Rishi sufi del Kasmir – 1

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RISHI SUFI DEL KASHMIR – 1

di Mario Firmiani

(parte prima)

1. I RISHI SUFI DEL KASHMIR
2. L’AFFASCINANTE STORIA DEL MISTICISMO KASHMIRI
3. DALLA TRADIZIONE SOLARE DEL KASHMIR ALL’ISLAM

1. I RISHI SUFI DEL KASHMIR

Il fattore che influenza maggiormente i Musulmani del Kashmir, circa la loro
Kashmiriyat, ovvero l’identità Kashmira, è quello dell’ordine Sufi dei Rishi
(in sanscrito vuol dire Saggio). La Kashmiriyat, in italiano diremmo la
Kashmirità, è la concezione di storia e cultura comune a prescindere dalle
differenze religiose e che si estende anche nell’attuale Azad Kashmir, dove
la lingua parlata non è più il Kashmiri. Mentre gli ordini Sufi come la
Suharwardia, la Kubrawia, la Naqshbandia e la Qadiria, arrivarono nel
Kashmir da paesi come la Persia, l’Asia Centrale e l’India del Nord e
Centrale, l’ordine Rishi si evolvette autonomamente nella valle stessa
all’inizio del quindicesimo secolo. La valle del Kashmir era già permeata
dalle tradizioni ascetiche Indù e dalle consuetudini rinunciatarie del
Buddismo.

Il termine “Rishi” deriva sicuramente dalla tradizione Indiana e Sanscrita,
sebbene alcuni studiosi Musulmani del Medioevo hanno tentato di dimostrare
che esso derivi dalle parole persiane “raish” o “rish”, il cui significato è
appunto “le penne o ali di un uccello”. Baba Dawud Mishkati, per esempio,
fornisce una spiegazione piuttosto tortuosa. Un uccello spennato che non ha
il controllo sui propri movimenti e dipende completamente dal vento. Questa
delucidazione riguarderebbe anche il Rishi che essendo alienato dal mondo,
condurrebbe una vita solitaria, lottando contro il destino. Questa e altre
spiegazioni, comunque, non hanno entusiasmato il Musulmano medio del
Kashmir, ed egli ha, di gran lunga, accettato l’origine Sanscrita del
termine, il cui significato è identico a quello usato dagli Indù; cioè di
Saggio.
I Rishi, i Poeti Veggenti, i Compositori dei Veda e delle Upanishad, erano
del tutto persuasi che i loro mantra fossero ispirati dall’alto, che
provenissero da piani superiori di coscienza ricolmi di una conoscenza
segreta la cui penetrazione fosse riservata agli iniziati ai Misteri.

Infatti, la maggior parte dei Kashmiri, non associa al termine Rishi nessuna
confraternita Sufi, ma lo utilizza per designare un qualsivoglia Sufi.

Gli indigeni ordini Sufi dei Rishi, non si differenziarono solamente dalle
istituzioni fondamentali dell’Islam, ma anche da altre confraternite Sufi,
sia nella filosofia sia nella vita. Gli scrittori i cronisti che hanno
descritto la storia del Kashmir, furono attratti da quell’unico percorso
filosofico e di vita tracciato dai Rishi. Un importante cronista, Abu-l
Fazl, li loda ripetutamente. Le sue narrazioni sono animate dallo stesso
spirito: “La classe sociale più rispettata di questo paese (il Kashmir) è
quella dei Rishi. Sebbene non abbiano abbandonato le loro forme di culto
consuetudinarie (il taqlid islamico), sono autenticamente sinceri
nell’adorazione.
Non inveiscono contro nessun uomo di fede diversa. Non hanno sulla lingua il
desiderio e non cercano la mondanità. Dalla semenza che spargono, la frutta
cresce nelle zone più desolate acché gli uomini possano trarne beneficio. Si
astengono dai piaceri della carne e non si sposano.”

Sebbene l’Imperatore Moghul Jahangir non apprezzasse molto l’insegnamento
dei Rishi-Sufi, queste sue parole lodano il loro operato:

“Non hanno cultura e conoscenza (marifa), ma vivono semplicemente e senza
ostentazione. Non criticano nessuno. Non chiedono niente a chicchessia. Non
mangiano carne, né si sposano. La semenza che spargono germoglia nei luoghi
più impensati e chiunque può disporne, ma essi nulla chiedono in cambio.”

La vita ascetica e spirituale dei Rishi Musulmani del Kashmir assomiglia
molto allo stile di vita dei Rishi Indù, e dei monaci Buddisti e Jain, detti
Muni (in sanscrito i monaci sono chiamati “muni”, che vuol dire colui che
pratica il silenzio). Baba Dawud Khaki descrive il Rishi come un asceta
regolato da una disciplina differente rispetto a quella degli altri
anacoreti. Non è vincolato dai piaceri mondani. Baba Nasib li definisce
misericordiosi, pii e puri di cuore, e dichiara che la loro presenza ha
trasformato il Kashmir in un Paradiso. Recidono ogni relazione mondana, non
si sposano, né si preoccupano di crearsi una famiglia. La pietà è il loro
addobbo (khirqa), trascorrono le notti nell’adorazione e il giorno venerano
Allah incessantemente. Avendo abbandonato tutti i desideri mondani, sono
riusciti a controllare le loro concupiscenze carnali.

Impegnandosi profondamente nella crescita spirituale attraverso la filosofia
Islamica dell’Unità Divina (wahdat-ul-wajud), la quale non è diversa dalla
filosofia Indù della non dualità (Advaita), i Rishi hanno predicato
l’armonia
e la pace tra le differenti fedi, e la comprensione reciproca tra i loro
seguaci. Consapevole della conflittualità esistente tra gli Indù ed i
Musulmani durante il regno del Sultano Sikandar Khan Lodi (1389-1413 d.C.),
uno dei principali Rishi, lo Sceicco Nuru-d-din, alias Sahajanand, scrisse:

“Noi apparteniamo agli stessi genitori.
Perché c’è questa differenza?
Facciamo in modo che Indù e Musulmani (insieme)
adorino un unico Dio.
Noi venimmo in questo mondo come compagni.
Avremmo dovuto condividere le stesse gioie
e lo stesso dolore insieme.”

Lo stesso Sceicco Nuru-d-din affrontò come suo nonno delle restrizioni
durante il regno di Suha Bhatt, il quale perseguitò i non Musulmani con un
ritrovato zelo. Suha Bhatt, convertitosi all’Islam col nome di Saif-ud-Din,
fu il Primo Ministro del Sultano Sikandar Khan Lodi. Suha Bhatt rase al
suolo i più raffinati edifici e templi della geniale architettura Indù.
Delle Moschee sorsero al loro posto. Sapienti Musulmani dall’Iran e da altre
contrade furono invitati in Kashmir, ma le inclinazioni artistiche del
popolo furono soffocate, la musica e la danza vennero proibite.

Il messaggio dello Sceicco Nuru-d-din non si limitò solamente agli Indù e ai
Musulmani. Era rivolto all’intera umanità. Ecco perché i suoi detti ed i
suoi versi sono divenuti così proverbiali che il popolo Kashmiri vi ricorre
abitualmente in ogni occasione della vita. La popolarità dei suoi versi
avvenne grazie all’intermediazione di altri Rishi, che li diffusero in un
linguaggio comprensibile per la gran parte della gente.

Il messaggio dato dai Rishi o dalle confraternite Sufi precedenti,
s’incentrò
sempre sul concetto dell’Unità Divina. In effetti, i Sufi giunti dall’Asia
Centrale, avevano preparato il terreno per la comparsa dei Rishi e del loro
potente messaggio di sintesi religiosa.

Una delle poesie autobiografiche dello Sceicco Yaqub Sarfi dell’ordine
Kubrawi recita:

“Oh, Sarfi! Qual è il beneficio che
trai dal pellegrinaggio,
se la Kaaba, il tempio e la taverna
non sono la stessa cosa per te.
Oh, Sarfi! Come su ogni parte un raggio è
caduto dalla Sua faccia per illuminare la notte,
impossibile è per te affermare che Somnath
non abbia la luce della Kaaba.
Io vedo la Sua bella faccia manifestata in
qualunque cosa io fisso.
Sebbene guardo in centomila
specchi, in ognuno di essi solo una faccia si manifesta.”

(La città di Somnath si trova sulla costa occidentale dell’India, nello
stato del Gujarat. Questa zona originariamente era chiamata Prabhasa e fu
qui che Sri Krishna fece in modo che i componenti della Sua dinastia
lasciassero questo mondo, uccidendosi tra loro durante una gran battaglia.
Il tempio principale di Somnath è quello del Signore Shiva nella forma di
Somesvara).

Il nocciolo principale della contesa tra i Musulmani e gli Indù riguarda
l’adorazione
degli idoli. Nel Kashmir molti Sufi e Rishi non hanno esitato ad esprimere
il loro amore per gli dei e le dee. L’adorazione degli idoli è considerato
nella vallata un fenomeno dell’amore mistico. Hazrat Yaqub Sarfi, nacque nel
1521. Suo padre, era un nobile del Sultanato del Kashmir. Apprese il Corano
a casa, memorizzandolo interamente già all’età di sei anni. Lo Sceicco Yaqub
Sarfi dell’ordine Sufi dei Kubrawi definì orgogliosamente sé stesso un Kafir
dell’Ishq (un miscredente dell’Amore Divino) ed agognò di ardersi nel fuoco
dell’amore. Sfidò gli Ulema (i Dotti) che colpevolizzavano l’amore per gli
idoli. Per gli eruditi delle Università Islamiche non esiste crimine
maggiore dell’adorazione degli idoli. Al contrario, lui asserì ripetutamente
che la sua fede era l’amore per gli idoli. Dietro questa provocazione, si
celavano considerazioni e analisi molto profonde sull’idolatria (Shirk).

Il concetto di idolatria deve essere affrontato con molto rigore. Adorare
una divinità oltre Dio, non significa necessariamente che quest’idolo sia
fatto di legno o di pietra. Sono le nostre forme-pensiero che possono
diventare degli idoli. Uno stile di vita o un’esperienza religiosa potrebbe
essere un idolo. L’ammirazione cieca per il Profeta Muhammad è una forma di
idolatria contraria alla decenza del Corano. Alcuni Musulmani hanno
intravisto una relazione erotica tra Dio e Muhammad in base al seguente
hadith (detto profetico): “Se non fosse per te, mio amore, non avrei creato
l’universo”. Si tratta di una forma-pensiero. Milioni di Musulmani esaltano
il loro sentimento di amore per Muhammad durante il rituale del Milad,
l’anniversario
della Sua nascita. Le loro parole sono simili alla serenata tra due
innamorati: “Oh Muhammad, la Tua grazia è impareggiabile, non l’abbiamo mai
vista prima. Oh Muhammad, mio amore, tu sei la sposa che batte nel mio
cuore. Tu sei la bevanda salutare per i nostri cuori.” Queste liriche
contengono un certo numero di espressioni erotiche che potrebbero far
arrossire perfino Romeo dall’invidia. Muhammad è morto circa 1400 anni fa e
molti credono che stia ancora bene in salute. Ciò risulta dalle parole
pronunciate durante le loro preghiere, le quali invocano la stessa dignità,
abbondanza, ricchezza e sufficienza che Dio aveva accordato ad Abramo. Prima
dell’inizio delle preghiere collettive delle feste di Aidu-l-Fitr e di
Aidu-l-Adha, si salmodiano le grida di giubilo dei compagni del Profeta che
conquistarono la Mecca. Questi canti contengono le richieste fatte a Dio di
prosperità e di benessere per le famiglie, le mogli, i discendenti e gli
aiutanti dei compagni del Profeta di quel tempo. Da una prospettiva storica,
è un rituale totalmente irrilevante e superato in relazione al contesto
attuale. L’adorazione superflua per Muhammad è in contrasto con le
prescrizioni del Corano. Il Corano contiene molti versetti che ingiungono ai
Musulmani di non fare alcuna differenza tra i Profeti (4:152, 2:136). Esiste
anche una ricompensa che Dio ha promesso a coloro che si asterrebbero dal
fare distinzioni, e se qualcuno non lo considerasse il più grande tra tutti
i Profeti, sarebbe ricompensato ugualmente. Ma l’istinto di idolatrare
spesso sostituisce l’insegnamento del Corano.

“Non sono altro che un uomo come voi. Mi è stato rivelato che il vostro Dio
è un Dio unico” (Corano 18:110)

Se non si sono distrutti i propri idoli interiori, le forme pensiero,
abbiamo l’autorità di distruggere le statue e le icone altrui? Era questo il
messaggio di Hazrat Yaqub Sarfi.

Jalal-d-Din Rumi pone sullo stesso piano i maestri e gli idoli. Per Rumi il
maestro non è inferiore a un idolo, ma nemmeno superiore. Egli sostiene che
Allah l’Altissimo abbia decretato che gli idoli siano il tramite
dell’adorazione
sincera, benché restino inconsapevoli.

(Jalal ad Din Rumi, L’essenza del Reale, Fihi ma fihi, Libreria Editrice
Psiche, pag.197, 1995)

Nel Mathnawi questo concetto è spiegato in maniera più esaustiva:

“Vieni, ascolta, perché io sono un messaggero inviato per chiamare a Dio:
come la morte, io sono l’assassino del desiderio, io non sono sottomesso al
desiderio.
E se si trova del desiderio in me, io lo domino: io non sono schiavo del
desiderio per il viso di un idolo.
Ma la natura più profonda spezza gli idoli, come fece Abramo, l’Amico di
Dio, e tutti i Profeti.
Oh schiavo, se io penetro nel tempio degli idoli, è l’idolo, e non io, che
si prostrerà in adorazione.
Ahmad (Muhammad) e Bu Giahl andarono entrambi nel tempio degli idoli; ma
esiste una gran differenza nei due comportamenti.
Muhammad entra, e gli idoli si prosternano davanti a lui; Bu Giahl entra ed
è lui a inchinarsi dinanzi a loro, come tutti d’altronde.
Questo mondo, associato al desiderio, è un tempio di idoli: è una dimora in
cui si trovano contemporaneamente i Profeti e gli infedeli.
Ma il desiderio è schiavo dei santi: l’oro non brucia nel fuoco perché è
moneta di ottima lega estratto dalla miniera. Gli infedeli sono un tipo di
lega, mentre i santi sono oro puro.”

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