Dispense introduttive alla pratica dello Yoga 1

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Dispense introduttive alla pratica dello Yoga 1

(A cura di Ivan Di Piazza)

– prima parte –

La parola Yoga deriva dalla radice sanscrita yug che significa ‘unire’, aggiogare. Essa perciò
significa congiungere tutte le dimensioni dell’uomo (la mente, il corpo, la coscienza profonda) in
un’unica dimensione che le trascenda. Significa anche disciplinare il corpo, la mente, le emozioni,
la volontà, ed indirizzare questi strumenti verso un unico fine. Il fine è la scoperta di una
dimensione universale della coscienza che va oltre ed è più profonda della ristretta identificazione
dell’ego-persona. A questa dimensione si da il nome di Kaivalya, Moksha o liberazione.

Lo Yoga rappresenta la rinascita ad una nuova consapevolezza; da una vita abitudinaria, automatica,
che attribuisce grande peso agli schemi mentali utilizzati per tradurre il mondo, verso una
coscienza più alta ed una esistenza piena e divina.

Lo Yoga è forse il più antico sistema filosofico-esistenziale e di pratiche per lo sviluppo
consapevole della persona. Utilizza in gran parte una modalità ingiuntiva, cioè conduce attraverso
specifici esercizi fisici, psichici e coscienziali sulla via della piena realizzazione del Sé.

E’ una disciplina millenaria, che contatta i diversi piani dell’essere umano: fisico, psichico,
energetico e coscienziale. Permette quindi di conquistare una maggiore agilità corporea (livello
fisico), riportare prima di tutto la mente al corpo per costituire consapevolmente una unità di
ordine superiore che trascende sia la mente che il corpo. Già soltanto il pieno compimento di questa
solida base integrata, costituisce un alto livello di realizzazione umana, che consente di abbattere
gran parte dell’ansia e dello stress inutili a cui siamo sottoposti e vivere più pienamente le
proprie relazioni. Questo livello fornisce inoltre una grande scioltezza del corpo, della mente,
serenità interiore in tutte le situazioni, ed ogni tipo di depressione diventa solo un ricordo. Gran
parte dei danni e delle disarmonie dovute alla debolezza del corpo e della mente ed alla loro
dissociazione, vengono dissolti.

Da questa solida base armonizzata si può procedere senza timore attraverso la meditazione e le
pratiche verso l’Assoluto, la non-identificazione, la non-dualità.

Si può paragonare l’essere umano ad uno strumento musicale, che deve essere accordato per produrre
melodie. Gli esercizi Yoga accordano il corpo, la mente e l’anima e ne fanno un tutt’uno armonico,
“eufonico”.

Oggi, più che in ogni altra epoca della storia dell’umanità, gli occidentali sono sottoposti a stre
ss e tensioni che non sono attrezzati per affrontare. Sempre più persone fanno uso di tranquillanti,
di sonniferi e di altre sostanze nel vano tentativo di “aggiustare” l’ansia attraverso interventi
esterni. Lo Yoga insegna come affrontare lo stress non solo a livello fisico ma anche mentale e
spirituale: non solo scioglie le tensioni e le rigidità muscolari, ma permette di individuare e
sciogliere i blocchi interiori che spesso sono alla base di tale rigidità. Gli antichi Yogi
possedevano una profonda comprensione della natura umana e di tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno per
vivere in armonia con se stesso e con ciò che lo circonda. Essi percepivano il corpo come un veicolo
alla cui guida vi è la mente, mentre hanno indagato cosa vi è oltre la mente, indicando livelli di
coscienza di non-mente e di pura consapevolezza dell’Essere. L’azione, le emozioni e l’intelligenza
sono le tre forze che muovono il veicolo-corpo, tre forze che devono essere in equilibrio per
consentire all’individuo uno sviluppo integrato del suo pieno potenziale.

Partendo dall’interrelazione tra corpo e mente, lo Yoga nacque come metodo unitario per mantenere
l’equilibrio, un metodo che combinasse tutti i movimenti necessari alla salute fisica con la
respirazione, il rilassamento e le tecniche di meditazione.

– Due modalità di conoscenza –

Quando la Realtà tenta di conoscere sé stessa attraverso la mente umana, alcuni aspetti gli devono
rimanere sconosciuti. Non appena si instaurano modalità traduttive della realtà, cioè categorie
legate alla rappresentazione simbolica del tutto (linguaggio, concetti, etc..), necessariamente si
manifesta una rottura tra il conoscitore ed il conosciuto, tra soggetto ed oggetto. Di pari passo
con il necessario strutturarsi della identificazione egoica-personale, cresce sempre più il divario
tra ‘me’ ed il ‘mondo’, poiché viene tracciato un confine di demarcazione netto che crediamo essere
reale. Ma tracciare un confine significa prepararsi ad un potenziale conflitto; rendere tale confine
più netto significa inasprire la futura battaglia.

L’identificazione egoica ci porta in una situazione competitiva e di sfida verso il mondo che
sentiamo come ostile e che vogliamo dominare. Lo Yoga, nella sua forma più pura, costituisce una
esplorazione dei confini che abbiamo tracciato, per verificarne l’effettiva consistenza.

Le modalità ordinarie di conoscenza, siano esse scientifiche, psicologiche, filosofiche, etc., in
ultima analisi si dibattono per tracciare confini sempre nuovi e più sottili, confini di confini,
oppure sono in contrasto tra loro per stabilire quali siano i confini. Nessuno tuttavia mette mai in
discussione l’esistenza stessa dei confini. Questo perché la conoscenza intellettuale, ‘ordinaria’,
lavora su schemi, categorie, categorie di categorie, che poi mette in relazione tra loro. Vengono
fuori così gigantesche mappe del reale spesso in contrasto tra loro, e chi conosce bene una di
queste mappe finisce per confondere la mappa con il territorio di origine, e considerare la proprie
mappa la vera realtà concreta.

La contraddizione sta nel fatto che questo genere di conoscenza dualistica del mondo lacera
l’universo in soggetto ed oggetto e pretende di osservare gli oggetti scollati dal soggetto di
conoscenza. Per quanto questo tipo di approccio possa apparire sensato ed abbia portato la grande
rivoluzione scientifica (dal 1600 in poi, in Europa), esso fondamentalmente non dà una conoscenza
profonda della natura ultima delle cose.

Nonostante gran parte dei cosiddetti “scienziati” non se ne rendano pienamente conto, l’applicazione
sistematica di tale metodo con strumenti sempre più sofisticati ha portato alla fondamentale
negazione di una visione “meccanica” della natura ed alla messa in discussione del metodo
scientifico stesso. I fisici che all’inizio del ‘900 hanno esplorato per primi la materia
microscopica “oggettivamente” si sono accorti che non era possibile fare alcuna misurazione
veramente oggettiva a quella scala. Infatti, scendendo al livello dell’elettrone, non è più
possibile osservarlo senza modificarne il suo stato, cioè l’osservato dipende dallo strumento di
misura, ed in ultima analisi, dall’osservatore. Questo spingeva E. Schroendiger, il fondatore della
meccanica quantistica, a dichiarare:”Vi prego di osservare che se abbiamo fatto dei progressi
recentemente, non è certo perché il mondo della fisica sia diventato oggi un mondo di ombre; lo è
stato infatti sin dai tempi di Democrito ed oltre, ma allora non eravamo consapevoli; credevamo di
avere a che fare con il mondo reale e ci ritroviamo ombre”.

Ecco allora che comincia ad esser chiaro che ciò che il senso comune reputa realtà oggettiva, logica
e coerente non è una vera conoscenza della Realtà, ma una conoscenza relativa alle categorie
culturali e della mente, e quindi dipende dallo stato di coscienza di chi percepisce e dal suo
retroterra. In ultima analisi, noi vediamo della realtà ciò che la nostra struttura (linguistica,
culturale, etc..) ci fa vedere. Tutto è complicato dal fatto che gran parte dei nostri filtri
percettivi sono di natura inconscia, cioè dipendono da

condizionamenti legati al nostro vissuto, tradizionalmente chiamati Karma. Questo perché costruiamo
le nostre mappe in base all’elaborazione percettiva distorta delle esperienze, e poi finiamo per
identificarle con il mondo reale creando un solco tra noi e l’universo vivo.

Il tipo di conoscenza che lo Yoga sviluppa è di altra natura ed è legato all’attivazione di modalità
intuitive di in cui avviene una immersione nella nostra natura più profonda ed una fusione di
soggetto ed oggetto di conoscenza. Tutto ciò può accadere se la modalità ordinaria di conoscenza
legata al linguaggio, ai confini, etc.. temporaneamente cade ed emerge la visione profonda, quella
che Patanjali, il codificatore dello Yoga classico, chiamava Prajna, la sagge zza intuitiva, che è
insieme trascendente ed immanente. Questo tipo di conoscenza trascende gli ordinari confini
spazio-temporali, ed è oltre lo spazio ed oltre il tempo, poiché fa riferimento alla pura dimensione
dell’Essere che è dentro di noi e fuori di noi. Si capisce allora perché Patanjali definisca lo Yoga
“l’arresto (nirodha) dei processi traduttivi ordinari legati all’identificazione egoica (citta
vritti)”, cioè la condizione di calma mentale realizzata attraverso le tecniche Yoga crea il terreno
adatto all’emersione di un altro tipo di coscienza-conoscenza normalmente offuscata dall’agitazione
della mente.

– Storia e significato dello Yoga –

“Il momento senza durata ed il punto senza estensione, essi sono il mezzo dorato ed il dritto
sentiero che ci conduce dal tempo all’eternità, dalla morte all’immortalità.”- A.K. Coomaraswami

Lo Yoga è uno dei sei sistemi ortodossi della filosofia indiana. E’ ortodosso poiché riconosce
l’autorità dei Veda, le più antiche scritture sacre degli indù, che risalgono almeno al 1500 a.C.

Narra il mito che un giorno il dio Shiva, seduto sulla spiaggia di un’isola, stesse istruendo la sua
sposa Parvati sulla pratica dello yoga, non accorgendosi però di un piccolo pesce che, nascosto tra
le onde che si infrangevano sul bagnasciuga, ascoltava rapito tutte le sue parole. Quando i due déi
si resero conto della presenza del piccolo intruso era troppo tardi: questi si era già dileguato tra
i flutti, portando con sé tutti i segreti che aveva appreso. Il pesciolino nuotò per chilometri e
chilometri, mentre elaborava e metteva a frutto dentro di sé gli insegnamenti che aveva carpito a
Shiva. Tale era la potenza di questi insegnamenti che il pesciolino, nel breve spazio del suo
viaggio a nuoto, passò attraverso tutte le tappe del percorso evolutivo finché, quando al termine
del viaggio giunse a riva, sul continente, si era infine trasformato in un uomo.

Quest’uomo, che si chiamò Matsyendra (Matsya in sanscrito significa “pesce”), fu il primo yogin
della storia, e attraverso il suo insegnamento la scienza dello yoga poté essere conosciuta dagli
esseri umani. Questo mi to indiano sull’ingresso dello Yoga nella storia umana evoca una cultura
strabordante di simboli, forme, rappresentazioni, da cui è difficile estrarre degli elementi utili a
darne una definizione univoca.

Questo viaggio ha inizio sulle rive del fiume Indo, tra il terzo e il secondo millennio avanti
Cristo, epoca cui sono fatti risalire i più antichi reperti archeologici finora ritrovati con
rappresentazioni collegabili in qualche modo allo yoga. Poco o nulla si sa della civiltà fiorente ed
evoluta che a quel tempo si era sviluppata nella valle dell’Indo: la civiltà Dravidica. I
ritrovamenti testimoniano però la presenza, in quella misteriosa cultura, di alcuni elementi che
avrebbero rivestito una grande importanza per lo yoga nei secoli successivi, e che sarebbero stati
recuperati in particolare nell’ambito tantrico che avrebbe dato vita allo hatha yoga: il culto della
forza creatrice femminile, nella forma della Grande Dea o Dea Madre, le immagini di yoni e linga,
simboli sessuali legati a riti di fertilità e rappresentanti le energie archetipiche,
rispettivamente femminili e maschili.

Alcuni reperti sembrano anche suggerire la conoscenza di pratiche di controllo fisico e respiratorio
che avrebbero potuto costituire una prima forma embrionale di yoga, forse utilizzate in ambito
sciamanico, allo scopo di indurre stati di coscienza particolari, conseguire poteri magici e
comunicare con le forze soprannaturali.

La civiltà della Valle dell’Indo scomparve travolta dall’invasione di popoli nomadi di ceppo
indoeuropeo che chiamavano se stessi Arya (nobili, congiunti). Gli Arya discesero lungo il percorso
dell’Indo con cavalli e carri da guerra e, dopo essersi diffusi largamente nel subcontinente
indiano, vi si stabilirono definitivamente attraverso un lungo e sofferto processo che diede origine
alla civiltà indù. Dalla divisione funzionale della società caratteristica di queste popolazioni
nomadi nacque una rigida struttura di controllo sociale, il sistema delle caste, gerarchia
piramidale ed ereditaria al cui vertice erano collocati i Brahmani, la casta sacerdotale, e nella
cui base, la casta votata al servizio, confluirono le popolazioni sottomesse; dall’adorazione degli
Arya per le forze cosmiche, successivamente personalizzate sotto forma di divinità, nacque il vasto
Pantheon indù, celebrato negli inni dei Veda.

Vista la grande estensione geografica dell’India antica, che comprendeva anche i territori
dell’attuale Pakistan e Bangladesh, gli Arya si introdussero in India da Ovest attraverso il
corridoio del Pamir e per ondate successive invasero l’intera piana indiana ed il sud del
subcontinente. Ebbe quindi un lungo e laborioso processo culturale, in cui i nuovi dominatori
assimilarono lentamente ma profondamente gli elementi della civiltà autoctona. Storicamente, non è
stato possibile accertare se lo Yoga ha origini completamente pre -ariane o sia nato dal sincretismo
e dall’interazione di due culture: quella sedentaria e matriarcale pre-ariana, e quella guerriera e
patriarcale ariana.

I Veda sono i testi sacri indù più antichi, composti intorno al 1500 a.C., quando il processo di
sedentarizzazione degli Arya in India si era ormai completato. Il cuore della liturgia vedica è
rappresentato dal sacrificio officiato dai Brahmani, depositari della scienza sacra e unici
intermediari tra il mondo umano e il mondo divino. Il rito sacrificale (in origine costituito da
offerte di vittime animali, poi via via sostituite da riti non cruenti) aveva nella sua
manifestazione più grossolana una funzione di sostegno e di regolazione delle energie cosmiche
personificate negli déi, che il sacerdote dirigeva attraverso l’azione liturgica allo scopo di
ottenere vantaggi materiali per la comunità (ad esempio, un buon raccolto).

Un diverso significato del rito sacrificale, più evoluto, nasce da un elemento che si affermerà come
uno dei pilastri del pensiero filosofico indiano: la consapevolezza che dietro alla danza delle
forze cosmiche e al dispiegarsi della manifestazione esiste un principio ultimo, unico, assoluto ma
non manifesto (il Brahman), da cui tutto discende, e che rimane celato dal traboccare delle
innumerevoli forme del mondo fenomenico. Il rito, spostato su un piano simbolico, viene allora
compiuto per ripercorrere a ritroso il processo di discesa dall’Uno indifferenziato alla
molteplicità delle forme, ricostruendo così l’unità originaria.

Come il rito vedico anche la pratica dello yoga, fin dalle sue origini, è soggetta a due principali
interpretazioni, una più utilitaristica e l’altra più spirituale.

Inizialmente la maggior parte dei cultori di discipline psicofisiche (che nei Veda sono citati come
tapasvin, seguaci dell'”ardore”) utilizzava queste pratiche essenzialmente allo scopo di acquisire
potere, sia sul proprio corpo e sulle sue pulsioni, sia sul mondo esterno, attraverso i poteri
magici che si riteneva potessero essere risvegliati dal dominio del corpo e della mente. In questo
senso è possibile rintracciare un collegamento diretto con lo sciamanesimo centro-asiatico. Alcuni,
però, le praticarono nel tentativo di trascendere la condizione umana ordinaria per accedere a una
coscienza superiore, anticipando così la successiva evoluzione di queste discipline nello yoga
classico.

Nella sua interpretazione più spirituale, lo yoga delle origini può essere considerato come
un’interiorizzazione del rito sacro di ascesa dal molteplice all’Uno. Se il sacerdote della liturgia
vedica operava infatti l’ascesa attraverso un rito esteriore, gli yogin, nell’i dea di una
sostanziale corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo, tra uomo e universo, attuarono questo
cammino di reintegrazione attraverso un’immersione nelle profondità della coscienza, alla ricerca
della propria natura fondamentale, permanente e indifferenziata (Atman), che, secondo un’equazione
che rappresenta uno dei cardini di gran parte del pensiero indiano, coincide con l’essenza
permanente e indifferenziata dell’universo (il Brahman).

Per ottenere questo alto scopo, gli yogin finalizzarono la disciplina del corpo e della mente al
raggiungimento di stati di coscienza che permettessero il superamento dei limiti dell’io e dei
condizionamenti che impediscono all’essere umano il riconoscimento della realtà ultima. Anche se
molti maghi e seguaci dell’occulto continuarono a utilizzare le tecniche dello yoga allo scopo di
ottenere poteri soprannaturali (le siddhi), chi praticava con intenti più spirituali considerò le
siddhi degli effetti secondari pericolosi, che, con l’ebbrezza del potere, potevano distogliere il
ricercatore dal suo scopo fondamentale.

Per creare le condizioni più favorevoli alla pratica interiore, gli yogin intrapresero il cammino
solitario degli asceti, ponendosi al di fuori della vita sociale e della gerarchia delle caste.
Liberandosi dal rigido sistema di regole che costituiva la struttura della società indù, poterono
concentrare tutte le proprie energie nella loro ricerca, ritirandosi nella foresta o sulle montagne.
Non erano unici in questa scelta: il percorso ascetico era consentito e previsto dalla tradizione,
ed era anzi considerato l’ultima delle tappe obbligatorie della vita di un brahmano, una volta
assolti i doveri familiari e sociali. Alcuni, tuttavia, lo intraprendevano appena raggiunta l’età
adulta, senza aver prima formato una famiglia.

Questo allontanamento dalla società per dedicarsi alla ricerca interiore non corrispondeva però
affatto ad un’affermazione della propria individualità: al contrario, la personalità individuale e
le tensioni egoiche erano considerate uno dei principali ostacoli al riconoscimento della propria
natura profonda e al compimento del processo di reintegrazione dello yoga.

E’ nelle Upanishad, l’ultima parte dei Veda, che si trovano i fondamenti degli insegnamenti dello
Yoga e della filosofia Vedanta, la cui idea centrale è che alla base dell’intero universo vi sia una
realtà assoluta o consapevolezza, Brahman. Non dimentichiamo poi che lo stesso Buddha, vissuto ne VI
secolo a.C., è stato uno yogin prima di proporre la sua via spirituale di rinnovamento.

La Realtà non può essere formulata in termini positivi di categorie della mente, né in termini
negativi di negazioni di tali categorie, ma essa è uno stato di coscienza che trascende le ordinarie
limitazioni spaziotemporali imposte dall’io. L’io struttura la convinzione profonda della dualità
del reale in due modi:

\ spazialmente, ritagliando delle cornici arbitrarie attorno ad una parte della realtà ed isolandola
dal contesto del resto dell’universo. Nascono così le ‘cose’, i concetti, e dunque la possibilità di
manipolarli. Questo tipo di conoscenza basa il suo funzionamento sul filtro simbolico-linguistico.

\ Temporalmente, attraverso la memoria costruisce un’idea di passato e di ordine lineare degli
eventi.

La realtà si dà una sola volta, e mentre la struttura del pensiero concettuale è lineare e
diacronica, il mondo manifesta i suoi diversi eventi in modo sincronico. Ciò significa che in verità
gli stessi concetti di tempo e di spazio sono costruzioni illusorie della identificazione egoica.

La pratica dello Yoga mira non tanto ad abbattere le barriere dell’illusione, ma ad esplorarle sino
a riconoscerne la loro non-esistenza; cioè noi siamo già esseri di luce, ma facciamo di tutto,
consciemente o inconsciemente , per negarlo ed opporre resistenza. Là dove vi è unità ed
interdipendenza creiamo confini e separazione.

Attorno al VI secolo a.C., fecero la loro comparsa due imponenti poemi epici, il Ramayana ed il
Mahabharata, contenente la Bhagavad-Gita, l’inno del sublime, in cui Dio o Brahman, incarnato come
Krishna, istruisce il grande eroe Arjuna insegnandogli le diverse vie dello Yoga.

Nella millenaria evoluzione spirituale dell’India si sono sviluppate molte vie differenti nello
Yoga, che tuttavia perseguono lo stesso scopo: l’unione (yoga) dello spirito individuale (Atman) con
lo spirito assoluto (Brahman), del soggetto e dell’oggetto. Questa unione libera lo spirito da ogni
senso di separazione, dall’illusione del tempo, dello spazio e della casualità.

Patanjali, il genio sistematizzatore del Raja Yoga, autore degli Yoga Sutra (aforismi sullo Yoga),
ci dice che “lo Yoga è l’arresto (nirodha) del movimento ordinario della mente (citta vritti)”. Cioè
la nostra natura ultima e vera è l’unità, che è già presente qui ed ora, ma è coperta dai movimenti
della mente e dalle sue strutture di superficie e profonde (io, inconscio) e dalle loro modalità
traduttive del reale (pensiero discorsivo e simbolico). Le principali vie dello Yoga sono:

\ Bhakti Yoga, la via della Devozione, percorsa dalla persona ispirata dal sentimento che vuole
trovare il Sé supremo attraverso l’amore incondizionato e la preghiera.

\ Jnana Yoga, lo Yoga della conoscenza, la via scelta dall’intellettuale che arriva a fondersi con
il divino tramite lo studio degli scritti sacri, la speculazione filosofica e la meditazione.

\ Karma Yoga, la via dell’Azione senza frutto, quella di chi realizza l’Assoluto coltivando il
nonattaccamento nei riguardi dei frutti delle proprie azioni di vita, e quindi l’azione
incondizionata.

\ Hata Yoga, si fonda sulla prati ca delle asana (posture del corpo) e degli esercizi di pranayama
(armonizzazione dell’energie vitale attraverso il respiro). Hata significa “forza”, ma esprime anche
la polarità dell’essere umano: ha significa infatti “sole”, “calore” o “terra”, mentre tha significa
“luna”, ”freddo” o “cielo”. Il senso degli esercizi di Hatha Yoga è quindi quello di armonizzare le
forze opposte dentro di noi. Il testo classico dello Hatha Yoga è lo Hatha Yoga Pradipika (1400 d.C.
circa), che descrive le varie asana e i diversi pranayama.

Lo Hatha Yoga si inserisce tuttavia nel più spirituale Raja Yoga (yoga reale), che ha come
principali oggetti la coscienza e la mente. Il Raja Yoga ha come massimo riferimento gli Yoga Sutra
di Patanjali, collezione di circa 300 aforismi divisi in 4 libri, composti nel IV secolo a.C, che
descrivere i diversi ostacoli alla realizzazione ed il modo di fronteggiarli. Negli Yoga Sutra viene
data la via delle otto braccia (anga): Yama, Niyama, Asana, Pranayama, Pratyahara, Dharana, Dhyana,
Samadhi.

Le prime due fasi (Yamae Niyama) consistono in una serie di regole morali che aiutano chi le segue a
vivere in pace ed in armonia con sé stesso ed i propri simili anche in un contesto sociale. Yama
sono le 5 discipline etiche: ahimsa (non violenza), satya (verità), asteya (non rubare),
brahmacharya (continenza), aparigraha (non appropriarsi di ciò che non viene dato spontaneamente);
Niyama sono le 5 regole di condotta interiore: saucha (purezza), santosa (contentarsi), tapas
(austerità), svadhyaya (studio di sè), Isvara pranidana (abbandono al principio creatore
universale).

Le fasi successive di Asana e Pranayama costituiscono lo Hatha Yoga. Il Pratyahara è il ritiro dei
sensi dall’esterno, cioè rivolgere l’attenzione percettiva verso l’interno anziché verso l’esterno
come è abitudine. Nella vita ordinaria questo comunque si traduce in un rinnovato rapporto con gli
oggetti della percezione e con la loro fruizione, in cui è stata trascesa la tendenza egoica a
‘possedere’ gli oggetti, le persone e le esperienze. Viceversa si raggiunge un equilibrio in cui si
attraversano piaceri e dolori con equanimità profonda e senza che vi sia attaccamento al piacevole o
rifiuto per ciò che è spiacevole.

I successivi stadi si riferiscono agli stati di coscienza ottenibili attraverso le tecniche
meditative. Dharana viene di solito tradotto come “concentrazione”, Dhyana come “meditazione”,
Samadhi come “coscienza suprema”. Si tratta tuttavia di approfondimenti successivi di un’unica
attitudine coscienziale.

Da secoli la dottrina dello Yoga viene trasmesso da insegnante (guru) ai loro discepoli (shishya).
Gu significa “oscurità”, ru significa “luce”: il guru, quindi, rimuove l’oscurità e porta la luce
nella vita del discepolo. Nell’India antica il discepolo viveva con l’insegnante e lo serviva con
devozione, fino a quando acquisiva il sapere e diveniva maestro a sua volta.

Sostanzialmente tutti gli esercizi dello Yoga sono descritti nei testi classici dello Yoga;
tuttavia, le esperienza, le istruzioni precise per l’esecuzioni degli esercizi, la filosofia, la
scienza continuano ancora oggi a vivere nei maestri e si evolvono continuamente grazie a loro. Lo
Yoga, infatti, da un lato è legato alla tradizione, dall’altro è una scienza viva.

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