Guardare con gli occhi dell’amore

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Guardare con gli occhi dell’amore

di Karl Riedl

La nostra pratica è vivere in armonia e in pace per noi stessi e per
gli altri. Per me questa è un’altra maniera per dire ‘essere
consapevoli’. Cosa significa creare e mantenere e ristabilire
l’armonia e la pace? Non è forse qualcosa che stiamo cercando con
tutto il cuore, un bisogno che custodiamo nel profondo del nostro
essere? Essere qui dimostra proprio la nostra volontà di cercare gli
strumenti per vivere in armonia. Per me è stato così, quando ho
sentito Thay dire queste parole per la prima volta. Ero a Plum Village
per il ritiro invernale e non avevo ancora deciso di andare a viverci.

L’altro giorno ho letto, a questo proposito, una storia che vorrei
raccontarvi per spiegarvi cosa intendo dire. Il cuoco del Centro Zen
del maestro Suzuki, negli Stati Uniti, era molto arrabbiato, perché la
sera precedente, in cucina, era successo di tutto: il cibo non era
stato consegnato, nessuno aveva lavato i piatti e qualcuno aveva
perfino lasciato il frigo aperto. Il cuoco si lamentò con Suzuki per
venti minuti, mentre il maestro lo guardava, ascoltandolo in silenzio.
Il cuoco alla fine si sentì sollevato, perché finalmente qualcuno lo
aveva ascoltato e lo aveva capito. A questo punto si aspettava di
sentirsi dare ragione. Suzuki gli sorrise gentilmente e gli disse: ‘Ci
vuole una mente davvero molto calma per fermarsi e riuscire ad
armonizzarsi con tutti gli altri.’ Questa risposta mi ha provocato un
insight, un risveglio. E’ una frase che potete fare vostra.

Sembra che a Plum Village ci siano molte opportunità per calmare la
mente. Ho detto ‘mi sembra’. In realtà facciamo di tutto per non avere
una mente calma, perché abbiamo le stesse forze dell’abitudine che
avete voi. Forse noi non siamo stressati quanto potreste esserlo voi
al lavoro o in famiglia. Perciò vi esorto a mettere questa frase di
Suzuki roshi alla base di ogni attività della vostra mente. Non molte
persone vogliono cambiare la propria vita, sedersi a meditare e cose
simili. Come dice Thay, il terreno va prima dissodato con cura, dal
momento che occorre un cambiamento profondo delle nostre vite. Forse
dovremmo trovare il modo di cambiare il rapporto con il capufficio e
anche il mezzo di trasporto con cui andiamo al lavoro, se questo ci
provoca stress. Potremmo, ad esempio, lasciare la macchina e prendere
l’autobus o la metropolitana. Quando torniamo a casa, prima di
rientrare, potremmo rilassarci e ‘rinfrescarci’ con una passeggiata.

Durante i miei viaggi in Giappone rimasi piacevolmente sorpreso
dall’abitudine di tenere la mente calma e stabile in autobus e in
metropolitana. Vedevo le persone di fronte a me, sedute ferme e
rilassate, con gli occhi chiusi, come se dormissero. Ero anche un po’
preoccupato per loro, temevo che perdessero la loro fermata. Invece,
la metropolitana si fermava e qualcuno scendeva, perfettamente
sveglio. Era tutto molto divertente, ma per me restava un mistero.
Tuttavia sembra proprio che i giapponesi sappiano come rilassarsi e
rigenerarsi completamente. Per esempio, nelle case hanno l’abitudine
di fare dei bagni in un’acqua così bollente che quasi non ci si può
immergere. In quel calore è impossibile perfino pensare. Credo che il
segreto stia proprio qui: fare qualcosa che riporti nel momento
presente, ma che sia anche un modo per rigenerarsi.

Thay parla sempre di entrare in contatto con ciò che è rinfrescante e
che guarisce. Questo ha un significato preciso: cercare modi per
cambiare la nostra vita quotidiana, le nostre abitudini. Per me, ad
esempio, è importante rimanere in silenzio dopo la colazione. Non lo
sapevo, prima di venire al Villaggio. Ricordo un giorno in cui c’era
chiasso in cucina. Era il Giorno della Pigrizia e le monache stavano
chiaccherando. Mi irritai e da allora scoprii che la mia mente al
mattino è instabile e sensibile. È stato un bene per me essere
obbligato a non parlare dopo la colazione. Anche la meditazione del
mattino mi giova moltissimo. Provate a trovare anche voi uno spazio
simile: potete farlo a casa, con la vostra famiglia.

Ci sono molte tecniche diverse nella meditazione buddhista per
imparare a guardare tutti gli esseri viventi con mente equanime. Qui
ho trasformato la mia abitudine a giudicare e a fare paragoni.

A questo proposito, vorrei offrirvi un altro spunto di riflessione,
oltre a quello sull’avere una mente calma: guardate ogni cosa con gli
occhi dell’amore. Per me, l’amore è la base del nostro vivere insieme.
Se comincerete a guardare con gli occhi dell’amore, potrete rendervi
conto di quando non lo state facendo e del perché.
Abbiamo molte presupposizioni, semplici idee o avversioni. Mi sono
accorto, nei miei anni di viaggi, che ci sono tre grandi ostacoli che
creano difficoltà a tutti noi: uno di questi è la differenza tra
culture, nazioni e istituzioni. Non sapevo neppure quanto fossi
razzista prima di lasciare la Germania, vent’anni fa. In India subii
il mio primo shock culturale.

Reagii in modo molto aggressivo. Avrei potuto parlare per giorni di
quanto fossero stupide quelle persone, di come non sapessero sfruttare
le risorse naturali su scala industriale. Per contro, gli indiani si
dimostravano presuntuosi e orgogliosi, addirittura irritanti. Mi
parlavano a lungo di quanto noi Occidentali fossimo inferiori: per
esempio, invece di lavarci, usiamo la carta igienica. Da allora sono
stato molto attento nel giudicare e nel guardare chi vive in ambienti
e culture diverse. Stare a Plum Village, poi, è un banco di prova: in
comunità convivono Vietnamiti e Occidentali, perciò ci confrontiamo
spesso con la facilità di cadere nella trappola dei pregiudizi.

L’altro grande ostacolo è quello dei rapporti tra genitori e figli, la
difficoltà di comunicare tra generazioni. Thay ne ha parlato molto.
Io, invece, vorrei soffermarmi sul terzo ostacolo: il rapporto tra i
sessi. Vivere solo con le monache del Lower Hamlet (Plum Village è
composto da due gruppi di cascine separati: il ‘Lower Hamlet’ è
riservato alla comunità femminile, ndr) non rappresenta un problema,
per me, perché per loro io sono al di là dei soliti paragoni tra
maschi e femmine. A volte sono rifiutato da altre donne: mi dicono che
gli ricordo il padre e se anche faccio notare che non sono loro padre,
i giudizi e i paragoni persistono. D’altra parte, quando parlo con gli
uomini, resto stupito dalle idee sulle donne, mentre, talvolta sono
colpito dalle idee che hanno le donne su come sono gli uomini.

Alcune settimane fa si è svolto un ritiro di monache. Sono venute
molte donne, anche femministe. Sono scappato, ma un giorno due di loro
mi hanno bloccato e per mezz’ora mi hanno bombardato con le loro
invettive sugli uomini. Non si erano nemmeno rese conto che io ero un
uomo.

Quello che vorrei farvi capire è che con una mente calma si possono
superare queste idee, queste differenze, possiamo facilmente
incontrarci e guardare tutto con gli occhi dell’amore, senza litigare.

A Plum Village abbiamo una bella cerimonia di matrimonio: le coppie si
scambiano le cinque consapevolezze. Le prime quattro esprimono la
responsabilità che ciascuno ha nei confronti dell’altro. La quinta
dice: ‘Siamo consapevoli che litigare e incolparsi non ci aiuta, ma
aumenta la distanza tra noi. Solo la comprensione, la fiducia e
l’amore ci possono aiutare a cambiare a crescere, ci possono aiutare a
vivere insieme in armonia’. Non parlo solo di quando ci si accusa e si
litiga perché ci sono delle difficoltà. Spesso cerchiamo, accusandoci
reciprocamente, chi è il colpevole. È una vecchia abitudine: qualcuno
deve essere il colpevole, e sicuramente non sono io, vero? Se non
possiamo litigare di persona, lo facciamo con la mente. Così non
riusciamo mai a ritrovare l’armonia. ‘Lei, o lui, ha detto la tal cosa
e questo mi ha ferito’, e così via.

Non litigare è una pratica molto profonda, perché quando guardiamo in
profondità dentro noi stessi vediamo che questo significa non
incolpare l’altro di ciò che è accaduto. Quello che succede riguarda
il nostro mondo interiore: ‘Avevo delle idee sulla situazione, ma le
cose sono andate diversamente e non ho saputo più gestire le
conseguenze’. Questa è la pratica più profonda che ho imparato qui:
tornare sempre a me stesso, ricordare sempre a me stesso di farlo.
L’altra persona può essere la causa ultima delle situazione, ma è a me
che non piace. Non si tratta di analizzare i propri giudizi o le
proprie avversioni, quanto di stare con le sensazioni spiacevoli o
dolorose, toccare le ferite profonde che non abbiamo voluto vedere per
molto tempo: non le conoscevamo, ma c’erano.

Un anno fa, mentre andavo a fare colazione, ho visto un cartello con
su scritto ‘riservato alle monache’. I laici dovevano sedere altrove.
Divenni furioso, mi sentii avvampare, mi tremava tutto il corpo e non
capivo perché. C’era qualcosa in quel ‘riservato alle monache’. Chiesi
di parlare alla comunità, per esprimere il mio risentimento. La
responsabile fu sorpresa: ‘Mi spiace, Karl. Non volevo ferirti.’
Spiegò che dovevano preparare una cerimonia. Al massimo avrei potuto
rammaricarmi di non avere avuto abbastanza tatto, ma in qualche
maniera non mi aveva convinto, non riuscivo a farmene una ragione. Mi
ci vollero giorni e giorni per venirne a capo. Stavo con quel
sentimento, non recriminavo, lo portavo nella meditazione seduta e
camminata, ma c’era qualcosa in me che non riuscivo a toccare. Nessuno
osava avvicinarmi.

Un giorno una monaca molto gentile , che mi conosce bene, venne a
bussare alla mia porta: ‘Karl, che ti succede?’ Le risposi: ‘Non lo
so. Non ne ho la più pallida idea’. Poi un giorno, dopo una settimana,
affiorò una parola: ‘rifiutato’. Vennero a galla ricordi degli ultimi
trenta-quarant’anni, che non avevo mai voluto vedere. Mi ricordai di
situazioni in cui si ripeteva la parola ‘rifiutato’. Quella parola
illuminò il mistero di una sofferenza fino ad allora incomprensibile.

Dare un nome risolve il problema, significa verbalizzare un insight.
Questo mi ha sempre aiutato. Mi è successo ancora diverse volte di
trovarmi nella stessa situazione, ma ora so riconoscerla. Thay dice
sempre che è come tenere un bambino tra le braccia. Ora conosco molti
miei bambini e a ciascuno ho dato un nome. Ogni tanto li incontro e
dico: ‘Ah, eccoti!’. Il nodo c’è ancora, ma non reagisco più.

Conoscere se stessi non significa essere il proprio psicanalista.
Molte persone vengono sviate da quest’idea. Prendono la meditazione,
la consapevolezza, l’insight come un lavoro da cronista: ‘Ora sono
arrabbiato. Ora sono annoiato. Ora sono in un altro modo’. Alla sera,
poi, fanno il bilancio delle cose negative e positive. Non è questo il
punto. Conoscere se stessi significa che dall’osservazione delle
proprie reazioni e dalla comprensione della rabbia, del risentimento,
del rifiuto, si ha la possibilità di conoscere anche gli altri. Poiché
si entra in contatto con il sentimento di rifiuto, lo si riconosce nel
prossimo. Prima non capivo. Vedevo qualcuno arrabbiato a causa mia, ma
non capivo perché: non avevo detto niente di male, in fondo. Ora tutto
è molto più chiaro, perché sono entrato in contatto con certi miei
percorsi mentali e così posso essere in contatto anche con la mente
dell’altro. E’ questo il motivo più profondo per cui dobbiamo
conoscere noi stessi. Cominciamo da noi, ma non per un fine
individuale. Avevo una zia che non aveva mai il mal di testa e, quando
lo avevo io, non capiva cosa fosse. In tedesco la parola
compassione significa ‘ho la tua stessa sensazione, posso condividere
questa sensazione con te’. Occorre, però, che prima di tutto la provi
io. Conoscere me stesso non è altro che conoscere te.

Avendo praticato in questo modo negli ultimi due anni, sono arrivato
alla conclusione che tutti condividiamo la stessa mente. Badate bene,
non voglio dire che inter-siamo, ma proprio che abbiamo la stessa
mente. Io potrei avere alcuni aspetti più elaborati, alcune intenzioni
e inclinazioni peculiari, e, quindi, posso avere più familiarità con
certi percorsi della mente, intesa nella sua globalità. Ma, osservando
voi, scopro quegli aspetti del mio essere che sono rimasti in ombra.
Mi è successo molto spesso.

Nel Satipatthana Sutra il Buddha invita a osservare la mente
dall’interno e dall’esterno e questo è conoscere la mente.Quando dico
che vi capisco non voglio dire che mi occorre sapere di più di voi,
conoscere le storie personali. Non penso che mi piacerebbe essere uno
psicanalista. Il Buddhismo non è la psicanalisi, ma una religione. E
la religione ci chiede di conoscerci, per conoscere gli altri. Capirti
è molto semplice perché in te mi riconosco. Il Sangha, in questo
senso, è la meditazione sulla mente globale. Non è solo vivere,
lavorare, praticare insieme. È la dimostrazione pratica che siamo
un’unica mente. È l’accettazione delle differenze.

In fin dei conti vogliamo tutti la stessa cosa. Più mi conosco, più mi
guardo in profondità, più sono in contatto con il nucleo essenziale
del mio essere, più vedo che desidero la pace e l’armonia. Che voglio
una mente stabile e calma. Poiché so che è la mia mente, so anche che
è la vostra. Da quando guardo con gli occhi dell’amore, non ho mai
incontrato qualcuno che non volesse vivere in pace e in armonia, che
non volesse avere una mente stabile e calma. Penso che anche un
assassino non desideri altro che avere una mente stabile e calma.

Non è facile toccare questo desiderio e così cerchiamo strade
indirette. Se pretendo che qualcuno mi ami, cercherò di costringerlo
con il potere, cercherò di essere scaltro per renderlo dipendente,
cercherò di accumulare denaro per essere sicuro, cercherò di essere
attraente. Vi chiedo, allora, di non guardare le forme esteriori, di
non guardare ciò che fanno le persone, ma di guardare ciò che
vogliono. Qual è la loro motivazione più autentica. Guardate sempre
più in profondità, fino a che entrate in contatto col fatto che tutti
cerchiamo la pace e la felicità.

Questa è una visione positiva, che ci libera e ci fa intuire con
facilità i nostri trucchi, i nostri modi di agire. Vediamo a che gioco
stiamo giocando noi e a che gioco stanno giocando gli altri. In
effetti noi utilizziamo molti artifici e possiamo notare che gli altri
usano gli stessi metodi. Se ci mettiamo in condizione di prestare
attenzione alle situazioni è sorprendente scoprire come tutti quanti
usiamo gli stessi stratagemmi per essere amati, per avere attenzioni.

Conosco una persona che crea continuamente problemi. Qualsiasi cosa si
cerchi di fare per lui non funziona, va in fumo. Nel momento in cui,
però, viene fuori la sua “fenice” dalle ceneri, tutto cambia e
l’apprezzamento per lui è generale. Lo osservo da due anni e ho
intuito che quello è il suo trucco. Ora so che lui è una persona
eccezionale, nonostante per fare ogni cosa debba prima confondere la
situazione. Tutti noi usiamo questi giochetti. E’ meglio non prendersi
troppo sul serio per non esserne catturati. Talvolta questi meccanismi
complicano la vita a chi vuole aiutare. Potrebbe cadere in una sorta
di trappola. Riflettete: noi che ‘sappiamo’ un po’ di più, siamo in
una posizione di apparente vantaggio. Non soffriamo come chi chiede
aiuto e spesso è ancora catturato dai propri meccanismi. E’ molto
difficile non lasciarsi coinvolgere e capire di cosa ha davvero
bisogno. Potrebbe, per esempio, avere bisogno di uno spazio che noi
non abbiamo il diritto di invadere. Pensate che questa sia mancanza di
compassione?

Per essere più chiaro vi racconterò un bellissimo episodio della vita
del Buddha. Un giorno fu avvicinato da una donna che stringeva un
bimbo morto fra le braccia. Anche il marito era morto e il figlio era
rimasto la sua unica speranza: avrebbe dovuto prendersene cura,
altrimenti sarebbe stata esclusa dalla società. Ma il bambino era
stato morso da un serpente e non c’era stato niente da fare. Quella
donna, adesso, era davvero disperata. Si era rivolta al Buddha perché
le avevano detto che faceva miracoli. Le avevano promesso che avrebbe
fatto tornare in vita suo figlio e che così lei avrebbe condotto una
vita normale. I discepoli pensavano che se di solito il Buddha non
mostrava i suoi poteri, di certo quella volta sarebbe intervenuto. “E’
vero – disse il Buddha – ho dei poteri magici, ma prima ti chiedo di
farmi un favore. Portami tre semi di mostarda dal villaggio”. La donna
replicò che in qualunque casa nei dintorni avrebbe potuto trovare quei
semi. Ma il Buddha aggiunse: “I semi devono provenire da una casa in
cui non sia mai morto nessuno”.

La donna, senza nemmeno fargli finire la frase, si precipitò nella
casa più vicina. Le dissero subito che avevano i semi che lei cercava,
così chiese se in quella casa fosse morto qualcuno. Le risposero di
sì, scoppiando in lacrime: “Due settimane fa, il nonno”. La donna si
recò nella casa accanto e scoprì che vi era appena morto un figlio.
Nella successiva era morta un’altra persona ancora. Dopo avere bussato
in tutto il villaggio, comprese il messaggio. Tornò dal Buddha sapendo
che non sarebbero stati i suoi poteri magici a restituirle la quiete e
la pace della mente, perché la disperazione e la morte sono parte
integrante della vita. Quella donna divenne discepola del Buddha e, in
seguito, raggiunse l’illuminazione.

Questo episodio mi ricorda sempre di cercare i mezzi abili, per
liberarmi dai miei stessi meccanismi, dal mio desiderio che gli altri
stiano al gioco che io ho scelto e per capire quando sono gli altri a
coinvolgermi nel loro. L’esperienza a Plum Village con centinaia di
persone mi ha insegnato che soltanto quando gli altri non ci
assecondano e non si lasciano trascinare dai nostri meccanismi siamo
in grado di guardare e di capire cosa ci succede realmente. Allora
riusciamo a stare con il desiderio di essere amati, con il senso di
vuoto.

Il compito del bodhisattva è proprio di fare rimanere le persone con
le proprie sensazioni e non semplicemente di dargli un aiuto. Questo è
il grande messaggio che ho imparato qui. Qualche volta anche per me è
difficile trovare il giusto spazio, e lasciarlo agli altri perché sia
possibile stare con le sensazioni, con i propri problemi, essere
disponibili senza ricadere nele solite trappole. Ma io vi comprendo
davvero perché ora so guardare in profondità in me stesso, nella mia
rabbia, nelle mie idee, nelle mie ragioni: prendendomene cura mi
prendo cura anche delle vostre sensazioni.

Ho cominciato questo discorso con la frase ‘guardate ogni cosa con gli
occhi dell’amore’, che è alla base di tutto ciò che faccio. L’amore
deve essere espresso. Secondo me l’aspetto pratico dell’amore è il
semplice, basilare prendersi cura, proprio come fa la madre con il
bambino. Così noi dobbiamo prenderci cura di noi stessi: in questo
modo ci prenderemo cura degli altri.

Di nuovo, questo prendersi cura ha bisogno di pratica. Non siamo
abituati ad amare, a comprendere. Thay un giorno ha chiesto ‘cos’è per
voi la meditazione?’ e ha spiegato che ‘è il modo in cui aprite una
porta’. Ho detto prima che la consapevolezza è la parte attiva
dell’amore, la base del prendersi cura. Ecco perché anche la maniera
in cui aprite la porta esprime la vostra gentilezza, la vostra
tenerezza, il vostro prendervi cura delle cose. Da quando sono qui a
Plum Village il prendersi cura fa parte della mia vita e del mio modo
di essere.

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