra] rappresenta un universo in cui
ciascun costituente della realtà è come un gioiello a molte sfaccettature
sistemato in uno dei nodi di una vasta rete. C’è un tale gioiello in ciascun
nodo, e ciascun gioiello riflette non solo il resto della rete ingioiellata
nella sua interezza ma anche ciascuno ed ogni altro gioiello nella sua
individualità. Così, ciascun particolare riflette la totalità e la totalità
così riflessa è sia un’unità che una molteplicità … Tutte le cose e gli
esseri, insegna Hua-yen, sono come questa rete. [8]

Ovviamente la filosofia di Hua-yen calza con l’ideale bodhisattvico della vita umana come un
guanto una mano. Nessuno può guadagnarsi la liberazione spirituale indipendentemente dagli altri.
Il tessuto organicamente interconnesso dell’universo lo rende impossibile. Così Hua-yen
universalizza e dà solide fondamenta alla visione bodhisattvica della vita veramente buona.

La rinascita karmica e l’etica buddhista in occidente

Come il Buddhismo nelle sue varie forme si è aperto una breccia nel mondo occidentale, tutte le
sue dottrine, tradizioni e pratiche hanno dovuto affrontare una situazione culturale e sociale nuova
e ricca di sfide. La principale preoccupazione buddhista è stato di mantenere la prospettiva
buddhista di base sulla vita e sulla condotta umana in un contesto nuovo e diverso. Naturalmente il
Buddhismo nella sua storia di due millennî e mezzo in Asia si è stabilizzato con successo in molte
diverse culture grazie alla sua enorme flessibilità. Ma forse l’occidente è una sfida più
consistente di qualsiasi cultura tradizionalista asiatica nella quale si è infiltrato.

L’enfasi della civiltà occidentale è sull’attività frenetica. Qui la storia non è vista come
ciclicamente ripetitiva come in così tante culture asiatiche, ma come un tipo di torrente di
cambiamenti scorrevoli, che vacilla, si tuffa, procede in avanti verso un qualche stato nuovo e
impredicibile. Questi cambiamenti sono visti come dovuti in gran parte alle intenzioni e alle
azioni umane; gli uomini creano la storia. E di rilevanza speciale nella nostra trattazione, in
occidente ciascuna nascita umana è una faccenda assolutamente “de novo”, un inizio totalmente nuovo
senza passato karmico. Le sue qualità individuali sono spiegate in termini di ereditarietà fisica e
psichica attraverso i suoi genitori; e il suo ambiente sociale modellerà ulteriormente la sua natura
e carriera. Molti in occidente credono in un’esistenza futura eterna per ciascuno di tali nuovi
esseri umani (un’anima immortale), la cui natura è determinata dalla qualità della vita vissuta in
questa unica e sola vita umana, un karma di vita singola, per così dire. Altri credono che questa
vita è la totalità dell’esistenza di ciascuno, e che debba essere vissuta in modo pienamente
edonistico.

La qualità prevalente della vita e della cultura occidentale, con il suo concomitante
idoleggiamento del «successo», «realizzazione», «prosperità» e «progresso» e «avanzamento»
storico-sociale, è visto dai buddhisti occidentali come in spirito profondamente non- o perfino
anti-buddhista. Ken Jones, ad esempio, nel suo “L’aspetto sociale del Buddhismo” [9], definisce la
cultura occidentale «egoica»; questa magnifica e idealizza proprio le qualità di avidità, violenza
(odio espresso) e autostima (illusione di prima personalizzazione) che il Buddhismo considera il
proprio nemico fondamentale.

Come può quindi il Buddhismo, progredendo come fa ad un ritmo totalmente diverso di idee e scopi
nella vita, creare forme occidentali significative? E in termini di ciò che più ci interessa, come
può l’etica buddhista di rinascita karmica inserirsi qui, se può farlo?
Possiamo notare due stili generali di reazione buddhista a questa situazione culturale. La prima
è quello che potrebbe essere definito la “soppressione” del tema della rinascita karmica nella
rappresentazione del messaggio buddhista. La rinascita definita karmicamente potrebbe essere la
credenza data per scontata in quei centri di meditazione della Meditazione di Discernimento (Insight
Meditation) come pure nei movimenti orientati secondo lo stile U Ba Khin (birmano), ma una tale
credenza non è richiesta ai principianti né compare nelle loro pubblicazioni in un modo rilevante.
Per lo meno non è un argomento di conversazione. Lo stesso si può dire dell’altra estremità dello
spettro buddhista, le pubblicazioni e i centri buddhisti Zen. Senza dubbio l’illuminazione
attraverso lo zazen ha sempre connotazioni karmiche e di rinascita, ma di tutto ciò se ne fa poco
tutto sommato, per lo meno negli ambienti statunitensi.

In ogni caso l’enfasi è posta su quello che si potrebbe chiamare il karma-rinascita della
trasformazione personale. La «forza karmica» e la deteminazione dovuta al karma sono quelli
dell’influenza «karmica» dei pensieri, aspirazioni ed emozioni sul carattere, attitudini ed azioni
conseguenti di una persona. Qui, un’emozione o un pensiero è «rinato» come un’attitudine o un
tratto caratteristico che irrevocabilmente trova espressione nelle proprie azioni. Questo può
essere chiamato karma di pensiero-carattere-azione, o karma psichico.
Ci sono quei buddhisti nati in occidente – il cui numero ed influenza nella conformazione del
Buddhismo occidentale non farà che crescere negli anni – che trovano una certa enfasi del Buddhismo
asiatico sulla rinascita karmica non necessario. Come esempio di questa tendenza possiamo prendere
il già menzionato Ken Jones come portavoce del Buddhismo occidentalizzato. Sulla copertina del suo
libro leggiamo che “è stato un attivista sociale di un qualche genere per una gran parte della sua
vita ed un buddhista in addestramento negli ultimi otto anni” [nel 1989]. Il suo libro quindi è un
buon esempio di cosa una persona nata in occidente, cresciuta ed educata in una cultura
cristiano-umanista-scientifica e socialmente attivista, trova di valore nelle attitudini ed azioni
autenticamente buddhiste nella società occidentale. Riguardo alla dottrina della rinascita del
Buddhismo asiatico egli scrive:

Nessuna delle tesi contenute in questo libro richiedono né il rigetto né
l’accettazione della nozione di rinascita. [10]

Che ne è allora della dottrina del karma che storicamente è stata così strettamente legata a
quella della rinascita? La trova in necessità di reinterpretazione:

Il karma sanscrito più noto ha acquisito il senso Indu di «fato» e
«giustizia», che non hanno nulla a che vedere con il [vero] Buddhismo. [11]

Invece di «karma» egli usa la forma Pali «kamma» e la reinterpreta così:

Il kamma, tuttavia, mi sembra essere sia un elemento logico fondamentale
nell’insegnamento buddhista che un’idea interessante e suggestiva nella
discussione della teoria sociale buddhista. [12]

Così, con un tremendo colpo la forte preoccupazione del Buddhismo asiatico sull’acquisizione di
merito per una «buona» rinascita futura tramite «buone» azioni è spazzata via. Infatti Jones trova
che alcune delle motivazioni nella tradizione Theravada sviluppata che parlano della prossima
«buona» vita da guadagnarsi tramite «buone» azioni siano totalmente antibuddhiste perché
incoraggiano all’avidità e all’orgoglio. E’ da prendere come esempio di ciò la seguente
dichiarazione di un eminente laico buddhista burmese:

Una persona che osserva i Cinque Precetti risolutamente e continuativamente può
ottenere i seguenti risultati come beneficio:
(1) può acquisire grandi ricchezze e possessi;
(2) può acquisire grande fama e reputazione;
(3) può presentarsi con fiducia e coraggio di fronte ad un’assemblea pubblica;
(4) … può morire con calma ed equanimità;
(5) dopo la sua morte nascerà nel mondo dei Deva. [13]

Nell’ottica di Jones tutte le conseguenze e ricompense elencate prodotte da una vita modellata sui
principî etici buddhisti rappresenterebbero la glorificazione della stessa avidità ed illusione
dalla quale i buddhisti cercano di porsi in salvo! Le prime tre ricompense rappresentano l’essenza
della cultura occidentale «egoica» che Jones crede sia l’antitesi del Buddhismo e che l’azione
sociale buddhista cercherebbe di modificare e trasformare. La sua versione purificata (veramente
buddhista) del kamma è così espressa:

La teoria del karma è la teoria della causa ed effetto, dell’azione e reazione.
Ogni azione volitiva produce i suoi effetti o risultati. Che una buona azione
produca buoni effetti e una cattiva azione cattivi effetti non è un fatto di
giustizia o di ricompensa … ma ciò accade in virtù della sua stessa natura,
della sua stessa legge. [14]

A questa revisione della versione tradizionalmente accettata di kamma (karma), liberata dalle sue
connotazioni funeste, [Ken] Jones vorrebbe aggiungere un senso significativamente nuovo, quello di
«kamma sociale». Egli si lamenta che gran parte del Buddhismo tradizionale (orientale) ha assunto
che la “Società … non è nulla di più che l’aggregato degli individui che la compongono,” [15] quindi la mera somma dei fili karmici individuali. Per porre la sua dichiarazione in un linguaggio
figurativo: una società nel pensiero buddhista tradizionale è una collezione di canali paralleli ed
intrecciati di destini karmici. Ma Jones respinge questa versione della “struttura” sociale per una
di kamma sociale. La società come un’entità super-individuale ha un carattere morale-immorale che
coinvolge tutti i suoi membri nel bene o nel male. Pure questa deve essere modificata
buddhisticamente perché gli individui conseguano il loro pieno destino spirituale.

Per cui, scrive Jones, “Un Buddhismo coinvolto socialmente non ha bisogno di altra giustificazione
razionale che di essere un’amplificazione della moralità buddhista tradizionale [i cinque precetti],
un’etica sociale portata avanti dai bisogni e dalle potenzialità della società odierna” [16] (lo
stesso motivo è posto in termini leggermente diversi nel libro edito da Thich Nhat Hahn, il monaco
Zen vietnamita, allusivamente intitolato “Perché un futuro sia possibile”, sottotitolato
“Commentario sui cinque meravigliosi precetti”).

Significativo per il futuro del Buddhismo occidentale, e interessante in termini del suo passato
storico, due schemi ideali annotati nello sviluppo del Buddhismo Mahayana sono stati presi come
specialmente utili ed eticamente-socialmente significativi: il tema del bodhisattva e la visione di
Hua-yen del mondo organicamente interconnesso.
Scrive Jones in difesa del Buddhismo socialmente attivo:

Il grande voto del bodhisattva di «liberare tutti gli esseri» adesso implica
pure la preoccupazione per le mutevoli condizioni sociali che ci frustrano in
così tanti modi … Queste sono certamente tra le condizioni che il Buddha
dichiarò che “conducono alla passione, non alla liberazione dalle passioni,
all’essere legati, non alla liberazione dai legami; e all’accumulo di rinascite;
e queste al voler molto, non al voler poco; all’insoddisfazione, non alla
soddisfazione; e queste alla socievolezza, non alla solitudine; e questo
all’indolenza, non alla disciplina; e questo alla lussuria, non alla frugalità”.
[17]

Si può notare al volo che alcune di queste voci, ad esempio quelle che invitano alla solitudine e
alla frugalità, sono rivolte più alla vita monastica che a quella ordinaria. Tuttavia il punto
centrale è chiaro; i buddhisti devono impegnarsi perché la società non idoleggî l’acquisività
individuale e la soddisfazione puramente personale a danno degli altri.
L’altro motivo integrativo e di azione sociale che fortemente sostiene il tema bodhisattvico che
Jones trova utile è quello della rete di Indra. Per ridescriverla nelle parole di Jones:

A ciascun incrocio nella rete di Indra c’è un gioiello riflettente la luce
(cioé, un fenomeno, entità, cosa [persona]) e ciascun gioiello contiene un’altra
Rete ad infinitum. Il gioiello a ciascuna intersezione esiste solo come un
riflesso di tutti gli altri e quindi non ha auto-natura [indipendente]. Eppure
esiste pure come un’entità separata a sostegno delle altre. [18]

Vale a dire, nel rafforzamento del motivo bodhisattvico, che nessun essere, o piccolo gruppo di
esseri, realmente esiste indipendentemente, o pure semi-indipendentemente, dagli altri. Qui c’è una
visione organica dell’universo che lega tutta l’umanità, tutte le creature viventi, e lo stesso
mondo fisico insieme in un’integrità organica. Nessuno può perseguire scopi e beni privati senza
influenzare gli altri. Una tale visione del mondo rende ogni azione un'”azione sociale”.

Questo punto di vista conduce Jones a fare una lista di raccomandazioni specifiche. Egli crede
insieme a E. F. Schumacher che “piccolo è bello” economicamente; che il gigantismo economico
imperante lavora contro il vero beneficio degli uomini, stimola i fuochi dell’avidità, e conduce
alla privazione e all’oppressione di molti. Egli favorisce le piccole imprese e parla della
formazione di “libere cooperative autonome”, come pure di “cooperative di retti mezzi di
sussistenza.” [19] Egli applaude la “non-violenza creativa” di Gandhi e Martin Luther King come di
“una naturale e diretta espressione di Buddhadharma” [20] I valori ambientali sono similmente da
promuovere. Egli favorisce pure “valori democratici ed egalitari”. [21] Per ricapitolare Jones suggerisce che la giusta miscela di valori buddhisti nel mondo moderno può
essere riassunta così:

La trasformazione psico-sociale suggerita qui è una metamorfosi sostenuta
continuativamente, nella quale un numero di persone significativo cambia
l’intero clima sociale rendendo reali questi valori sociali [buddhisti umanisti]
nella loro stessa esperienza … e [fa] il lavoro necessario per renderli la
norma del comportamento pubblico. [22]

Non tutti i buddhisti occidentali sarebbero d’accordo con Jones nella sua delineazione di un
Buddhismo socialmente attivo come del suo ruolo specifico. Molti vedono nel Buddhismo un rifugio
dal logorio e dalla lacerazione della vita quotidiana e dal ritmo frenetico della vita in occidente,
non come un richiamo a squillo di tromba all’azione. Cosa è più promettente all’occidentale spinto
all’azione dell’enfasi buddhista alla purità interiore dello spirito e il suo vezzeggiamento della
vita meditativa in silenziosi ritiri ed isolamento pacifico? Molti percepiscono questo come la
principale missione del Buddhismo in occidente: offrire centri dove si offra solitudine e guide e
guaritori spirituali. A questi sembrerebbe che al riformismo sociale sfugga il fondamentale
problema dell’umanità, [cioè] che è governata da ingordigia, odio e illusione sulla vita e il sé – i
tre veleni basilari come sono visti dal Buddhismo. Come imposta la visione di molti buddhisti sul
riformismo sociale Kenneth Kraft, editore di “Pace Interiore, Pace Mondiale”: “Questi asseriscono
che una riforma ricercata solo su una base socio-politica conseguirà al meglio soluzioni provvisorie
e al peggio perpetuerà gli stessi mali che si propone di curare.” [23] Solo la purificazione dei
cuori e delle vite degli individui procurerà un genuino cambiamento sociale.

Questa naturalmente è un’ antica e fondamentale considerazione buddhista: il mondo sarà cambiato
per il meglio solo da individui che sono essi stessi cambiati per il meglio attraverso la disciplina
spirituale. La forma pienamente espressa di ciò è che solo quando uno è se stesso pienamente
illuminato può “salvare” gli altri.
Il monaco tibetano dell’11°-12° secolo Milarepa si espresse così:

Uno non deve essere troppo ansioso e premuroso nel disporsi al servizio degli
altri prima che egli abbia se stesso realizzato la Verità nella sua pienezza;
fare questo sarebbe come se un cieco guidasse un cieco. [24]

Prosegue dicendo che siccome “non ci sarà fine agli esseri senzienti che uno può servire”, un
bodhisattva non deve essere frettoloso nell’aiutarli. Ovviamente Milarepa è più preoccupato del
progresso spirituale del potenziale bodhisattva che del sollievo dalla sofferenza o della correzione
delle ingiustizie nella società contemporanea. Ma la maggior parte della gente in occidente,
finanche buddhisti, non hanno la robusta fiducia di Milarepa nella rinascita perpetua di tutti gli
esseri o il suo incallito disinteresse per i sofferenti del presente.
A questo approccio Robert Aitken risponde così:

Non c’è fine al processo verso la perfezione, e così il perfezionista non può
cominciare il lavoro di un bodhisattva. [Ma] la compassione e la pace sono una
pratica da svolgersi sui cuscini di una sala da meditazione, [e anche] nella
famiglia, sul lavoro, e nei dibattiti politici. Fai il tuo meglio con quello
che hai e maturerai nel processo. [25]

Forse la giusta attitudine buddhista per i buddhisti moderni in occidente è, come molti buddhisti
nati in occidente la vedono, quella di una oculata consapevolezza della propria interiorità, nutrita
dalla meditazione, e un’appropriata attività esteriore secondo i principî buddhisti. Questi aspetti
devono essere perseguiti congiuntamente, non posti l’uno contro l’altro, in uno schema di inazione
sociale.

Adesso possiamo tornare infine alla domanda iniziale: può esserci un’etica buddhista percorribile ed
autentica senza una credenza nella rinascita perpetua governata dal karma di un infinito numero di
esistenze passate? La risposta, esplicita od implicita, di molti buddhisti contemporanei in
occidente, e forse di alcuni in Asia, è un risonante si! Anche senza quelle credenze i valori etici
centrali buddhisti possono e, nell’interesse di tutte le creature viventi, devono essere
vigorosamente perseguiti. Veramente è forse possibile dire che sia il Buddhismo che l’etica
buddhista potrebbero cavarsela meglio senza doversela vedere con il fattore di rinascita karmica.

Annotazioni

[1] Nyanatiloka Buddhist Dictionary: Manual of Buddhist Terms and Doctrines,
(Colombo: Frewin and Co., 1972). “Karma.”
[2] Hoonen the Buddhist Saint: His Life and Teaching, tradotto da Harper H.
Coates and Ryugaku Ishizuka (Kyoto: Society for the Publication of Sacred
Books of the World, l949), pag. 430.
[3] Winston L. King, Death was his Kooan: The Samurai Zen of Suzuki Shoosan
(Berkeley: Asian Humanities Press, 1986), pagg. 195, 370.
[4] Philip Kapleau, The Three Pillars of Zen: Teaching, Practice,
Enlightenment (Tokyo: John Weatherhill, 1965), pag. 101.
[5] Frederick J. Streng, “Naagaarjuna,” Encyclopedia of Religion (New York:
Macmillan and Free Press, 1987), Vol. X, pag. 293.
[6] Christopher Ives, Zen Awakening and Society (Honolulu: University of
Hawaii Press, 1992), pag. 88.
[7] J. B. Pratt, The Pilgrimage of Buddhism (New York: Macmillan, 1928), pagg.
220, 219.
[8] Robert Gimello, “Hua-yen,” Encyclopedia of Religion, Vol. VI, pag. 488.
[9] Ken Jones, The Social Face of Buddhism: An Approach to Political and
Social Activism (London: Wisdom Publications, 1989).
[10] Ibid., pag. 68.
[11] Ibid., pag. 63.
[12] Ibid., pag. 68.
[13] Winston L. King, In the Hope of Nibbana: An Essay on Theravada Buddhist
Ethics (LaSalle, Ill.: Open Court, 1964), pag. 43.
[14] Jones, pag. 66.
[15] Ibid., pag. 202
[16] Ibid., pag. 194.
[17] Ibid., pag. 194.
[18] Ibid., pag. 137.
[19] Ibid., pag. 330.
[20] Ibid., pag. 302.
[21] Ibid., pag. 325.
[22] Ibid., pag. 325.
[23] Kenneth Kraft, ed., Inner Peace, World Peace (Albany: State University
Press of New York, 1992), pag. 12.
[24] Jones, pag. 202.
[25] Ibid., pag. 203.

Copyright 1994

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