Meditazione ed ansia

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Meditazione e ansia

di CORRADO PENSA

UN’ANSIA PARTICOLARE

Nel volume di Mark Epstein Pensieri senza pensatore leggiamo:

Gli psicologi Daniel Brown e Jack Engler hanno fatto uno studio su un
gruppo di praticanti esperti e hanno scoperto che chi medita è ansioso
esattamente quanto chiunque altro. Tra i soggetti da loro osservati
non hanno riscontrato un allentamento del conflitto interno, ma
soltanto un atteggiamento ‘marcatamente privo di difese nel vivere
tali conflitti’ 1.

Vorrei fare qualche annotazione riguardo al rapporto tra meditazione
ed ansia prendendo le mosse dal brano appena citato.

A parte il carattere molto relativo, per definizione, di esperimenti
del genere (quanto ci autorizza un gruppo di meditanti a trarre
conclusioni generali sulla meditazione?), mi sembra, tuttavia, che
anche questo gruppo di meditanti esperti ed ansiosi ha mostrato una
caratteristica interessante e poco frequente e cioè il fatto che
l’ansia fosse accompagnata da una certa accettazione, da una
non-contrazione. Tale caratteristica non ricorre tra le
caratteristiche tipiche degli stati ansiosi, dato che essa, in qualche
modo, si pone agli antipodi dell’ansia. Non vedo, infatti, quanto
nutrimento e quanto incoraggiamento possano venire a un’ansia che è
tenuta in mano con un atteggiamento così abbandonato, così
‘marcatamente privo di difese’. Ciò significa che la perentoria
affermazione che ‘chi medita è ansioso esattamente quanto chiunque
altro’ è parecchio ridimensionata dall’osservazione successiva, niente
affatto marginale, sulla non-difensività. Però, facilmente, l’unica
cosa che resterà in mente a un buon numero di lettori è solo la
conclusione perentoria, a tutto discapito della verità.

Le tre afflizioni e l’ansia

Comunque, esperimenti a parte, a me pare che sia legittimo chiedersi
questo: un cammino interiore che si ripromette di trascendere o quanto
meno di attenuare l’attaccamento, l’avversione e l’ignoranza può
lasciare intatta l’ansia? Sarebbe una contraddizione in termini. Se
l’ansia è intatta, ciò può voler dire soltanto che ugualmente immutate
sono le tre ‘afflizioni’ summenzionate. Infatti dire le tre afflizioni
significa dire l’io-mio e la sua forza. E io-mio vuol dire, tra
l’altro, tutta l’insicurezza e la paura (ossia l’ansia) generata dalla
continua identificazione con reazioni, emozioni, aspettative, etc.

Come è noto, la meditazione di consapevolezza si occupa primariamente
di questa ‘coazione all’identificazione’. Allora, come è immaginabile
praticare la consapevolezza meditativa seriamente e per lunghi anni,
raccogliere buon frutto su vari fronti eccetto che sul fronte
dell’ansia? Naturalmente se la motivazione alla pratica è labile o
male orientata, se la pratica stessa è un fatto occasionale e
saltuario e per giunta priva di supervisione da parte di insegnanti
esperti, nessuno si stupirà (nemmeno lo stesso meditante) se non si
vedono frutti di alcun genere. E può ben darsi che la ragione
principale di questa stasi e di questa confusione sia proprio un
insieme di conflitti ansiosi nel quale il meditante è invischiato. A
questo punto, come Epstein variamente suggerisce, una buona
psicoterapia potrà essere provvidenziale nello sbloccare tali
conflitti e nel mettere in grado la persona di intraprendere un
rinnovato cammino meditativo.

IL FONDAMENTO DELLA STABILITÀ MENTALE

Fatte queste precisazioni e ricordando ancora una volta, per scrupolo,
che la meditazione è controindicata nei casi di ansia grave (laddove
la psicoterapia è sovente lo strumento più indicato), mi pare che
convenga ora interrogarci su quale debba essere il giusto
atteggiamento del meditante quanto a forme di ansia ‘ordinarie’.

Intanto è opportuno tenere presente che la meditazione, al pari della
psicoterapia, non è un ansiolitico. Al contrario entrambe in certe
fasi, allorché emerge materiale rimosso, tendono a generare ansia.
Perciò se imbocchiamo la via del Dharma dobbiamo mettere in conto il
fatto che incontreremo ansie nuove oltre a quelle antiche. Quale che
sia il livello di ansia nel meditante, mi sembra assolutamente
cruciale sottolineare per prima cosa questo: tentare un’esplorazione
diretta dell’ansia sin dal principio di un tragitto meditativo avrà
come risultato più probabile solo un aumento dell’ansia, con
l’inevitabile confusione e scoraggiamento che ciò comporterà.

Invece prima di affrontare l’esplorazione diretta dell’ansia e, in
generale, di stati emotivi, occorrerà anzitutto ‘farsi le ossa’
addestrando l’attenzione a sostare su oggetti non conturbanti, quali,
ad esempio, le sensazioni del respiro o altre sensazioni fisiche
semplici. Infatti, una disciplinata pratica meditativa di calma
concentrata su oggetti semplici sviluppa, col tempo, una relativa
stabilità mentale.

Quanto alla stabilità che sopravviene dopo vari anni di pratica per la
maggior parte dei meditanti, essa, se da un lato è lungi da una
condizione di ferma equanimità, dall’altro è anche ben distante da
quello stato di doloroso caos mentale che per molti vigeva prima che
intraprendessero il lavoro interiore. Perciò la stabilità di cui
parliamo è una vera e propria forza nuova, anche se spesso il
meditante non la percepisce come tale a causa dell’effetto combinato
di preconcetti circa la meditazione (del tipo: pace mentale = assenza
di pensieri e di emozioni) e di una tendenza all’autosvalutazione.

Ora questa forza nuova è, in effetto, il presupposto indispensabile
per poter lavorare di consapevolezza con tutto quanto è turbamento
mentale. Giacché, senza quella relativa stabilità di cui stiamo
parlando, noi abbiamo solo due possibilità: o essere risucchiati nel
turbamento oppure fuggire dal turbamento. L’idea di non essere né
risucchiati né in fuga bensì, invece, fermi e in ascolto, risulterà
affascinante ma abbastanza astratta e inapplicabile. Perché ci
accorgeremo ben presto che la mente non vuole guardare il turbamento
o, al massimo, lo guarda impazientemente chiedendogli in continuazione
di andarsene: pretendendo, in tal modo, di superare il turbamento
aggiungendo altro turbamento.

CALMA CONCENTRATA E FIDUCIA; PRATICA DI METTA E DEL RIFUGIO

Invece il primo passo consiste proprio nello sviluppo di quella
‘non-difensività’ di cui scrive Epstein, ovvero la capacità di
guardare l’ansia senza aggiungere ansia. Ma questo presuppone un
qualcosa che ci regga, un sostegno. Il sostegno, appunto, della
stabilità mentale che proviene dal tirocinio nella calma concentrata.
Da notare che il cuore di questa certa forza tranquilla che si
sviluppa – come si diceva – senza che nemmeno ce ne accorgiamo, ha a
che fare con la fiducia. Una fiducia generica e implicita, più che una
esplicita fiducia in questo o quello: la mente che negli anni ha
appreso a raccogliersi ha visto che non è condannata al caos e
all’angoscia e ciò in qualche misura la rassicura e la rasserena.

È opportuno specificare che qui, nel menzionare la naturale necessità
di un addestramento alla calma concentrata, non ci riferiamo alla
coltivazione della concentrazione come fattore isolato. Infatti la
concentrazione, separata da tutte le altre virtù e qualità liberanti,
non sembra avere alcuna connessione significativa con la saggezza.
Basti pensare al caso ben possibile di individui dotati di una certa
innata facilità alla concentrazione senza che ciò si accompagni a
sostanziosi indizi di sviluppo interiore. Ci riferiamo, piuttosto, a
un tirocinio sistematico di calma concentrata nel contesto di una
pratica di consapevolezza.

Ciò significa che il meditante, prima di affrontare l’esplorazione
diretta e ravvicinata dell’ansia, avrà già lungamente lavorato con
varie forme ‘minori’ ma insidiose di ansia. Vale a dire tutta
quell’ansia generata dal rapporto del meditante con la pratica
meditativa. E dunque i sensi di colpa per non essersi seduto in
meditazione regolarmente, gli scoraggiamenti davanti alla elusività
del respiro, il confronto con altri meditanti, etc. In un contesto di
meditazione vipassana il praticante è incoraggiato a
guardare-contemplare tutti questi moti ansiosi sin dall’inzio, laddove
in un training puramente concentrativo gli verrebbe detto di
ignorarli. Inoltre, sempre nell’ambito della meditazione di
consapevolezza, la guida degli insegnanti e lo studio del Dharma
favoriscono la comprensione di tali dinamismi e contribuiscono in tal
modo a piantare importanti semi di disidentificazione dall’ansia.

Infine una seria pratica di metta e il ricorso a una regolare presa di
rifugio (ovviamente intesa in maniera non puramente formale) aiutano
non poco a relativizzare l’ansia da una parte e ad alimentare la
fiducia dall’altro. Poiché l’evocazione del bene di tutti gli esseri
viventi (metta), insieme con lo spirito di servizio che ciò
gradualmente suscita, distoglie dalla fissazione egoica e
dall’inevitabile ansia che essa genera. E così pure il regolare
prendere rifugio nel Dharma e dunque nella pratica di liberazione e
nella liberazione stessa favorisce l’emergere di un orizzonte
transegoico.

OSSERVARE SENZA AVVERSIONE, OSSERVARE CON INTERESSE

Riepilogando: il presupposto per una fruttuosa contemplazione
esplorativa dell’ansia (così come di qualsiasi disagio interiore) è
quella relativa stabilità mentale non priva di fiducia che risulta da
un tirocinio prolungato di calma concentrata in un contesto di
meditazione di consapevolezza. Diamo inoltre per scontato che in tale
contesto siano naturalmente presenti la pratica di metta e dei rifugi,
la supervisione degli insegnanti, lo studio/ascolto del Dharma e un
certo spirito di servizio.

Abbiamo visto come tale presupposto renda possibile il primo passo
dell’esplorazione (che per certi versi è il passo fondamentale), ossia
la possibilità di osservare senza avversione l’ansia. Da notare che
allorché questa possibilità comincia a manifestarsi in modo non
episodico ciò già comporta una diminuzione dell’ansia. Ancor di più se
da una osservazione senza avversione approdiamo a una osservazione
animata da interesse. In proposito, non è forse superfluo annotare che
il fatto di essere già in grado di lavorare in questo modo non implica
che non sia talora necessario – se l’ansia è forte o se noi siamo
stanchi – abbandonare il lavoro della osservazione diretta e
arroccarsi, piuttosto, su una pratica semplice di pacificazione
mentale, ivi inclusa la meditazione camminata.

LAVORARE CON L’ANSIA

Ma vediamo ora più da presso la pratica rivolta in modo diretto
all’ansia. Anzitutto un consiglio pratico: il più possibile non
lasciarsi sfuggire i molteplici episodi quotidiani di ansia, anche
minima. Poiché questi episodi di ‘piccola ansia’ sono un eccellente
terreno di pratica, soprattutto quando cominciamo a sviluppare un vero
e proprio talento nel coglierli e metterli nella luce della
consapevolezza. Il percepire sempre più chiaramente che ad ogni
intervento di pratica sull’ansia corrisponde un seme di equanimità è
un forte e naturale incentivo a perseguire questa modalità di lavoro
interiore. Anche perché ci rendiamo conto che senza un buon
allenamento a lavorare con i piccoli turbamenti non è possibile
lavorare con quelli grandi. Per compiere questo lavoro riguardo alle
piccole ansie quotidiane è necessario imparare a riconoscerle come
tali, il che è meno elementare di quanto sembri. Infatti le ‘ansiette’
possono essere diventate così abituali da essersi mimetizzate da
normalità.

Un altro consiglio pratico, che è anche un invito a scendere a un
livello più profondo di consapevolezza: nel riconoscere piccoli stati
ansiosi, impariamo a percepire il potere del riconoscimento, quanto a
dire il potere della consapevolezza. Vedremo così che già nel momento
del riconoscimento, netto e chiaro, per il solo fatto del
riconoscimento comincia a instaurarsi un cambiamento di relazione con
l’ansia.

Nel lungo termine l’effetto di questa pratica di osservazione via via
più pronta, sollecita e interessata degli stati ansiosi sarà quello di
ritrovarci meno identificati con detti stati. E una minore
identificazione porta con sé un miglioramento della nostra vista
interiore. Cominciamo a vedere, per esempio, quanto è stretto e
familiare il rapporto con la nostra ansia, piccola o grande che sia.
Un po’ come se si trattasse di un parente insopportabile dal quale,
tuttavia, non intediamo congedarci per alcun motivo. Perché sarà
insopportabile ma, appunto, è troppo familiare, è troppo un pezzo di
noi per rinunciarci. Che ne sarà di noi – è come se dicessimo – senza
il consueto pullulare di immagini-pensieri ansiosi in reazione a
questo e quello?

Senza pensare al poderoso e, insieme, abituale e quotidiano rinforzo
che all’ansia individuale giunge dalla società in cui viviamo: i mezzi
di comunicazione, i ritmi di lavoro, il traffico etc. Sicché, oltre a
essere una dimensione così intima, l’ansia è anche una dimensione
condivisa dalla maggioranza delle persone. Il che le aggiunge, si
potrebbe dire, il tocco finale di ‘naturalezza’. Sarà dunque naturale
credere con tutto il cuore all’ansia, mentre ci parrà illusorio e
astratto anche il solo ipotizzare dentro di noi una zona franca di
pace vera.

Questa prima disidentificazione dall’ansia e la relativa maggior
comprensione dell’ansia che ne consegue alimenta un moto non
occasionale di samvega, ossia una riluttanza salutare, un rifiuto
silenzioso a vivere sotto il segno dell’ansia mescolato con un acuìto
desiderio di praticare. Ciò porta, in progresso di tempo, a un
ulteriore raffinamento della comprensione. In termini classici
buddhisti, le tre caratteristiche universali (impermanenza,
dolorosità, impersonalità) cominciano a profilarsi con evidenza
crescente anche riguardo all’ansia. Anzitutto la specifica dolorosità
dell’ansia. Diversamente da ciò che facilmente tendiamo a credere e
cioè che l’ansia sia la risposta inevitabile a situazioni di dolore
attuale o potenziale, vediamo che l’ansia è già dolore, dolore sicuro
davanti a sofferenze talora solo ipotetiche, dolore mentale
accuratamente fabbricato. E così pure, insieme alla dolorosità, prende
a manifestarsi il carattere costantemente cangiante (anicca) e
fondamentalmente condizionato (anatta) dell’ansia.

Il toccare con mano che questi tre aspetti connotano anche l’ansia ci
mette in una posizione di accresciuta libertà nei confronti dell’ansia
stessa. E ciò – va da sé – rende più forte la nostra presa di rifugio
nella pratica per la liberazione. Liberazione che, significativamente,
è stata definita “il totale e completo rilassamento di tutte le
tensioni: fisiche, emotive e mentali” 2.

1. M. Epstein, Pensieri senza un pensatore, Roma, Ubaldini 1996, p. 122.

2. Nella sua opera A. Desjardins cita di frequente questa definizione
della liberazione che il suo maestro Swami Prajñanpad amava proporre.
Cfr. p. es. Alla ricerca del Sé, Roma, Mediterranee 1992, p. 137.

approfondimento su www.amadeux.net/sublimen/dossier/meditazione_e_mantra.html

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