La gioia nascosta nel dolore 1

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La gioia nascosta nel dolore 1

(riflessioni di Sister Medhanandi)

© Ass. Santacittarama, 2007. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Tradotto da Gabriella De Franchis

(Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito
www.amaravati.org)

Durante questi giorni di pratica insieme abbiamo letto i nomi di molte
persone: i nostri cari scomparsi, i nostri parenti, i familiari, gli amici
che in questo momento stanno soffrendo angosce e pene indicibili. C’è tanta
sofferenza intorno a noi. Come possiamo accettarla? Abbiamo sentito parlare
di suicidi, di cancro, di aneurisma, una malattia neuro-motoria che strappa
la vita a tante persone giovani e piene di vita. E poi ci sono la vecchiaia,
le malattie, il decadimento e la morte, che spengono la vita di molte
persone anziane che hanno ancora tanta voglia di vivere. Perché accade
questo?

In natura la morte è dappertutto intorno a noi. Ora stiamo entrando nella
stagione in cui tutto muore. E’ la legge naturale, niente di nuovo. E
tuttavia, molto spesso, continuiamo a allontanarla dalla nostra vita,
facendo del nostro meglio per fare finta che non moriremo mai, che non
invecchieremo, che saremo sempre in salute, benestanti e lucidi fino
all’ultimo
momento.

Ci identifichiamo costantemente con i nostri corpi. Pensiamo: “Questo sono
io” oppure “Io sono il mio corpo, sono questi pensieri. Sono queste
sensazioni, questi desideri, questo benessere, queste meravigliose proprietà
che ho, questa personalità.” Ecco dove sbagliamo.

Attraverso la nostra ignoranza rincorriamo le ombre, dimoriamo nelle
delusioni, incapaci di affrontare le tempeste che la vita ci porta. Non
siamo capaci di stare come le querce che ci sono lungo il confine di
Amaravati, che resistono all’inverno e superano tutte le tempeste che le
colpiscono. In Ottobre lasciano cadere con grazia le loro foglie. E in
estate sono di nuovo in fiore.

Anche per noi ci sono andirivieni, nascite e morti, le stagioni della nostra
vita. Quando saremo pronti, e anche se non lo saremo, noi moriremo. Anche se
non siamo mai stati ammalati, un giorno nella nostra vita, moriremo
comunque: questo è quello che i corpi devono fare.

Quando parliamo di morire, prima che moriamo, non vuol dire che dovremmo
cercare di suicidarci per evitare le sofferenze; significa che dovremmo
usare questa pratica, questa maniera di contemplare, per comprendere la
nostra vera natura. Durante la meditazione possiamo entrare in profondità
nella nostra mente, per investigare la vera natura del corpo e della mente,
per comprendere l’ impermanenza, e per chiederci cosa è che muore? Chi
muore?

La morte può essere pacifica. Una morte pacifica è un dono, una benedizione
per il mondo, semplicemente un ritorno degli elementi agli elementi. Ma se
noi non ci siamo avvicinati alla realizzazione della nostra vera natura, può
sembrare molto spaventosa, e potremmo porre molta resistenza.

Ma noi possiamo prepararci, domandandoci chi siamo veramente; possiamo
vivere con coscienza. Poi, quando arriva il momento, possiamo morire con
coscienza, completamente aperti, proprio come le foglie che si depositano al
suolo, proprio come le foglie sono chiamate a fare.

Rincorrere le ombre….Che cosa cerchiamo veramente nella nostra vita?
Cerchiamo felicità, un posto sicuro, pace. Ma dov’è che cerchiamo queste
cose? Cerchiamo disperatamente di proteggere noi stessi raccogliendo sempre
più cose, avendo chiusure sempre più grandi per le nostre porte, mettendo un
sistema di allarme. Ci blindiamo costantemente, gli uni contro gli altri –
accrescendo il senso di separazione – avendo più proprietà, più controllo,
sentendoci più importanti con la nostra laurea, i nostri dottorati. Ci
aspettiamo più rispetto e chiediamo soluzioni immediate: è una cultura di
gratificazione immediata.

Così siamo costantemente sull’orlo del disappunto, accade se il nostro
computer si blocca, se non raggiungiamo un accordo di lavoro o se non
otteniamo una promozione.

Questo non significa sminuire il mondo materiale. Noi abbiamo bisogno del
supporto materiale, del cibo, dei vestiti, delle medicine; abbiamo bisogno
di un rifugio e di una protezione, un luogo in cui riposare; abbiamo anche
bisogno di calore, di amicizia. Abbiamo bisogno di molte cose per fare
questo viaggio. Ma a causa del nostro attaccamento alle cose,dei nostri
sforzi tesi a riempirci di cose e a trovare appagamento attraverso queste,
ci rimane un senso di desiderio, di insoddisfazione, perché stiamo cercando
nel luogo sbagliato. Quando qualcuno improvvisamente si ammala, perde una
gamba, ha un infarto, affronta la morte, prende l’AIDS e deve sopportare
indicibili sofferenze, che cosa facciamo noi? Dove ci rifugiamo?

Prima della sua illuminazione, quando il Buddha era ancora un principe,
aveva tutto. Aveva quello che nel mondo la maggior parte di persone cerca
mentre allontana la morte ai margini della vita, mentre relega la conoscenza
della propria mortalità nel punto più estremo della consapevolezza. Era un
principe. Aveva una moglie amorevole e un bambino. Suo padre aveva cercato
disperatamente di proteggerlo dalle brutture della vita, fornendogli tutti i
piaceri dei sensi, incluso un palazzo diverso per ogni stagione. Ma non
poteva trattenere suo figlio e un giorno il principe uscì e vide ciò che
doveva vedere: i quattro Messaggeri Celesti.
Qualcuno potrebbe pensare che sia contraddittorio il fatto che un messaggero
celeste possa presentarsi con le sembianze di un vecchio: “Cosa c’è di
celestiale in un vecchio che si trascina lungo il bordo della strada?”. Ma è
un messaggero divino perché la sofferenza è la nostra maestra, è attraverso
la nostra esperienza e la nostra abilità nel contemplare la sofferenza che
noi impariamo la Prima Nobile Verità.

Il secondo e il terzo messaggero erano un malato e un cadavere pieno di
vermi e di mosche, in decomposizione sulla pira funeraria. Queste furono le
cose che il Buddha vide e che gli aprirono gli occhi alla verità sulla vita
e sulla morte. Ma il quarto messaggero celeste era un samana, un monaco: un
simbolo di rinuncia, qualcuno che aveva rinunciato al mondo per scoprire la
vera verità.

Molte persone vogliono scalare l’Everest, la montagna più alta del mondo, ma
in realtà c’è un Himalaya qui, in ognuno di noi.

Io voglio scalare quell’ Himalaya, per scoprire la verità che sta dentro di
me, per raggiungere la vetta della comprensione umana, per realizzare la mia
vera natura. Tutto, sul piano materiale, specialmente le cose alla ricerca
delle quali sprechiamo un sacco di energie, sembra piccolo e insignificante
di fronte a questa potenziale trasformazione di consapevolezza.

Ecco dove questi quattro segni celesti furono indicati al giovane
Siddhartha. Questi sono i messaggeri che ci possono indicare la Via della
Verità, lontano dalla via dell’ignoranza e dell’egoismo, dentro la quale
lottiamo vanamente, intrappolati in visioni errate, incapaci di affrontare
la nostra oscurità, la nostra confusione, il nostro dolore. Stephen Levine
si riferisce alla distanza dal nostro dolore, dalla nostra ferita, dalla
nostra paura, dalla nostra afflizione, come alla distanza da una
comprensione della nostra vera natura.

Le nostre menti creano l’abisso, l’immenso baratro. Che cosa ci porterà al
di là del vuoto? Come possiamo affrontare l’oscurità che sentiamo? Come
sviluppiamo quel tipo di discernimento con il quale possiamo realizzare il
vero amore in sé, quella pace sublime che non afferra né respinge nulla?
Possiamo trattenere tutti i dispiaceri e le sofferenze in un abbraccio
compassionevole, che entra nel profondo dei nostri cuori con pura
consapevolezza, presenza mentale e saggia riflessione, che tocca il centro
del nostro essere? Appena iniziamo a vedere più chiaramente, con visione
profonda, penetrante, impariamo la differenza tra dolore e sofferenza.
Qual è l’esperienza del dolore? E’ semplicemente naturale che noi proviamo
dolore quando qualcuno dei nostri cari muore. Siamo attaccati a quella
persona, attaccati alla sua compagnia, abbiamo ricordi di periodi trascorsi
insieme. Dipendevamo l’uno dall’altro per molte cose – conforto, intimità,
sostegno, amicizia – così ne sentiamo la perdita.

Quando mia madre stava morendo, aveva difficoltà a respirare e i fluidi
corporei stavano già iniziando a putrefarsi, improvvisamente si svegliò da
un coma profondo e i suoi occhi pieni di riconoscenza incontrarono i miei.
Dalla profondità dell’Alzheimer che le aveva impedito di riconoscermi negli
ultimi dieci anni, in quel momento tornò ad essere pienamente cosciente, e
sorrideva con una sopranaturale gioia splendente. Un raggio cadde su noi
due. E poi, il momento successivo, se ne andò.
Dov’era la malattia che ce l’aveva rapita per così tanti anni? In quel
momento c’era la realizzazione delle vacuità della forma. Lei non era questo
corpo. Non c’era nessuna Alzheimer e lei non stava morendo. C’era soltanto
l’impermanenza
da conoscere, con il cuore e attraverso il distacco, la dissoluzione degli
elementi che ritornano alla loro origine.

Conoscendo il trascendente, conoscendo la realtà delle cose come sono –
conoscendo il corpo come corpo – ci rendiamo conto che siamo in perenne
cambiamento. Impariamo a stare nella pura consapevolezza e tocchiamo ciò che
è immortale.

Nelle nostre relazioni personali, con la nostra famiglia, possiamo iniziare
a usare la saggezza come nostro rifugio. Non vuol dire che noi non amiamo,
che non soffriamo per i nostri cari. Significa che non siamo dipendenti
dalle nostre percezioni di nostra madre e di nostro padre, dei figli o degli
amici intimi. Non dipendiamo dal loro essere come noi pensiamo che siano,
non crediamo più che la nostra felicità dipenda dal loro amore nei nostri
confronti, dal fatto che loro vivano o muoiano. Siamo in grado di arrenderci
al ritmo della vita e della morte, alla legge naturale, al Dhamma della
nascita, dell’invecchiamento, della malattia, della morte.
Quando Marpa, il grande maestro tibetano di meditazione, nonché maestro di
Milarepa, perse suo figlio, pianse amaramente. Uno dei suoi discepoli allora
gli si avvicinò e gli chiese:” Maestro, perché piangete? Voi ci insegnate
che la morte è un’illusione”. E Marpa disse:”La morte è un’illusione. E la
morte di un bambino è un’illusione ancora più grande”. Ma quello che Marpa
riuscì a mostrare al suo discepolo fu che mentre lui era in grado di capire
la verità sulla natura condizionata di tutte le cose e sulla vacuità della
forma, poteva ancora essere umano, poteva provare quello che stava sentendo,
poteva aprirsi al suo dolore. Poteva essere totalmente presente alla
sensazione di quella perdita. E poteva piangere apertamente.

Non c’è nulla di incongruente se sentiamo le nostre sensazioni, se tocchiamo
il nostro dolore e, allo stesso tempo, sentiamo la verità del modo in cui
sono le cose. Il dolore è dolore; il dispiacere è dispiacere, la perdita è
perdita: possiamo accettare queste cose. La sofferenza è ciò che noi
aggiungiamo a queste cose quando le respingiamo, quando diciamo, “No, non
posso”. Oggi mentre leggevo i nomi dei miei nonni che furono assassinati
assieme alle mie zie, gli zii e i loro figli durante la seconda guerra
mondiale – e i loro corpi nudi gettati in enormi fosse – quest’immagine
improvvisamente mi travolse con un dolore della cui presenza non avevo
consapevolezza.

Sentii una pressione soffocante. Ero incapace di respirare. Mentre le
lacrime mi scendevano sul viso fui in grado di ricordare, di essere
consapevole delle esperienze fisiche e di accompagnare questo doloroso
ricordo con il respiro, lasciando che si manifestasse. Non è un fallimento
provare queste sensazioni. Non è una punizione. Fa parte della vita. E’
parte di questo viaggio umano.

Quindi, la differenza che c’è tra il dolore e la sofferenza, è la stessa che
c’è tra la libertà e la schiavitù. Solo se siamo capaci di stare con il
nostro dolore, possiamo accettarlo, conoscerlo e guarirlo. Ma se non è bene
provare dolore, rabbia, paura o solitudine, allora non è bene guardare le
nostre sensazioni, e non è bene tenerle nei nostri cuori e trovare pace con
esse. Quando non siamo in grado di sentire quello che dobbiamo sentire,
quando facciamo resistenza o cerchiamo di sfuggire alla vita, allora siamo
schiavi. Dove ci aggrappiamo, lì c’è la sofferenza, ma se sentiamo
semplicemente il puro dolore così com’è, la nostra sofferenza muore…Ecco
la morte di cui dobbiamo morire.

(continua)

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