Occuparsi, non preoccuparsi

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Occuparsi, non preoccuparsi

di Maurizio Sabbadini

Realizzazione: Maurizio Sabbadini.
Sostegno: Mario Rizzi.

(Vivete nel modo giusto senza preoccuparvi sul come salvarvi
da una catastrofe, sarà Dio stesso che vi salverà)

“Un discepolo ha perciò vari obiettivi da conseguire:
(…) Liberarsi da ogni preoccupazione.

Si tenga presente che questa si basa su ciò che è personale e deriva
da mancanza di distacco, e da una troppo pronta risposta alle
vibrazioni dei mondi inferiori.
(…) Coltivare il distacco.

Tutti dovrebbero dare particolare importanza al distacco.
Dato l’attuale sviluppo della mente, non è tanto la mancanza di
discernimento che costituisce un ostacolo per i discepoli moderni,
quanto la mancanza di distacco.
Distacco significa aver conseguito uno stato di coscienza in cui è
realizzato l’equilibrio e in cui non domina né il piacere né il
dolore, sostituiti dalla gioia e dalla beatitudine. Dovremmo
riflettere molto su queste parole, poiché è necessario sforzarsi al
massimo per ottenere il distacco”.

Da “Iniziazione umana e solare” di A.A.Bailey – pp. 93-102 – Editrice
Nuova Era, Roma

Sommario

Occuparsi, non preoccuparsi. 1
Sommario 2
Siamo malati di preoccupazione 3
Preoccupazione e paura 3
La preoccupazione ci esclude dal presente 4
Uno spiraglio si apre 4
Noi, gente di poca fede 5
Avere o essere ? 6
è necessario ESSERE PER AVERE 6
Non ci resta che provare per vedere se è vero! 7
UN PECCATO CHE ORMAI HA POCO DI ORIGINALE 7
Solamente ESSENDO, NOI AVREMO 7
E’ solo con l’azione che sviluppate la vostra coscienza 8
FEDE E AMORE 8
COMINCIAMO ALMENO A NON PREOCCUPARCI 10
UN segreto è eliminare le aspettative 10
Non vi preoccupate dunque per il domani 11
APPENDICE 13
Tu sei un anima che si giova del tuo corpo, Non preoccuparti! 13
Guarisci dalle paure con l’aiuto della tua anima! 13

Siamo malati di preoccupazione

Penso non sia azzardato ritenere che uno dei più gravi malesseri di
cui oggi soffre l’umanità, responsabile perverso di deficienze e
malesseri, capostipite di nevrosi, di scompensi psichici, forse di
tante malattie, sia la cosiddetta “preoccupazione”.

Non v’è praticamente campo in cui la preoccupazione sia assente e
tutti ne utilizzano a piene mani. L’intercalare “Sono preoccupato
per…”, oppure “La cosa mi preoccupa”, sono comunissimi, e nessuno fa
più caso alla loro pericolosità.
Ma ciò che maggiormente potrebbe amareggiare l’attento osservatore è
un paradosso: le sole eccezioni, ovvero ciò di cui ci si preoccupa di
meno, sono proprio quelle uniche tre o quattro cose, a pensarci
veramente fondamentali per ognuno, che diamo per scontate, e della cui
importanza ci rendiamo puntualmente conto – con tanto di sorpresa e
disperazione – solo dopo averle definitivamente perdute (per esempio
la salute o, in più di un caso, l’anima stessa).

Troviamo preoccupazione in ogni dove, in noi, negli amici, nei
parenti, alla televisione, siamo soffocati da questa specie di
malapianta. Reiteratamente ci ritroviamo:
preoccupati per il generico domani,
preoccupati di non essere all’altezza,
preoccupati di non avere-possedere abbastanza,
preoccupati di non fare in tempo,
preoccupati per i figli,
preoccupati per gli altri (di come siamo noi, un pò meno),
preoccupati per il lavoro,
preoccupati per le fortune altrui,
preoccupati di non avere chiari tutti i concetti,
preoccupati per mille insignificanti e vane futilità,
potremmo continuare a lungo.
Sono questi i comuni contenuti di tante affermazioni, frequentemente
associate all’alibi della “sfortuna”, alla frase “…sai, non ho
rischiato, perché mi sono detto: e se succede come a quel mio amico
cui ….”, oppure “…e se accade come quella volta che…”, oppure
“… e se mi capitasse di nuovo… “.
Ci manca la fiducia, non ci rendiamo neanche conto che siamo
preoccupati prima ancora di decidere cosa faremo.

Preoccupazione e paura

“Pre” occuparsi significa “occupare-prima”, vale a dire, in molti
casi, avere paura anticipatamente.
La paura è un’emozione utile, serve a non commettere imprudenze, a
preservare sano il nostro corpo onde permetterci di continuare a fare
esperienza nel mondo. Serviva ai nostri antenati per scampare agli
improvvisi attacchi delle fiere, e ci serve a volte anche oggi per
scampare agli attacchi dei … nostri simili.
Ma una sana paura vale in un determinato momento, non può essere
ininterrotta, perché paralizzerebbe qualsiasi altra funzione
cerebrale; è stata pensata per scaricare adrenalina nel sistema
circolatorio e poter sottrarsi più velocemente al pericolo.
La “paura che non serve” e i suoi figli, panico, angoscia, timore,
ansia, affanno, agitazione, inquietudine, connotano ciò che chiamiamo
preoccupazione.

E’ utile a questo punto definire la differenza tra paura e
preoccupazione, in quanto, sì, connaturate, ma essenzialmente
distinguibili.
La preoccupazione è uno stato mentale, una condizione, una
disposizione, un modo di essere che diventa col tempo abitudine,
ovvero modalità usuale di comportamento.
La paura (o le paure) è ciò che qualifica questo stato mentale, è il
veleno che nutre la malapianta, è la sostanza tossica che avvelena
lentamente lo spirito dell’uomo, entrando quotidianamente
nell’organismo attraverso “l’accesso” costituito dalla preoccupazione.
L’una è il metodo e l’altra il merito.

In questa sede disquisiremo solo della preoccupazione, di questo stato
mentale, non delle varie paure e tipologie ad essa collegate (come
ansie, nevrosi, disturbi della psiche e malattie mentali) per le quali
– più che una lettera o un saggio – forse sarebbe necessaria
un’enciclopedia.

La preoccupazione ci esclude dal presente

Facendo mente locale per qualche secondo possiamo sperimentare su noi
stessi, e con facilità, cosa significa preoccuparsi. Proviamo ad
analizzare il relativo stato d’animo: significa palesemente
irrigidirsi su un pensiero fisso e persistente, ovvero bloccare spazi
e potenzialità della nostra mente altrimenti utili e sfruttabili per
vivere meglio il presente.
Come un telefono occupato non ci permette di comunicare qualcosa
d’urgente ad un altro essere umano, così una mente “pre-occupata” non
permette il contatto tra l’esterno (sensazioni) e il nostro interno
(percezioni).
In tal guisa, tagliati fuori dal presente, difficilmente possiamo
prendere serene decisioni sulla base degli elementi da esso derivanti
e da noi male interpretati.
Ma ovviamente non finisce qui, e poiché tali decisioni influenzano il
futuro, s’innesca una spirale perversa che attiva ulteriore
inadeguatezza all’ambiente, ovvero altra preoccupazione per chi non
conosce altre modalità di atteggiamento verso l’esistenza.
Come innescare una spirale “virtuosa” ed uscire dall’impasse?
Come modificare un vestito mentale stretto e inadeguato, in grado di
causare danni irreversibili se portato troppo a lungo?

Dalla nascita immerso in questo “modus operandi”, circondato da
individui che consideravano normale tale condizione, intuendo che
tutto ciò non poteva essere, né sarebbe mai potuto diventare,
“adatto”, ad una vita quantomeno serena, su queste istanze mi sono a
lungo interrogato, nel tentativo, sano quanto egoistico, di
salvaguardare almeno me stesso.

Uno spiraglio si apre

Questa riflessione nasce sulla scorta di tale esigenza. Un po’ di anni
fa cominciai a cercare qualche utile indicazione sul modo di
affrontare il problema.
Dovevo fare da solo, perché ovunque mi girassi, parrocchia – sic!-
compresa, non facevano altro che inneggiare, che incrementare il
quantitativo della nostra all’oggetto.
Decisi di rileggere, tanti anni dopo avere frequentato gli ambienti
oratoriali, con rinnovata motivazione, il Nuovo Testamento: una nuova
e più consapevole spinta, sorta da necessità contingente, ma
inevitabilmente attigua alla ricerca spirituale, mi faceva sentire il
bisogno, dopo tanto tempo, di approfondire questo messaggio, da sempre
sotto gli occhi di tutti, ancor più sotto i nostri di
“italiani/cattolici/battezzati” e, forse proprio per questo,
sottovalutato e accantonato, se non del tutto ignorato.

Durante la lettura del vangelo secondo Matteo, un paragrafo mi colpì
molto. Per più sere lo rilessi, sicuro che tra le sue righe ci fosse
la risposta a molti miei dubbi, se non proprio il segreto della
serenità (e se – mi chiedevo – non fosse stato anche il segreto della
tanto “agognata” felicita?).
Molti lo ricorderanno, s’intitola “Non preoccuparsi” (Matteo, 6.25).
Un rischio da evitare, per noi moderni, sarebbe tradurlo in un
semplice ma potentissimo “chissenefrega”.
Ma il suo vero significato appare evidente al lettore attento. Esso è
di una profondità e di un’efficacia illuminanti. Definirlo
“rivoluzionario”, rispetto al nostro modo di pensare alla vita, è
persino riduttivo.
In esso il Cristo così ci esorta:

«Perciò vi dico per la vostra vita non affannatevi di quello che
mangerete o berrete, neanche per il vostro corpo di quello che
indosserete; non vale forse la vita più del cibo e il corpo più del
vestito?
Guardate gli uccelli del cielo, non seminano non mietono, né
raccolgono in granai, eppure il vostro padre celeste li nutre.
Non contate voi forse più di loro?
E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola
alla sua vita?
E perché vi affannate per il vestito?
Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non tessono.
Eppure vi dico che neanche Salomone in tutta la sua magnificenza
vestiva come uno di essi.
Se Dio veste cosi l’erba del campo, che oggi è e domani sarà gettata
nel fuoco, quanto più vestirà voi, gente di poca fede?
Non affannatevi dunque dicendo: “Che cosa mangeremo? Che cosa berremo?
Che cosa indosseremo?
Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste
infatti, sa che ne avete bisogno ».
(Sono sufficientemente certo che Cristo non avrebbe mai potuto
pronunciare qualcosa di traducibile con la parola “pagani”, che ha
proprio il significato di “appartenente a religione diversa dal
cristianesimo” che per altro non ancora esisteva, e che intendesse
qualcosa di simile a “non credente in Dio”).

Noi, gente di poca fede

Ben sappiamo noi, invece, di essere preoccupati, e quasi
esclusivamente, da ciò che il Cristo ci indica chiaramente come
superfluo: denaro, beni, successo, materia in genere.
Tutte cose che – come intuiamo, ma senza esserne conseguenti – non ci
porteremo dietro dopo aver varcato la fatidica soglia, tutte cose, per
l’appunto “cose”, che non aggiungeranno un’ora alla nostra vita
(casomai ne toglieranno, e quante!).
E poiché non conteranno nulla per “ciò che di eterno” noi siamo, con
contano nulla neanche oggi.
Non che le cose, gli oggetti, gli utensili di cui ci circondiamo siano
inutili o da evitare. Tutt’altro. L’umanità ne ha fatto tesoro e le ha
giustamente perseguite dai suoi albori..
Tuttavia si tratta solo strumenti, mezzi, piaceri, nei casi migliori
utilità, per operare più o meno facilmente.
Ma per ciò che noi siamo, nel profondo, poco, praticamente nulla
possono fare in positivo.
Molto possono invece in negativo:
possono essere usati in modo contrario all’interesse dell’uomo e dell’umanità,
possono diventare strumenti per esercitare potere su altri individui,
possono innescare disastrose competizioni al solo fine d’impossessarsene,
accendono infine la paura di esserne privati, che nutre la
preoccupazione di “diventare inferiori” (meno ricchi o più poveri, in
rigoroso ordine di “gravità” d’atteggiamento).

Se noi avessimo veramente un po’ di fede e ci sentissimo realmente
“figli di Dio”, ci comporteremmo così?
Se riuscissimo ad afferrare che in noi vibra un’anima immortale,
potremmo essere preoccupati?
Può un anima immortale avere paura?
La risposta dovrebbe essere no, ma il problema è che alla nostra anima
non guardiamo, dentro di noi non andiamo, il nostro essere lo
reprimiamo confondendolo con il ruolo, il successo, il potere, il
denaro e i beni che possediamo.

Avere o essere ?

Dunque, è evidente in questo brano del vangelo la connessione
all’eterno dilemma di tutti coloro che non perseguono la strada della
saggezza: avere o essere?
Il che non significa necessariamente essere coerenti nei comportamenti
– sappiamo come sia difficile anche per chi intraprende il “cammino” –
ma perlomeno conoscere la giusta risposta.

Né è lecito confondere quest’appello, come già altri erroneamente
fecero, con un invito alla supina attesa di una “Divina provvidenza”,
tale per cui una persona parrebbe autorizzata a sedersi, a non fare,
in attesa che ciò che gli è dovuto piova dal cielo.
Anche perché il seguito dell’esortazione è illuminante per chi sa
coglierne l’implicito incitamento all’azione:

«Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose
vi saranno date in sovrappiù ».

Se sul quale possa essere il modo per cercare il regno di Dio e la sua
giustizia, possono esservi molteplici interpretazioni, possiamo
comunque trarne una ragionevole conseguenza rispetto alla precedente
domanda:

è necessario ESSERE PER AVERE

Saper essere autentici, cercare la conoscenza che è dentro di noi,
seguire la legge dell’altruismo e della solidarietà, agire
coerentemente in giustizia e verità, operare con fede e fiducia,
convivere pacificamente e senza affanni, seguire la strada che porta
al divino.
Potrebbero essere queste delle attività utili a fare di noi delle
persone che privilegiano la sostanza sull’apparenza?
C’è un metodo semplice per scoprirlo, un riscontro inequivocabile: se
le nostre azioni sono ispirate dai giusti principi dovremmo avere
sempre ciò che ci occorre e anche di più, senza doverci preoccupare di
nulla.
Non ci resta che provare per vedere se è vero!

L’impresa é resa ardua dall’ambiente in cui viviamo. Purtroppo siamo
accerchiati da chi propone l’esatto contrario: programmi televisivi,
letture, film, opinioni autorevoli, quiz e toto-vari, persino amici e
parenti, vogliono convincerci che l’obbiettivo è possedere, che la
felicità è nel danaro, che la coscienza è un inutile optional. Tutto
ci spinge in continuazione verso un AVERE SENZA ESSERE.
Quasi inconsapevolmente veniamo indirizzati all’apprezzamento
d’innumerevoli varianti del cosiddetto “progresso”, tra cui il
desiderio di godere senza pagare prezzi, il compiacimento per
l’iniquità che non ci tocca, il gusto per la violenza verbale – se non
fisica – fine a sé stessa, la lotta per l’esclusivo tornaconto in
barba al prossimo, a volte addirittura l’invidia verso coloro che
sfruttando e frodando calpestano dignità e libertà altrui.

L’avidità, la maldicenza, l’arrivismo, vengono contrabbandate come
normali caratteristiche umane, se non addirittura come invidiabili
qualità di persone di successo (si pensi per esempio alla serie
“Beautiful” o al “Grande fratello”).

UN PECCATO CHE ORMAI HA POCO DI ORIGINALE

Viene anche da pensare, volgendo lo sguardo alla metafora della genesi
biblica, che il problema, o uno dei problemi di questa umanità sia
ancora il “peccato originale”, che di originale non ha più molto.
Mi riferisco al desiderio sfrenato di gustare del frutto dell’albero
della conoscenza senza voler aspettare che il seme germogli, che le
radici prendano piede, che nascano rami e foglie.
Tutto deve essere facile, la capacità di soffrire la lasciamo al terzo
mondo, la determinazione a quelli che ci fregano, e per il
discernimento, il buon senso e la capacità critica – merci preziose e
rarissime – firmiamo cambiali in bianco a televisione e faccendieri
vari.
Il tutto mentre noi, nel nostro piccolo… molto piccolo, ci
preoccupiamo, ci difendiamo, ci corazziamo, accaparriamo, invidiamo,
odiamo, cintiamo il terreno sul quale viviamo, alienandoci così la
possibilità di vivere “una vita degna di essere vissuta”.

Solamente ESSENDO, NOI AVREMO

“E’ per questo che prima di tutto bisogna imparare e vivere ciò che
insegna la Legge divina. Apprendere la saggezza, il dominio,
riconoscere la verità ed integrarla nel vissuto quotidiano, piuttosto
che forzare lo sviluppo di qualche energia.
E’ solo lavorando nella giusta direzione che potete sviluppare quello
che già possedete, sviluppare un livello superiore di coscienza, e
diventare perciò capaci di utilizzare le energie che gli
corrispondono.
Più sviluppate un livello di coscienza e più le vostre energie
aumentano e si diffondono. Più vi sviluppate spiritualmente e più
potrete ad esempio, progettare, concretizzare i vostri piani e
conquistare dei durevoli conseguimenti.
Dunque non perdete troppo tempo a percorrere delle strade che si
avvalgono di tecnicismi, come lo sviluppo della conoscenza fine a se
stessa o del potere individuale.
Se volete progredire lavorate ogni giorno allo scopo di sviluppare la
vostra coscienza e non altre cose. Le altre cose vengono di
conseguenza, naturalmente, perché fanno parte del piano di coscienza.

E’ solo con l’azione che sviluppate la vostra coscienza

Se insisto tanto sul modo in cui è necessario comprendere le cose, è
solo perché si tratta di un elemento estremamente importante.
Infatti, voi, agite o non agite, fate o non fate, vi prendete delle
responsabilità o non le prendete, proprio in funzione di come avete
compreso una data informazione.
Ed è soltanto da ciò che fate, e da come lo fate, che potete
sviluppare la vostra coscienza.
La coscienza, inizialmente, invia nella personalità un certo tipo di
vibrazioni che verranno raccolte in proporzione alle sue capacità, ai
suoi limiti ed alla sua grandezza.
Quando più voi lavorate per nobilitarvi, per diventare più degni, più
grandi, più capaci di discernere, quanto più – e automaticamente –
permettete alla vostra coscienza di espandersi verso livelli più
elevati e distaccarvi pertanto dalla coscienza di massa.
Più espandete la vostra coscienza, tanto più aumenterà la vostra
capacità di comprendere; questa capacità, a sua volta, controllerà le
vostre reazioni emotive e vi aiuterà a progredire sul sentiero
evolutivo.
Se qualcuno cerca di “crescere” avvalendosi soltanto di strumenti
tecnici io gli dico: “Sviluppa invece la tua coscienza!”. Non
esistono, infatti, altri metodi validi.”

Solamente ESSENDO, NOI AVREMO, solo inserendo nella nostra mente il
“programma corretto”, la giusta meta, e operando nel raggiungerla
rispettando i Principi Immortali che sono impressi a lettere di fuoco
nella nostra coscienza, realizzeremo l’obiettivo, ottenendo di più,
molto di più di quello che ci attendevamo inizialmente.

Però, per gustare questo frutto, bisogna tirarsi su le maniche, ci si
deve organizzare, si deve pianificare il proprio miglioramento,
bisogna sviluppare attenzione e consapevolezza, bisogna operare in
qualità altruistica e buona volontà, questo è lo sforzo richiestoci,
il giusto prezzo da pagare.
Soprattutto non dobbiamo essere ”gente di poca fede”, dobbiamo
accrescere la fede in noi stessi, nella nostra enorme potenzialità,
nella nostra innata matrice divina che tutto può.

“La realtà di questa divinità innata spiega l’impulso del cuore di
ciascuno, che tende a migliorare, sperimentare, progredire, ad
accrescere la conoscenza e salire verso vette superiori: non c’è altro
modo di spiegare la capacità dello spirito umano di emergere dalla
tenebra, dal male e dalla morte, per entrare nella vita e nella
bontà”.

FEDE E AMORE

Già, la fede in noi stessi. Quanta poca ce n’è, di quella vera, al di
là delle apparenze.
Si faccia mente locale al primario insegnamento di Cristo:
“Ama il prossimo tuo come te stesso”.
è un precetto bellissimo, è giusto, è vero ma…. e se non amiamo noi stessi?
Preoccuparsi, avere scarsa fiducia in sé stessi, significa
primariamente non accettarsi per quello che si è, non accettare i
propri limiti, ossia non amarsi. Perché se amare significa dare senza
riserve, senza aspettarsi nulla in cambio, ciò applicato a noi stessi
prevede l’assoluta indipendenza dal risultato dei nostri sforzi!
Dopo aver fatto il nostro meglio per agire correttamente, per vivere
ciò che insegna la Legge divina lavorando nella giusta direzione, per
diventare più degni, più grandi, più capaci di discernere, non
possiamo che volerci bene, essendo soddisfatti di ciò che siamo e dei
nostri sforzi. Questo è l’unico risultato che ci deve interessare,
tutti gli altri non dipendono solo da noi, e quindi sono un “di più”
inatteso nel caso in cui pervengano.
Ma se non ci amiamo, se siamo sempre insoddisfatti e preoccupati per
il nostro apparire agli occhi altrui e per le nostre performance nella
materia, siamo semplicemente fregati in partenza.

Quindi vogliamoci bene, accettiamoci per ciò che siamo senza mai
fermarci o aspettare chissà che o chissà chi.
Sforziamoci, anzi occupiamoci di migliorarci sempre di più, senza
preoccuparci di quale sarà il risultato, senza essere ansiosi rispetto
al successo del nostro sforzo.
Questo significa volersi bene! Questo è quell’amore verso sé stessi
che serve ad amare anche il prossimo.
Solo apparentemente la preoccupazione di tipo egoistico (il nostro
apparire, il nostro emergere, ecc.) può essere scambiata per un
volersi bene, in realtà è esattamente il contrario poiché nasce dalla
mancata comprensione e conseguente accettazione dei nostri limiti e
interconnesse virtù, e in più si nutre dell’insicurezza derivante.

Il passo successivo alla presa di coscienza di ciò che siamo, prevede
il continuo impegno a migliorare proprio quegli aspetti riconosciuti
più deboli, proprio quelle sfide che la vita pare riproporre più e più
volte, nell’attesa di quella profonda comprensione spirituale che
caratterizza il superamento di uno stato di coscienza.
E nell’ipotesi che, malgrado gli sforzi, malgrado i tentativi, il
superamento non avvenisse secondo le nostre aspettative (per altro
poco attendibili), non importa! Vale aver tentato al meglio delle
proprie capacità e forze, nel rispetto dei vincoli posti dalle
responsabilità terrene.
Anche perché, ciò che conterà, alla fine dell’esistenza, saranno gli
sforzi fatti, non i risultati ottenuti. I risultati in questione fanno
parte di quei valori “misurabili” pertinenti alla materia mondana, e
non attengono ai mondi superiori.
Tali sforzi prescindono dai talenti ricevuti e, proprio per questo,
danno l’idea della grande giustizia del Piano Divino.

E’ palese che un atteggiamento di tal fatta prevede una grande umiltà
per chiunque calchi il suolo terrestre. Mi domando quanti di noi siano
in grado di pensare: “Se non ho quello che vorrei avere, è perché non
sono ancora quello che dovrei essere”?
Pur considerando che la prima parte della frase sia tutt’altro che
ascetica ancorchè fortemente legata al mondo del desiderio, non penso
che siano molti.
In quanti pensiamo che il compito sia far fruttare i “talenti”
ricevuti, e che bisogna darsi da fare sempre di più se ci si ritrova
con più talenti degli altri, invece di bearsi stoltamente della
propria superiorità?
Lasciamo – alla luce della sua complessità e difficoltà – giustamente
sospeso il quesito.

COMINCIAMO ALMENO A NON PREOCCUPARCI

Il primo passo verso la “rivoluzione copernicana” prevede di pensare
bene, perché non solo – rifacendoci al sommo pensiero cartesiano –
“pensiamo quindi siamo”, ma siamo ciò che pensiamo.
Se siamo continuamente preoccupati e preda di paure diventiamo
esattamente ciò che da queste emana, squallide controfigure dei “figli
di Dio” che dovremmo essere, di quelle creature in cui Lui vorrebbe
compiacersi.
Così, “male occupati”, impossibilitati a conoscere e approfondire ciò
che richiede la più totale dedizione, la mente libera, attenta e
aperta, come possiamo riscattarci?

Per cui cominciamo ad abbeverare la nostra mente senza preoccuparci di
conoscere consapevolmente solo l’apparenza per poi agire ancora più
inconsapevolmente.
Approfondiamo la sostanza dell’esistenza, i principi immortali che la
guidano, che guidano l’uomo dalla nascita e che, attraverso
l’esperienza, possono portarlo all’elevazione della coscienza.
E’ inevitabile che le soluzioni dei nostri problemi sopraggiungano
automaticamente, se saremo efficaci nelle azioni, ossia nei pensieri
che a monte le hanno generate.

Inoltre, non dimentichiamo la semplicità, perché le preoccupazioni
sono anche figlie delle complicazioni inutili.
Tutti noi conviviamo con un personaggio assai peculiare: nei pressi di
uno dei tanti sottoscala della nostra mente, situato in un buio
bugicattolo, dotato di una piccola scrivania polverosa, ingombra di
pratiche, si trova un impiegato stressato e deprimente, di fantozziana
memoria.
Sulla porta una targa: “U.C.A.S. – Ufficio Complicazioni Affari
Semplici – Offresi costose e cervellotiche soluzioni per problemi
immaginari”.
Non facciamo fare carriera a quell’impiegato!

UN segreto è eliminare le aspettative

Una delle “semplici” soluzioni riguarda certamente l’eliminazione – o
almeno la riduzione – delle aspettative. Tanta preoccupazione è
proprio causata dall’attesa che ciò che abbiamo fatto per gli altri ci
venga inequivocabilmente riconosciuto, nella vana illusione che il
nostro dare possa essere giustificato esclusivamente da un ritorno di
qualche tipo.
Applichiamo questo approccio non solo alla materia ma anche ai sentimenti.
Tanti umani sono perennemente in attesa che il mondo si accorga di
quanto loro stanno facendo e, senza fallo, glielo riconosca. Sono
inevitabilmente – prima – dei preoccupati e – dopo – dei frustrati
cronici.
Spesso diventano astiosi col mondo intero e con Dio, creando nefasti
presupposti al loro futuro.

Lavorare per ridurre le aspettative è un’attività non solo utile
all’individuo, ma propedeutica all’apprendimento dell’unico tipo di
amore che realmente possa definirsi tale quello di cui già abbiamo
parlato, quello che si offre senza aspettarsi alcun ritorno.
(Purtroppo la parola “amore” è oggi talmente abusata che ha perso i
suoi veri connotati e – per quanto mi riguarda – è da usare il meno
possibile).
A tal proposito, e sulla assoluta necessità di eliminare le
aspettative e la preoccupazione che ne consegue, voglio proporvi
questo illuminante esempio attinente al grande filosofo orientale Sri
Yukteswar, la cui esaltante e potente figura viene mirabilmente
tratteggiata da Yogananda nel suo libro più famoso. L’autore, di cui
Yukteswar è il Maestro, si è allontanato per un lungo periodo senza la
di Lui approvazione e al ritorno…

“Guruji, sono qui”. La mia espressione vergognosa era più eloquente
delle mie parole.
“Andiamo in cucina a vedere se c’è qualcosa da mangiare”.
I modi di Sri Yukteswar erano così naturali come se ore, e non giorni,
ci avessero separati.
“Maestro, vi devo aver dato un dispiacere abbandonando così
bruscamente tutti i miei doveri, qui. Credevo che foste in collera con
me”.
“No, certo! La collera nasce solo dai desideri contrariati.
Io nulla attendo dagli altri, perciò le loro azioni non possono essere
in contrasto con i miei desideri. Non saprei disporre di te per i miei
fini personali.
Sono felice solo se tu sei veramente felice”.
“Signore, si ode parlare in modo vago di amore divino, ma oggi per la
prima volta ne vedo un esempio concreto nella vostra angelica
personalità! Nel mondo, nemmeno un padre perdona facilmente al figlio
se questi, senza alcun preavviso, abbandona gli affari paterni. Ma voi
non mostrate il più lieve rancore, nonostante abbiate dovuto trovarvi
in un serio impaccio per le molte cose incompiute che mi son lasciate
dietro”.
Ci guardammo l’un l’altro negli occhi, dove lucevano delle lacrime.
Un’ondata di beatitudine mi sommerse…”.

Io ho trovato in queste righe un esempio mirabile di quale dovrebbe
essere il giusto atteggiamento, in tutti i rapporti affettivi senza
dubbio, ma anche verso il futuro, nei confronti della vita e nei
confronti di Dio stesso.
Sono il primo ad ammettere quanto sia arduo tale comportamento,
tuttavia un certo sforzo in tal senso sarebbe oltremodo premiante:
pensate alla gioia procurata dal ricevere qualcosa che non ci si
aspettava, applicatelo al novanta per cento di ciò che vi aspettate, e
… il sorriso che non ci stancheremmo mai di vedere nei bambini che
inaspettatamente ricevono un regalo qualsiasi – anche il più
insignificante – potrebbe apparire anche sul nostro volto
ininterrottamente corrucciato.

Non vi preoccupate dunque per il domani

Pensare che nella pagina di un testo, che oltretutto abbiamo
facilmente a portata di mano, sia racchiuso il segreto della felicità
forse non è poi così azzardato.
La Conoscenza, la Verità, la Via, probabilmente sono le stesse da
milioni di anni.
Il Vangelo, e con esso tanta altra millenaria saggezza, è a
disposizione da almeno duemila anni.
Siamo noi a doverci portare al livello giusto per essere pronti alla
comprensione.
Il libro è lì, come la Verità. Essa è lì da sempre, sta solo a noi
evolverci verso di Lei.

Questa è la frase che conclude il paragrafo del Vangelo di Matteo:

« Non vi preoccupate dunque per il domani, poiché il domani avrà già
le sue inquietudini. Basta a ciascun giorno la sua pena ».

Viviamo quindi alla giornata, consapevoli del presente, come se ogni
momento fosse l’ultimo, perché questa è la realtà, nella materia, nel
mondo terreno, tutto è temporaneo e impermanente.
“L’unica costante, nella vita, è il cambiamento”, disse Confucio.
Concorderete che ciò è di un’evidenza al di là d’ogni dubbio.
Infatti ciò che è eterno (ovvero costante) non si trova nella materia.
La materia ci serve solo ad arricchire ciò che di eterno è in noi.
Potremmo persino arrischiarci a dire che noi, in quanto corpi fisici,
siamo solo lo strumento di cui “la parte eterna di noi” si serve nel
mondo della forma.
Probabilmente è questa è la ragione per cui siamo qui, a dibatterci sul pianeta.
Ed è una motivazione che non possiamo disattendere, perché fa parte di
noi, perché giustifica il nostro “essere in vita”.
Qualcuno disse: “L’importante è che la morte mi colga vivo”. L’unico
modo per soddisfare questo legittimo desiderio è continuare a
percorrere il sentiero su cui siamo, per quanto esso possa apparire
tortuoso e irto di ostacoli, contenti di non essere statici, anzi –
oserei dire – compiaciuti di poter godere dell’opportunità di andare
verso la meta successiva.
Quindi affrontiamo i problemi quando si presentano, provando il gusto
di risolverli, ringraziando, anzi, per l’opportunità che abbiamo di
poter godere di ciò che ci circonda, che mai e poi mai può essere
poco, dovuto o sottovalutabile.

Sbagliato quindi “pre-occuparsi”, giusto invece “occuparsi” cercando
il “Regno di Dio”, ovvero gestire passo dopo passo noi stessi e le
nostre attività, al meglio del nostro corpo, della nostra mente, delle
nostre emozioni e del nostro spirito-anima.
Consapevoli di aver fatto del nostro meglio con gli strumenti
(talenti) a nostra disposizione, potremo alfine sentirci tranquilli ed
in pace con noi stessi.

E se proprio vogliamo fare qualcosa prima, tanto per anticipare,
proviamo a coltivare un sano distacco, proviamo perlomeno a prendere
distanza dalle inutili ed egoistiche paure, e finalmente
“PRE-LIBERIAMOCI”. Abbiamo solo l’imbarazzo della scelta!

APPENDICE

Tu sei un anima che si giova del tuo corpo, Non preoccuparti!

Che senso ha il tuo affanno?
Non c’è tempo comunque, se ti metti su quella strada, se non vivi il
presente, se sei assorbito nel passato e preoccupato per il futuro e
ti spezzi il cuore e provi solo pietà…

Solo nella realtà vera tu non sei mai solo…
Il passato deve essere ricordato e poi dimenticato. Lascialo andare…

Come puoi osservare con freschezza e con chiarezza le cose, se sei
oppresso da tutti quei pensieri?
Come fai se ti occorre imparare qualcosa nuovo, magari con una
prospettiva nuova?

Sei vissuto in molti corpi e in molti tempi diversi.
Chiedi dunque al tuo sé perché è così pauroso…

Poniti queste domande: cosa ho da perdere?
Qual è la cosa peggiore che possa capitarmi?
Sarei contento di vivere in questo modo per il resto della mia vita?
Rispetto alla morte, questa decisione è davvero così rischiosa?

Guarisci dalle paure con l’aiuto della tua anima!

Smetti di tornare sempre alle rimuginazioni, ai vecchi pensieri.
Non pensare più…
Medita..
Vedi come tutto è interconnesso e interdipendente.
Individua l’unità non le distinzioni. Vedi il tuo vero sé. Vedi Dio…

Avverrà la guarigione.
Comincerai a sfruttare facoltà della tua mente in precedenza inutilizzate.
E riuscirai a vedere. E capirai. E crescerai in saggezza.
Allora sì che verrà la pace.

Non lasciare che la depressione o l’ansia frenino la tua crescita.
Rendi più acuta la tua attenzione.
Ristabilisci l’ordine dei tuoi valori.
Ricorda tutte quelle cose che non devono essere date per scontate.
Sappi cambiare prospettiva, e rammenta ciò che è importante e ciò che
lo è meno.
Esci dalla carreggiata.
Ricordati di sperare.

Non perdere mai il coraggio di correre dei rischi.
Tu sei immortale.
Nulla potrà mai farti male veramente

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