Counseling: L’origine delle problematiche interiori del cliente

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L’origine delle problematiche interiori del cliente

TRATTO DA UN SEMINARIO DI MARCO FERRINI DAL TITOLO: I MIRACOLI DELL’EMPATIA

Il XV capitolo della Bhagavad-gita si apre con una metafora molto suggestiva, che descrive il mondo
fenomenico, ciò che appare all’esperienza empirica, come un albero di baniano. Questo ha una forma
talmente particolare da apparire rovesciata, come cioè, se avesse le radici verso l’alto e i rami
verso il basso.
Allo stesso modo le persone che vivono nella società attuale, scambiando l’effimero per vero, sono
capovolte nel senso dato alle cose e alla vita.

Se come counselor ci focalizzeremo su aspetti superficiali, trascurando la vera natura
dell’interlocutore, potremo commettere diversi errori di valutazione. Se per esempio ci
focalizzassimo sull’aspetto esteriore dell’interlocutore, difficilmente riusciremo a rintracciare
l’origine del suo malessere.

Il counseling è una funzione e il counselor è un funzionario di quella funzione, che per svolgerla
al meglio deve necessariamente sviluppare qualità intellettuali, per intuire e cogliere in maniera
acuta le caratteristiche peculiari dell’interlocutore, e qualità spirituali per comprendere tali
caratteristiche in profondità.

Se il counselor possiede solo qualità intellettuali e non spirituali, avrà un problema perché non
riuscirà a sentire empatia verso il cliente e allora lo vedrà come un numero, come una persona
anonima e questo non lo porterà a comprendere il suo reale problema; il counselor
intellettualizzerà, razionalizzerà, ma non riuscirà a entrare nello spirito, nella personalità del
suo cliente.

Per esempio una personalità che si trucca vistosamente, ad un primo sguardo si può facilmente
intuire che ama attirare l’attenzione su di se, desidera mettersi in mostra e farsi notare,
approfondendo con la persona in questione si potrebbe comprendere il vero problema alla base di
questo, non un esagerato narcisismo come si poteva dedurre, ma al contrario un forte senso di
inferiorità, una non accettazione del proprio corpo che sfociava nell’estremo contrario. Mai, nessun
segnale preso singolarmente, può darci un’idea definitiva sulla personalità della persona che
abbiamo di fronte, questa è qualcosa di dinamico, di complesso, per cui occorre la comprensione di
molti atteggiamenti, comportamenti, parole, opinioni, pensieri, prima di trarre qualsiasi idea di
chi è il nostro interlocutore.
Anche una volta giunti ad un quadro pressoché verosimile del cliente, il counselor dovrà mantenersi
aperto a possibili ulteriori fattori o elementi che potrebbero arricchire il quadro e mai e poi mai
deve sentirsi autorizzato a porsi in maniera giudicante verso il cliente.

Introduciamo un argomento complesso: l’origine delle problematiche interiori del cliente.
Ogni problema ha una sorgente e quasi mai quest’ultima viene identificata dal cliente. Forse perché
la ignora o forse perché è reticente nell’affrontarla, di fatto il cliente non descrive il problema
nella sua origine, ma nei suoi effetti. Scopo del counselor sarà quindi guidarlo verso una
consapevolezza delle cause che provocano il manifestarsi di determinate difficoltà, che possono
essere più d’una, e conquistarsi la fiducia del cliente in modo che egli stesso sia in grado e
desideri esporle.

In questo senso l’accoglienza dignitosa, senza esagerazioni artificiali che scivolino in adulazione,
l’ascolto attento e attivo, sono essenziali affinché il cliente si senta capito e compreso dal
counselor; diversamente, sarà assai difficile risolvere i problemi per i quali gli si è rivolto.

Ci sono differenti gradi di risoluzione del problema che variano in proporzione alla superficialità
o profondità con cui lo si affronta: per sradicare un problema in via definitiva occorre giungere
alla radice, perché se semplicemente vengono tagliate le cime del problema o ne vengono potati solo
alcuni rami, questi ricrescono.
Tra gli avvocati c’è un detto: “causa pendente causa rendente”, che esplicitamente dichiara che
maggiore sarà la durata delle cause, maggiore sarà il guadagno degli avvocati che le trattano;
questo tipo di ragionamento applicato al counseling sarebbe estremamente amorale e privo di etica.
Dunque, andare a fondo e cercare l’origine del problema è una grande priorità.

Ma come sempre noi non possiamo forzare il cliente. Il cliente può arrivare anche al punto di
diventare nemico del counselor, se lo osserva dal punto di vista dell’ego e di conseguenza può anche
innescarsi una sorte di conflittualità tra il counselor ed il cliente. Questo è normale perché il
ruolo del counselor non è quello di un amico che pensa di risolvere i problemi del cliente dandogli
una pacca sulla spalla e non può quindi mostrarsi accondiscendente se il cliente sta perseverando in
una direzione sbagliata e che gli arrecherà quindi ulteriore sofferenza. Laddove però il cliente si
rifiutasse di affrontare la realtà e trasferisse la propria responsabilità sul counselor,
cominciando a vederlo come nemico, quest’ultimo non dovrebbe affrontare direttamente ed
ortogonalmente la questione, quanto piuttosto allentare la presa e, pur provando compassione,
lasciare che gli eventi facciano il loro corso. A questo punto saranno gli accadimenti stessi a
produrre quella dose di sofferenza sana, inevitabile esito delle impostazioni erronee del cliente,
che potrà fargli comprendere aspetti che il counselor non è riuscito a trasmettere.

La sofferenza provata non è che l’esito della disarmonia del proprio comportamento rispetto alla
legge cosmo-etica del dharma, la cui infrazione determina anche un arresto nell’evoluzione
individuale.

È molto importante capire che quando non si può beneficare qualcuno in maniera naturale, in accordo
alla sua volontà, non si debba mai forzare la mano, anche se siamo certi di farlo per il bene del
nostro interlocutore, perché infrangeremmo la prima regola, quella della libertà. Noi dobbiamo
mantenere le persone libere: libere di venire o di andare, di partecipare o di non partecipare,
d’essere empatiche o di non essere empatiche. In questo senso diventa fondamentale porsi verso
l’altro, sì con cura e interesse, ma anche con quel distacco emotivo che preserva l’altrui libertà
di rimanere nella relazione d’aiuto o di andarsene e che garantisce la giusta accoglienza, senza
rivendicazioni o rancore, qualora il cliente che avesse temporaneamente deciso di abbandonare,
decida di tornare.

Il counselor deve lavorare nel rispetto assoluto della volontà del suo cliente e grazie alla propria
forza morale ed etica si fermerà laddove il cliente gli indicherà.

Il rapporto counselor cliente, oltre ad essere un rapporto empatico e rispettoso della reciproca
libertà, dovrà necessariamente essere un rapporto sincero, privo di maschere, sia da parte del
cliente, sia da parte del counselor.
Laddove il counselor si ponesse per ciò che non è e ingannasse il cliente, in realtà non farebbe
altro che ingannare se stesso; allo stesso tempo egli dovrebbe con gradualità avvicinarsi al
cliente, attraverso una strategia operativa che gli consenta di arrivare alla sorgente del problema
senza, in nome della spontaneità e della sincerità, andare immediatamente a toccare zone sensibili,
che il cliente non accetterebbe di trattare.

L’azione strategica, empatica e adattiva, nel rispetto di un equilibrio fra la sincerità e la
discrezione garantiranno il costituirsi di un clima di fiducia reciproca e di relazione efficace e
consentiranno al counselor di predisporsi di volta in volta nella maniera più proficua verso le
resistenze del cliente. Talvolta sarà necessario allearsi con esse, talvolta bisognerà
contrapporvisi, tutto è in relazione al livello di consapevolezza del cliente verso l’origine della
sua problematica.

Alla base di un problema interiore o di una difficoltà cronica, non legata cioè a circostanze
spazio-temporali definite, ma che si ripropone via via in differenti situazioni di vita, vi è
generalmente un conflitto interiore.
Spesso questa tensione è difficile da riconoscere da parte del cliente, perché porta seco un carico
di sofferenza notevole e riportarne alla luce i contenuti può essere molto doloroso. Non solo, ma
spesso questi vissuti emotivi di sofferenza sono accompagnati da altri vissuti ugualmente inibenti
la presa di coscienza: i vissuti di vergogna per i fatti che hanno scaturito il malessere attuale.
Possono esserci anche vissuti di colpa, se il cliente in primis ha commesso qualcosa di spiacevole
verso altri o verso se stesso o si è fatto carico di qualcosa commesso da persone a lui care o da
altri a suo discapito.

Non necessariamente le tensioni interne che si celano dietro un malessere manifesto, debbono essere
inconsce, ma spesso non vengono comunque affrontate per le ragioni sopraindicate e soprattutto
perché apparentemente è molto meno doloroso incolpare qualcuno di esterno per la propria condizione,
piuttosto che dover scoprire le proprie verità scomode.
All’origine di una tensione esterna, vi è sempre una tensione interna, se quest’ultima rimane
occultata, il problema non si risolverà mai e dunque la sofferenza aumenterà.

Gli strumenti che il counselor ha a disposizione per aiutare il cliente in questo viaggio interiore
sono l’ascolto attento del racconto del cliente (in genere il primo racconto viene detto
confessione), la valutazione del materiale esposto (mettendo insieme i dati esposti dal cliente per
comprendere se e quando il problema si manifesta) una interpretazione del suo vissuto (che considera
anche i segnali non verbali come il tono della voce e la gestualità, per valutare eventuali
incongruenze tra linguaggio orale e linguaggio del corpo) ed un porre domande mirato
all’esplorazione interiore del cliente (fondamentale per verificare se le intuizioni avute sono
esatte). Tutto questo non sarebbe possibile in una semplice conversazione, il counseling è molto di
più.

L’ascolto attento prevede infatti che il counselor possa richiedere al cliente approfondimenti su
particolari relazioni o avvenimenti della propria vita, possa richiedergli di raccontare un episodio
anche diverse volte per notare eventuali modificazioni nella narrazione, ma soprattutto prevede un
atteggiamento in cui il counselor ascolti empaticamente la narrazione del cliente, mantenendo,
attraverso il distacco emotivo, la propria visione pura rispetto agli eventi narrati secondo il
punto di vista del cliente.
Per questo motivo, in famiglia, tra membri appartenenti allo stesso nucleo, è difficile applicare il
counseling, si tenderebbe infatti a non rispettare ruoli e strumenti e l’eccessiva confidenza
presente, sarebbe fuorviante rispetto alla necessità di mantenere distacco emotivo e obiettività.

da www.csbcounseling.org/

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