La chiara intenzione

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La chiara intenzione

del venerabile Ajahn Sucitto

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Traduzione di Samira Coccon

DISCORSO TENUTO IL 16 APRILE 1998 MONTEFIOLO. (Sati, 1998, n. 3)

– Imparare ad accogliere la realtà –

Se consideriamo cos’è che vogliamo dalla vita ci accorgiamo che ci
deve essere una motivazione. Ma si tratta di qualcosa di infido perché
se la nostra motivazione si basa su aspettative, risultati e conquiste
da fare, allora ci sarà uno sforzo causato dal tentativo di realizzare
gli obiettivi che ci siamo prefissi.

In termini di pratica buddhista il premio è solo una probabilità. Si
tratta di una meta molto alta, o per lo meno noi siamo convinti che lo
sia, ed è per questo che nell’intraprendere il cammino della pratica
dobbiamo cercare di destrutturare le idee, le emozioni e i pensieri
che ci siamo fatti. I nostri processi mentali ci fanno vedere questi
obiettivi in termini astratti, metafisici, come un qualcosa
procrastinato nel tempo. Possiamo dire invece, in parole semplici, che
lo scopo della pratica è di stare bene, di penetrare il regno della
sensazione, di ciò che ci fa sentire felici e brillanti, leggeri,
pacificati, degni, mentre la mente ragionante tende a misurare e
criticare.

Se ci riferiamo, ad esempio, al contenimento dei sensi, la limitazione
dell’attività sensoriale è solo un’idea: sorgeranno commenti e
impressioni negative, del tipo: “Non puoi fare questo, non puoi fare
quest’altro”. Ma se lo sperimentiamo, il contenimento dei sensi ci
porterà ad essere raccolti, composti e privi di bisogni.

Anche la moralità sembra essere rappresentata da concetti come: “Non
devi fare questo, non puoi fare quest’altro”, ma di fatto ci fa stare
bene perché non dovendo subire gli effetti distruttivi del
comportamento scorretto non proviamo né senso di colpa né
preoccupazioni. Il nostro cuore quindi sarà libero da colpa, biasimo o
ansia e potrà vivere con soddisfazione e compostezza. È questo il
punto: solo mettendo in pratica queste cose potremo fare queste
esperienze.

In termini di meditazione parliamo di samadhi, cioè della capacità di
concentrazione, di focalizzazione dell’attenzione. Ma quest’idea può
essere causa di grande stress perché pensiamo sempre in termini di
quantità: ossia cominciamo a misurare quanto siamo bravi senza
riuscire mai a raggiungere il nostro standard ideale. Ma il samadhi in
realtà è un frutto, è un risultato, non qualcosa che dobbiamo
conquistare: è qualcosa che matura come conseguenza di tutte le altre
pratiche. È una realizzazione piuttosto che un’aspettativa. Ci sono
vari modi per avvicinarvisi ed è proprio nei mezzi e negli strumenti
che dobbiamo mettere il nostro impegno. Questi mezzi sono sila
(moralità e limitazione dei sensi) e consapevolezza, là dove la
consapevolezza, cioè la capacità di portare la mente nel momento
presente, è un grosso allenamento a stare con il momento presente
senza creare una ridda di aspettative e giudizi. In questo modo la
qualità stessa della limitazione dei sensi alleggerisce naturalmente
la quantità di cose di cui dobbiamo essere consapevoli rendendo così
più semplice e chiaro lo sviluppo delle relazioni e la nostra risposta
alle cose. Proprio come un giocoliere non comincia con cinquanta
palline, ma con una o due alla volta per poi passare a quattro o
cinque, noi possiamo sviluppare le nostre capacità e il nostro
equilibrio partendo da un livello semplice, cercando di vedere ciò di
cui abbiamo realmente bisogno.

L’approfondirsi dell’apprezzamento e del senso delle cose è un aspetto
della meditazione. Ciò non significa che stiamo perseguendo una
sensazione particolare, o che stiamo cercando di non provare
sensazioni, ma piuttosto che sappiamo come sentire. Si tratta della
qualità della sensibilità e non della stimolazione, perciò gran parte
della meditazione riguarda oggetti neutri o quasi. Poiché un aspetto
del cammino meditativo comprende la calma e la concentrazione, è
consigliabile sviluppare maggiore sensibilità e fermezza. La chiave
sta nel darci tutto il tempo necessario per sentire il nostro corpo:
se siamo impazienti di concentrarci ci stiamo precludendo la
possibilità di farne l’esperienza. Ho già parlato di vitakka e vicara:
vitakka è la capacità di dirigere la nostra attenzione e vicara è la
sensibilità in grado di ricevere ciò che stiamo osservando. Entrambe
hanno bisogno di essere sviluppate nella stessa misura perché se non
facciamo altro che focalizzare la nostra attenzione, se cerchiamo di
restare concentrati, di fissare a lungo la nostra attenzione sul
respiro, o su un altro oggetto particolare, non ne trarremo nessun
beneficio, né alcuno stato di benessere. Bisogna sentire le cose
semplicemente così come sono, come si sente il corpo o una parte di
esso.

Man mano che esercitiamo la sensibilità della mente sorgerà un senso
di benessere. È importante guardare con attenzione e sviluppare questo
aspetto particolare della sensibilità, di vicara. Ciò significa, ad
esempio, che possiamo anche fare a meno per un bel po’ di tempo di
concentrarci su di un punto particolare. Invece di focalizzarci su di
un punto specifico del corpo o del respiro, osserviamo come è
possibile sviluppare una sensibilità a largo spettro. L’accento viene
posto più sull’ascolto, sul ricevere e accettare ciò che si sente: che
la natura della sensazione sia piacevole, neutra o addirittura
leggermente spiacevole, non è questo il punto.

– Osservare la sensazione –

Ci accorgiamo quindi che l’essere ricettivi farà emergere naturalmente
un piacevole senso di calma e sostegno. Possiamo anche cominciare con
una parte specifica per poi passare al corpo nel suo insieme, ad
esempio possiamo chiederci: “Che cos’è il mio corpo in questo momento?
Come si sente?”. Non pensiamo in termini di mani, piedi e testa, c’è
solo un’impressione sensoriale generica. Possiamo sperimentare un
formicolio, delle pulsazioni, calore, pressione, spaziosità,
espansione, intorpidimento, sensazioni acute o soffocate. Osserviamo
semplicemente l’esperienza del corpo come fosse una mappa di
sensazioni e cominciamo a guardare come ci rapportiamo a questa
esperienza. Focalizzandoci su una sensazione acuta potremmo accorgerci
che intorno a essa c’è tensione; se proviamo pressione o durezza
possiamo sperimentare come la nostra mente faccia resistenza e la
respinga. In questo caso dobbiamo cercare di ammorbidire la nostra
reazione, di essere più accettanti, più aperti a quella sensazione,
dobbiamo permetterle di penetrare la nostra mente. Se in alcuni punti
proviamo tensione, cerchiamo di sentire l’esperienza della tensione e
come ci rapportiamo a essa.

In generale, cerchiamo di mantenere la nostra mente calma e ricettiva
verso tutto ciò che viene sentito: una mente che non afferra e non
respinge, ma che è semplicemente aperta a quella particolare
sensazione. Accade allora che la qualità della sensazione diventa più
vibrante sul momento. Sono le risposte e le reazioni della mente che
rendono la sensazione solida e permanente. Se la mente diventa più
leggera allora anche la sensazione diventa più effimera, passeggera. E
a sua volta la mente diventerà più leggera, meno spaventata ed
esigente.

Cominciamo a sviluppare questa pratica attraverso l’intera mappa del
corpo, così da poterne riconoscere le varie zone e collegarle fra
loro. Possiamo focalizzarci su una sensazione particolare e notare
come, intorno a essa, si trovi un area meno sensibile. Cerchiamo di
sviluppare la mobilità dell’attenzione quando desideriamo spostarla da
una sensazione più forte a una più debole, a una spiacevole, a una
neutra, a una piacevole. Mantenendo l’attenzione mobile e flessibile
cominciamo a liberare alcune delle tensioni e pressioni del corpo. Se
invece ci focalizziamo intensamente su una sensazione specifica anche
la mente sarà tesa, mentre lo scopo è proprio quello di rendere la
mente meno tesa, più leggera e malleabile. È come massaggiare il
corpo, o come avere una spugna tra le mani e lavorarla fino a farla
diventare morbida e vaporosa. Questo significa che a volte la mente è
vigorosa e a volte gentile, ma lo scopo è sempre quello di allentare
le tensioni presenti nel corpo e creare benessere.

Se coltiviamo l’attenzione durante la meditazione, alcune cose
diventano più chiare. Innanzitutto quando ci viene chiesto di
custodire e osservare semplicemente il respiro, ci accorgiamo che la
qualità dell’attenzione non è né pura né neutra: è impaziente,
critica, soggetta a cambi d’umore. Se non otteniamo i risultati voluti
ci sentiamo contrariati. Con un’attenzione più sviluppata possiamo
vedere come, attraverso di essa, possiamo far emergere uno stato di
benessere e agio. Ossia, se l’attenzione è indirizzata ad ammorbidire,
a creare benessere, a ricevere semplicemente il nostro corpo in
maniera gentile e amorevole, allora otterremo dei risultati diversi.

– Attenzione e retta intenzione –

È qualcosa di gradevole. Può darsi che all’inizio non notiamo una
grande differenza a causa dell’abitudine, ma col tempo l’attenzione
diventerà senz’altro qualcosa dagli effetti benefici e terapeutici.
Nel linguaggio del Buddha l’attenzione, manasikara, è accompagnata
dall’intenzione, cetana ed entrambe si sostengono e condizionano a
vicenda. Ciò verso cui fissiamo la nostra attenzione tende a
condizionare la qualità dell’intenzione. Se abbiamo un gatto o un
criceto, un esserino peloso e morbido, proviamo piacere ad
accarezzarlo. Ma se rasiamo il gatto non proveremo la stessa
sensazione: un gatto rasato è una creatura orrenda. Ma il gatto dice:
“Cosa ho fatto di male? Cos’è successo? Sono sempre io”. È il nostro
contatto visivo, l’impressione visiva, che condiziona l’intenzione. La
qualità dell’attenzione fa sua l’impressione visiva ed è questo che
determina l’intenzione del cuore.

Tutto ciò è estremamente significativo, l’intenzione è la motivazione,
anche se può non esserci perfettamente chiaro a causa del fatto che
per la maggior parte del tempo noi mentiamo, verbalmente oppure in
maniera più sottile. Affermiamo di voler fare qualcosa che in realtà
non vogliamo fare, ma pensiamo che basti dirlo perché la vita sia più
facile. Spesso non possiamo ammettere, non possiamo confessare le
nostre reali motivazioni, abbiamo bisogno di escogitare delle ragioni
socialmente accettabili. A volte è così immediato che siamo i primi
noi a non accorgercene, non sappiamo neppure cosa stia succedendo.

Lo scorso novembre avevo ricevuto un invito per andare ad insegnare in
Polonia. Sarebbe stato umido, piovoso e freddo e pensavo: “Non voglio
andare in Polonia, credo proprio che sarebbe meglio rimanere qui per
aiutare il monastero”. Poi, in dicembre, qualcuno mi ha chiesto: “Sei
disposto ad andare in Spagna il prossimo giugno?”. E io ho pensato:
“Non devo essere egoista, bisogna proprio che vada…”. Se
consideriamo la Polonia in dicembre e la Spagna in giugno…

Questo esempio ci mostra una circostanza in cui la capacità di mentire
è veramente raffinata, immediata. A volte non possiamo ammettere, non
possiamo confessare un interesse personale. In realtà ritengo che se
ci chiediamo veramente cosa vogliamo e osserviamo la motivazione,
l’interesse personale, allora possiamo entrare in contatto con ciò che
sta accadendo realmente. Allora vedremo quella particolare sensazione
e la potremo lasciare sorgere e svanire nella mente così da non
rimanere intrappolati. Contemplando i due inviti che avevo ricevuto,
ho pensato: “Andrò in Polonia il prossimo dicembre”. In realtà non ha
nessuna importanza, è solo una sensazione. Onestamente, si tratta
soltanto di voler provare una certa sensazione. Sappiamo che cosa è
una sensazione e quindi possiamo lasciarla sorgere e passare, non c’è
bisogno che si impossessi di noi. Spesso, quando non riconosciamo le
nostre vere sensazioni, esse rimangono lì, si impossessano di noi e
restano sullo sfondo come un’impressione ombra e, anche se il nostro
cervello, la nostra mente sta pensando altre cose, il cuore in realtà
non sta con ciò che stiamo facendo. Allora facciamo le cose forse per
un senso del dovere, ma nel cuore non c’è gioia, il cuore non è con
ciò che stiamo facendo e in questo stato la mente crea una sorta di
mondo ombra. E le caratteristiche del mondo ombra sono che i suoi
abitanti sono i ‘devo’ e i ‘dovrei’, e questi ‘devo’ e ‘dovrei’ non
sono esseri reali, sono neutri, castrati. Anche nel nostro cuore, ci
sentiamo impersonali. Quando vediamo veramente tutto questo,
chiediamoci quanta parte della nostra motivazione risiede nel regno
dei “vogliono che faccia questo, è così che dovrebbe essere”. Quando
temiamo che non facendo una determinata cosa saremo rifiutati e
allontanati vuol dire che la nostra vita è controllata proprio da
queste forze impersonali e neutre, mentre cetana, l’intenzione, la
volizione, ne è schiava. Ci sentiamo quindi trascinati da strani
dubbi, rimpianti e incertezze che, per quanto ci sforziamo, non
riusciamo mai a soddisfare. C’è sempre una voce che ci sussurra da
dietro le spalle: “Non ce l’hai fatta, non sei abbastanza bravo”.

A causa di questo è impossibile vivere pienamente, in maniera pura e
luminosa e nella meditazione il cui unico scopo è di essere chiari,
tutto ciò si acuisce, perché in questo caso il nostro senso di
chiarezza viene impedito dall’impressione che dovremmo essere chiari e
non lo siamo. Cerchiamo di essere all’altezza di un qualcosa che
vogliamo ottenere, ma che non sappiamo neanche comprendere. È una
profezia che si auto-realizza, è un’esperienza dovuta al modo in cui
la mente agisce. A volte ci sono cose, anche semplici, che non
riusciamo a fare perché la nostra mente è impedita dall’esitazione,
dal dubbio e dal rimpianto. In questo caso è l’intenzione che
condiziona l’attenzione.

– La prigione della mente –

Quando cerchiamo di contemplare il respiro, di osservarlo con questo
particolare atteggiamento, l’esperienza sarà di inadeguatezza e di
conseguenza l’intenzione stessa sarà innaturale e inadeguata. Ci si
abitua a questa qualità, questo atteggiamento verso noi stessi diventa
normale. Non accade forse che ciò che consideriamo il nostro corpo, la
nostra mente (soprattutto la mente), da un punto di vista dell’io, è
segnato dalla caratteristica di avere un’attenzione confusa e incerta?
Quando prendiamo in considerazione noi stessi, qual è l’umore della
mente, come si sente, che tipo di impressioni emergono? Sperimentiamo
un senso di limitatezza e imperfezione? Sentiamo di non essere
all’altezza? Proviamo allora una sorta di accettazione rassegnata, che
non è certo un’accettazione lieta, è solo un stato d’animo. Non
possiamo certo dire che questa qualità dell’attenzione sia dotata di
chiarezza, gentilezza, compassione, consapevolezza o saggezza, e
questo, naturalmente, ricondiziona la nostra intenzione. Cominciamo
allora a guardare quel particolare stato mentale che si è creato e ci
accorgiamo che è scuro, grigiastro, inadeguato. Tutto questo ha un
effetto sulla qualità dell’intenzione e pensiamo: “Che senso ha tutto
questo, che posso fare?”. Oppure ci sentiamo in qualche modo
frustrati. Mettiamo in atto un circolo vizioso: l’attenzione negativa
si ricicla in intenzione negativa che a sua volta si ricicla in
attenzione negativa e diventa sempre più forte.

È come se ci trovassimo in prigione in regime di isolamento: non lo
consideriamo certo come l’esperienza di un ritiro, ma come una forma
di punizione. Quando facciamo un ritiro di meditazione può darsi che
ci capiti di vivere un’esperienza simile, di sentirci in prigione. Una
delle impressioni che sorgono durante un ritiro è quella di volersene
andare. Fin tanto che la riconosciamo va tutto bene. Non è necessario
avere pensieri o impressioni speciali in un dato momento, non dobbiamo
provare delle sensazioni particolari. Dobbiamo solo essere pronti a
riconoscere la sensazione che c’è in quel momento e i modi in cui la
mente prende quella sensazione e la proietta.

Durante un ritiro, o se viviamo in monastero, spesso pensiamo:
“L’insegnante è il mio carceriere e probabilmente mi disapprova” e
ogni volta che udiamo la campana pensiamo: “Oh, devo fare questo, devo
fare quest’altro”. Possiamo vedere tutto questo e che la nostra
attenzione è molto selettiva. Se sullo sfondo della mente c’è questo
tipo di scenario allora finirà per condizionare l’intenzione che
sceglie gli oggetti che la sostengono. Facciamo l’esempio di una
persona che vive in un monastero; c’è chi sceglie di andare in un
monastero perché c’è tranquillità, non ci sono radio che suonano, né
chiacchiere o risate, è un luogo calmo e questo può piacerci molto.
Poi ci sono gli insegnanti che ci istruiscono al Dharma: è
meraviglioso, è tutto gratis, il cibo viene offerto dai laici, se
siamo monaci non dobbiamo neanche cucinare, si lavora 4 o 5 ore al
giorno e la sera possiamo sedere tranquillamente in meditazione con
gli altri monaci e monache, godendo del silenzio e della compagnia di
persone altamente morali. È il paradiso. Dura forse qualche giorno e
poi: “Perché è così tranquillo qui? Perché non si fa mai niente di
divertente? Perché non possiamo ascoltare della musica? Il cibo non mi
piace, perché non possiamo mangiare quando si ha fame? Perché
l’insegnante fa sempre dei discorsi così noiosi? È un inferno qui!”.

Le cose vanno così. Non c’è bisogno di biasimare o di giudicare, ma
solo di riconoscere questo tipo di processo. Proviamo dolore, dubbio o
ci sentiamo feriti, preoccupati, solo perché alla base c’è una
sensazione non riconosciuta e, invece di riconoscerla e aprirci a
essa, cerchiamo di trovare una scappatoia, ci irrigidiamo e tiriamo
avanti senza avere veramente contemplato la sensazione. Se proviamo
qualcosa, pensiamo che questo sia ciò che siamo e che facciamo. Se
proviamo avversione, crediamo che la nostra natura sia l’odio, ossia
qualcosa che non dovremmo essere e non dovremmo avere. Se ci sentiamo
dubbiosi, insicuri o un po’ spaventati e nervosi, questo è qualcosa
che non dovremmo provare. Dovremmo essere coraggiosi e fiduciosi. Sono
questi ‘dovrei’ che creano continuamente un alone di falsità, che
rendono torpida e ottusa la nostra vera sensibilità. Nella meditazione
questa è la resa dei conti, è il finale, perché se stiamo praticando
con chiara intenzione, allora ci siamo soltanto noi qui e la nostra
intenzione. Non c’è misurazione riguardo tutto questo, non c’è
giudizio, semplicemente è così e noi abbiamo la capacità di ricevere
ciò che siamo, di confidare in noi stessi, di assicurarci questa sorta
di autorità, di permesso, di fiducia. Anche se possiamo pensare: “Ma
se non riesco a fare tutto questo, cosa accadrà?” dobbiamo riconoscere
il potere di quella particolare intenzione, di quel particolare senso
di concessione, di fiducia e di sincerità, perché è un’intenzione
molto potente, non è un pensiero o un dogma, non è una filosofia, è
una naturale sincerità del cuore. Così cetana, questa qualità
volitiva, condiziona l’attenzione. Per cui se la nostra intenzione è
sincera, accurata e disposta a riconoscere le cose così come sono,
quello che vediamo non sarà più offuscato da una cortina di giudizi e
rimpianti, dubbi e pregiudizi.

Ogni cosa è unica, non esistono momenti ripetuti, non ci sono momenti
che continuano.

– La fame di sensazioni –

Quando proviamo una sensazione dolorosa nel corpo come la
consideriamo? Non si tratta di come dovremmo agire, ma di quale
effetto ha su di noi. Se provo dolore sperimento il desiderio che se
ne vada, oppongo resistenza e tensione. Se seguo questo impulso, se mi
irrigidisco, allora divento impaziente e desidero solo che finisca.
Oppure ci troviamo in sala di meditazione e stiamo seduti tutti
composti perché ci sono altre persone. Quando accade questo spesso
cominciamo a provare un sottile risentimento verso quelle persone
perché è a causa loro che proviamo dolore, vorremmo solo potercene
andare in camera nostra e fare quello che ci pare. Chi ci sta
trattenendo? Chi ci ha segregato? È possibile non autorecludersi? Il
punto è proprio di non rinchiudersi, ovvero riconoscere la resistenza
al disagio, a ciò che è doloroso e che proviamo davvero nella nostra
mente; non è semplicemente un pensiero, possiamo veramente sentire
nella mente un’energia che spinge contro quella sensazione e quando
riusciamo a entrare in contatto con quella particolare intenzione di
resistere al dolore possiamo rilassarla. Avremo dunque una sensazione
neutra, né piacevole né spiacevole, semplicemente neutra. È difficile
da accettare perché noi vogliamo qualcosa di più interessante, perché
la nostra intenzione è piena di brama.

Di nuovo, se riconosciamo questa fame di sensazioni potremo vedere che
si tratta di un’attività che tenta di scovare, attirare e trattenere
le sensazioni. E la possiamo rilassare. Lo stesso accade con una
sensazione piacevole: anche se vogliamo accumularla e trattenerla
possiamo rilassare questa intenzione. L’intenzione è come il muscolo
della mente, è la cosa che si estende e si contrae, che va a caccia e
che si affanna. Quando ci focalizziamo seriamente sull’intenzione non
abbiamo bisogno di farci delle idee, è come rilassare i muscoli del
corpo; allo stesso modo possiamo rilassare quel muscolo della mente e
se lo facciamo, in quel momento sperimenteremo il lasciare andare.
L’esperienza del lasciare andare è come un senso di apertura, di
spaziosità, di gioia, di luminosità ed è questo il modo in cui la
pratica si sviluppa perché ogni volta che c’è un momento di
rilassamento, e ce ne accorgiamo, questo influenzerà la nostra
intenzione e con l’andare del tempo l’intenzione stessa diventerà meno
spaventata, meno esigente e meno ostile. È così che cominciamo a
progredire, che cominciamo a spazzare via il kamma negativo, gli
accumuli negativi.

La pratica sul corpo è particolarmente utile perché il corpo è troppo
stupido per mentire come fa la mente, ci dice direttamente cosa sta
accadendo e poi è più lento. La mente è come un fantasma, un miraggio
che guizza veloce, mentre il corpo tende a mantenere le impressioni ed
è possibile vedere con maggior chiarezza. Coltivando il corpo potremo
osservare come stiamo coltivando contemporaneamente anche la mente,
perché la mente e il corpo sono interdipendenti. Cominciamo così ad
accumulare e realizzare i mezzi abili di cui abbiamo bisogno per
lavorare con i nostri stati emotivi e psicologici.

Durante un ritiro ci stabilizziamo nella meditazione, ci stabilizziamo
sugli oggetti della nostra attenzione e il mio suggerimento è di usare
le sensazioni che sorgono nel corpo, concentrandoci su quelle connesse
al respiro e sviluppando questi due aspetti di vitakka e vicara, cioè
focalizzando la mente e sensibilizzandola. Questa pratica aiuta a
sottrarre terreno fertile agli impedimenti, la strategia quindi è di
fornire alla mente un oggetto che sia abbastanza gradevole, in modo da
impedire che sorga il desiderio dato che abbiamo già un rifugio
piacevole. Inoltre questo senso di agio fa sì che il nostro corpo
sperimenti un senso di luminosità e benessere che impedisce
all’irritazione di sorgere.

Anche gli altri impedimenti, ovvero il dubbio, l’irrequietezza, la
noia sono neutralizzati da questa pratica. Con l’irrequietezza
possiamo usare quel particolare tipo di energia che sta dietro alla
preoccupazione per sviluppare l’investigazione. Questo è investigare
veramente l’oggetto di meditazione, la qualità e la sostanza delle
sensazioni, e in questo modo la mente si sente appagata, la sua
irrequietezza viene placata dall’avere qualcosa da fare.

– La pratica porta la gioia –
Il termine vedana, che traduciamo con sensazione, si riferisce alla
sfumatura specifica della sensazione; abbiamo una sensazione fisica
che è una specie di stimolazione e ne traiamo un senso di piacere.
Vedana dipende inoltre dalla qualità dell’attenzione. Se l’attenzione
stessa è gentile, morbida e ricettiva, la qualità della sensazione
sarà raffinata e piacevole. Se invece l’attenzione è grossolana,
esigente o annoiata, allora la sensazione non sarà né piacevole né
sottile. Quando parliamo di samadhi, il termine concentrazione non
rende esattamente il significato, perché il samadhi comprende le due
qualità di vitakka e vicara. È necessario un equilibrio estremamente
saggio. Se non siamo estremamente attenti, se ci sforziamo troppo,
mancheremo di sensibilità. Samadhi infatti non significa aggrapparsi
stretti all’oggetto di meditazione, è qualcosa di molto più malleabile
e saggio di questo. In pratica richiede una capacità costante di
risposta, è come lo sforzo che compiamo per mantenere in equilibrio un
oggetto delicato nella nostra mano: non possiamo stringere troppo
forte, dobbiamo assecondarlo, dobbiamo mantenere la nostra attenzione
morbida e flessibile perché rimanga in equilibrio. Gli estremi
dell’equilibrio ci portano, da un lato, a essere troppo lievi e allora
la nostra mente non è veramente concentrata, è sonnolenta e annoiata,
e dall’altro se mettiamo troppa forza, diventiamo tesi. Naturalmente è
proprio qui che la qualità di sati, la consapevolezza, è necessaria
per coltivare il samadhi. È un riportarsi continuamente alla qualità
dell’intenzione, cetana e verificare quale motivazione, quale
approccio, quale spinta stiamo mettendo nella nostra pratica. Quando i
mezzi abili sono presenti acquisiamo una capacità di sentire che non
ha nulla a che vedere con la sensazione, è una sensibilità che viene
dalla mente stessa, non ha a che fare con il contatto fisico, ma con
la purezza intrinseca della mente, la sua leggerezza, il suo essere
raccolta. Questo si verifica, ad esempio, quando facciamo qualcosa
volentieri, in quel momento la mente è leggera. Quando stiamo facendo
qualcosa perché ci piace, perché lo vogliamo, si verificano allora uno
stato mentale e un umore luminosi. Tutto questo è profondamente
associato con l’intenzione e l’attenzione piuttosto che con il corpo.
In pali questo stato si chiama piti e dà origine a un’altra sensazione
sottile chiamata sukha. Piti si ha, se siamo un artigiano, quando
stiamo intagliando qualcosa e siamo veramente interessati a quello che
stiamo facendo, siamo completamente presi, magari ci viene da
canticchiare o fischiettare. Poi quando abbiamo concluso il nostro
lavoro e lo guardiamo, pensiamo: “È proprio bello”. In quel momento
proviamo la qualità di sukha. Sono due tipi di sensazioni. Quando sono
presenti vitakka-vicara, piti e sukha, allora la mente si sente
naturalmente lieta, è felice, unificata. Questo è ciò che chiamiamo
samadhi.

Il Buddha ha detto che una mente felice è naturalmente concentrata. È
importante ricordarci di questo quando verifichiamo la nostra pratica
di meditazione. Gli atteggiamenti che non danno origine a questo senso
di concentrazione, di entusiasmo, di coinvolgimento in ciò che stiamo
facendo, di senso di soddisfazione, sono degli impedimenti. In termini
di pratica, la tecnica o l’oggetto di meditazione che scegliamo
dovrebbe essere quello che ci dà la possibilità di tenere questi
fattori uniti, e il modo in cui pratichiamo dovrebbe tenere presenti
tutti questi fattori. Se preferiamo praticare con il respiro, allora
una cosa da tenere a mente, assieme al respiro è che stiamo già
respirando, non dobbiamo sforzarci di farlo, ci sta già accadendo, si
tratta solo di imparare a respirare in modo molto gentile, innocente.
Tutto ciò che dobbiamo fare è ricevere il nostro respiro.

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