Morire ad occhi aperti – Il coraggio dell’incontro

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Morire ad occhi aperti – Il coraggio dell’incontro

(Marie de Hennezel)

Partendo dalla commovente esperienza della morte dell’amico e filosofo Yvan
Amar, Marie de Hennezel, psicologa e psicoterapeuta francese, che ha
lavorato per anni all’Istituto di cure palliative per malati terminali di
Montsouris, a Parigi, sviluppa una riflessione profonda sulla morte e sul
morire, che è un formidabile messaggio di speranza, compassione e amore.

Morire a occhi aperti è intenso, commovente, mai banale o lacrimevole; è
profondo, non scontato, con molti spunti per una riflessione etica e
sociale attenta e completa. Oltre la vicenda umana di Yvan, la tesi del
volume è che può esserci una strada alternativa all’eutanasia: ciascuno può
preparare la propria morte, cambiare atteggiamento di fronte a essa, può
addomesticarla, non negarla, imparare a morire e a vedere morire gli altri,
assicurando vicinanza e ascolto a chi si avvicina all’ultimo passo e
rispettandone i diritti.

«Oggi la morte non possiede più nulla di familiare né di naturale. Si muore
in ospedale, da soli, anziché a casa tra i propri cari.» Ciascuno invece
può avvicinarsi alla morte a occhi aperti, se la morte non è negata, se
l’ambiente familiare e sociale l’accetta, se intorno a chi muore c’è verità
e amore, se le strutture ospedaliere sostengono, preparano e si preparano,
non abbandonano a loro stessi il malato e i suoi famigliari.

L’incipit del saggio è di taglio lirico narrativo, ma la trama è
filosofica. L’eutanasia secondo l’autrice è oggetto di un clamoroso
equivoco perché si assume la parte – la morte – per il tutto, l’uomo. Il
punto di vista da cui muove Marie de Hennezel è la valorizzazione della
dignità. Laddove dignità significa libertà – capacità – potere di
trasformare il dolore in esperienza per sé e per gli altri. In esperienza
dotata di senso.

Marie de Hennezel sa che il tema è controverso eppure indica questa come
una base comune su cui costruire una «politica del distacco». E’ un diritto
morire con dignità? E se lo è come è tutelabile? Oppure si deve chiedere il
permesso per morire visto che nessuno di noi ha avuto il diritto e insieme
la libertà di nascere?

«Esiste un’altra dignità, quella che consiste nell’essere lucidi,
responsabili, coscienti. Preparare la propria morte, avere il coraggio di
consultare i medici a proposito delle paure che si possono avere, lasciare
a coloro che resteranno una parola di vita, una parola di benedizione che
li aiuti a vivere senza di noi. Un allentare la presa che testimonia la
capacità di superare le proprie paure egoistiche per affidarsi a ciò che è
altro da sé, a quella dimensione trascendente di cui quasi tutti
percepiscono l’esistenza e che viene chiamata in molti modi: Dio, Vita,
Reale. [.]

Morire in questo modo a casa propria, senza sofferenze e senza paure,
circondato dagli affetti più cari, con la coscienza di poter così
conservare la propria dignità, è il desiderio segreto della maggior parte
di noi. Tuttavia, oggi tutto si oppone a questa speranza. La morte del
mondo contemporaneo è una morte solitaria, nascosta, spogliata del suo
senso.»

La morte può far sì che un essere diventi ciò che era chiamato a divenire;
può essere, nella piena accezione del termine, un compimento.

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IL CORAGGIO DELL’INCONTRO

(Dal libro ‘Morire ad occhi aperti’, di Marie de Hennezel, Edizioni Lindau)

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Perseguire il compimento di sé stessi senza tener conto degli altri non è
giusto. Sarebbe come una fuga, una debolezza. A cosa serve sedersi su una
foglia di loto, chiudere gli occhi e meditare, se vostro figlio soffre
nella stanza accanto perché è di stato lasciato solo, se vostro marito o
vostra moglie non riescono a condividere il cammino del vostro cuore, a
partecipare alle vostre preoccupazioni, a sentirsi sostenuti e amati, se i
vostri colleghi di lavoro vi vedono assente, per nulla disponibile, se i
vostri anziani genitori si sentono abbandonati?

Troppa gente oggi cerca di fuggire la dura realtà della vita rifugiandosi
in una «quiete spirituale». Yvan lo sa, è un testimone di ciò, è per questo
che il suo insegnamento ruota attorno a quest’idea fondamentale: «È la
relazione con gli altri che ci fa crescere». Bisogna quindi assumersi il
«rischio dell’altro», andargli incontro, perché è il rapporto con l’altro
che rivela il Reale.

I parenti, i genitori, i figli, i vicini di casa, gli amici, i dipendenti,
i colleghi, tutti costituiscono ciò che Yvan Amar chiama «il nostro
incosciente esteriore». Tutte queste persone ci dicono ciò che noi non
possiamo dire a noi stessi. Ci pongono costantemente di fronte a noi
stessi. Generalmente si evita la relazione per evitare i conflitti, le
sofferenze, o perché ci si vede come vittime degli altri. Ma si può anche
diventarne discepoli.

Yvan racconta che i maestri del Talmud insegnano ai loro allievi l’arte
della relazione cosciente attraverso la lite: «Cerca un altro discepolo e
litiga con lui, irritalo». Si ritrova lo stesso insegnamento presso i
giovani monaci tibetani che si arrabbiano, si scontrano, recitano i sutra e
si contraddicono. Yvan biasima ogni relazione che puntualmente, e
tristemente, evita ogni occasione di lite.

Ci si protegge e, così facendo, non ci si incontra davvero con l’altro.
«Come se, nelle relazioni umane, si potesse crescere con la sola
meditazione, con lo yoga, con lo zen o qualunque altra cosa, come se
bastassero un po’ di vitamine per proseguire la relazione e fare insieme
qualche cosa, mentre invece è nel cuore della relazione cosciente, perfino
dell’urto cosciente, che si stabilisce quel riconoscimento che ci fa
crescere.»

Anche Yvan e Nadège hanno vissuto momenti di discussione cosciente intorno
alle difficoltà che ogni coppia incontra. «Abbiamo vissuto insieme tutti i
problemi che tutte le coppie vivono. Non ne siamo stati per nulla
risparmiati. Abbiamo vent’anni di vita in comune, ma ora so con certezza –
anzi sappiamo – che per i nostri figli siamo stati l’esempio di una coppia
sempre capace di rimettersi in discussione, insomma una coppia vera.».

I bambini hanno visto i loro genitori discutere, litigare, essere
addirittura sul punto di separarsi, ma sempre lavorare insieme, con
intelligenza, generosità, tenerezza, per trovare alla fine uno spazio di
crescita, di una vera crescita insieme. Essi costituiscono un esempio, un
valore e una forza perché sanno che attraverso un lavoro di attenzione nei
confronti dell’altro si può crescere insieme.

Vivere coscientemente la relazione con l’altro, senza evitare i possibili
scontri, conduce a riconoscere ciò che gli indù chiamano «non-dualità»,
l’unità
di tutte le cose e di tutti gli esseri. Non ci sono un «io» e gli «altri»,
ma un «tessuto delle cose coscienti che si compenetrano reciprocamente
nell’universo
intero, formando la grande trama cosmica, la lila dei mondi infiniti».

Assumersi il rischio dell’altro, avere il coraggio dell’incontro presuppone
il lasciar cadere le proprie barriere difensive, mettersi a nudo,
riconoscere la propria vulnerabilità e la propria impotenza. A queste
condizioni emerge la fecondità dell’incontro: una comunione intima che dà
accesso a una dimensione profonda della vita. L’assunzione del rischio
nell’incontro
con l’altro è proprio ciò che Yvan ha sempre inteso vivere e insegnare.

Stando vicino a persone gravemente malate o prossime alla morte, abbiamo
constatato che la vulnerabilità favorisce e apre all’incontro con gli
altri. L’altro che sta per morire mi rinvia alla mia umanità di essere
mortale. Io stesso un giorno sarò al suo posto, soffrirò e starò per
morire, io stesso sono di passaggio sulla Terra ed è mio dovere dare un
senso alla mia esistenza. Allorché spariscono le barriere difensive che
mettiamo tra noi e gli altri per proteggerci, quando corriamo il rischio
dell’incontro cuore a cuore, la coscienza di ciò che ci unisce fa allora
scaturire in noi una gioia che a ragione si può definire spirituale.

Mentre lavoravo come psicologa in un reparto di cure palliative, abbiamo
accolto una giovane donna affetta da un tumore al collo inoperabile. La
giovane donna, di origine asiatica, aveva un’incrollabile speranza di poter
guarire, era fiduciosa. Diceva spesso di essere nelle mani di Dio. Questa
fiducia spiazzava i medici. È difficile trovarsi di fronte a una persona
che ha piena fiducia nella propria guarigione quando invece si sa che sta
per morire. Il suo stato era stazionario e i medici hanno addirittura avuto
l’impressione che migliorasse. Allora hanno deciso di tentare una nuova
operazione.

La donna è così uscita dal reparto di cure palliative per entrare in una
clinica chirurgica. I chirurghi l’hanno però aperta e richiusa
immediatamente. Non era possibile operare. La giovane è stata informata di
ciò e ritrasferita nel reparto di cure palliative. Appena sistemata nel
letto, la giovane donna guarda dritta negli occhi la sua infermiera e le
chiede: «Dimmi, sto per morire vero?».

L’infermiera si sente come risucchiata nel fondo di un pozzo. Come se dentro
di sé tutto si sciogliesse. Non sa che cosa rispondere né che cosa fare.
Rimane muta, ma non se ne va. Sostiene lo sguardo della paziente, le stringe
la mano. A un tratto le si riempiono gli occhi di lacrime. Ma non cerca di
fuggire né di nascondere le lacrime né di uscire da quella situazione con un
qualche pretesto. Resta lì, vicino alla giovane. Sente che non si tratta
tanto di «dire la verità», quanto piuttosto di «essere vera». Cerca di
essere il più vera possibile, senza nascondere l’emozione, un sentimento di
pura e assoluta impotenza. Allora la giovane le dice: «Ho capito. Ti
ringrazio. Ma ora parliamo d’altro!».

A ben vedere questa storia può rappresentare perfettamente molte altre
situazioni. Un malato, dopo un certo periodo, si rende conto che sta per
morire. Spesso custodisce questa consapevolezza in una profonda solitudine.
Cerca di condividerla con qualcun altro. Talvolta, la ricerca di
condivisione prende la forma di una domanda, come abbiamo appena visto, una
domanda che non richiede però una risposta. Viene fatta solo per gettare un
ponte, instaurare una relazione. E la maggior parte delle volte noi
fuggiamo.

Abbiamo paura della sofferenza dell’altro, temiamo di disintegrarci in
questa sofferenza. Abbiamo paura delle nostre emozioni, delle nostre
lacrime, della nostra vulnerabilità. Ma se, dinanzi alla domanda che tenta
di gettare un ponte, c’è qualcuno capace di accoglierla a partire dalla
propria fragilità, allora la relazione è stabilita e i pilastri da entrambe
le estremità del ponte si rinforzano.

Il paradosso di questa situazione è che mostrare a un paziente che si è
disarmati, commossi, vulnerabili, lungi dall’indebolirlo gli permette di
accettare la sua condizione umana e la drammaticità del destino. Rimanendo
vicini a lui in silenzio, non abbandonandolo alla sua impotenza, si produce
una comunione intima. Se osiamo condividere i sentimenti con i pazienti, il
crollo delle nostre strategie difensive può diventare una grazia, una
benedizione.

Ma per fare questo non occorrerà forse accettare di restare indifesi
dinanzi all’altro, abbassare le proprie barriere, entrare dentro la sua
impotenza e servirsene come di un trampolino di lancio per un momento di
incontro autentico? Allora non si tratterà più di una relazione tra una
persona forte del proprio sedicente potere o sapere e una persona
indebolita, impotente. Sarà una relazione tra due persone che soffrono,
ognuna a proprio modo, della condizione comune dell’esseri mortali.

Martin Buber ha meravigliosamente descritto il passaggio dalla relazione
«Io-questo», in cui l’altro è oggettivato come differente da sé, alla
relazione «Io-tu», in cui si diviene coscienti di ciò che accomuna e lega
tutti gli uomini, «la lila dei mondi infiniti» tanto cara a Yvan. La
ricchezza di questi incontri risiede nella compassione. La spontaneità
della risposta emozionale dell’infermiera ha creato un legame di
solidarietà nella sofferenza, nel momento preciso in cui la giovane paziente
avrebbe potuto sentirsi particolarmente sola.

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