SentireAscoltare – Capitolo 2 – Le coppie primarie dell’esperienza musicale

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SentireAscoltare – Capitolo 2 – Le coppie primarie dell’esperienza musicale

di Edoardo Bridda

Capitolo 2 – Le coppie primarie dell’esperienza musicale

2.1 Premessa
Il ritmo, nel senso dell’alternanza di cui si è detto, non abita la musica solo nel senso con cui si
dice che essa ha un ritmo o che il ritmo è uno dei suoi elementi. Il ritmo è una dimensione di fondo
dell’esperienza umana, parte integrante del sé bios, esperienza originaria.
Gli elementi, su cui esso opera si manifestano, in modo particolare durante l’infanzia, come
presenza-assenza, cioè come relazione [53] .

Nel campo musicale ciò significa che oltre all’esperienza del ritmo vero e proprio (che non a caso
nei bambini è prima di tutto binario) [54] , vi è l’esperienza del suono/silenzio, del forte/piano,
dell’acuto/grave del dolce/aspro (o sordo/sonoro, metallico/non-metallico, e di tutto il campo
percettivo che ha a che fare con quello che è stato definito timbro). La dualità è riconoscibile non
solo a questi livelli per così dire di base della musica, ma anche nei tentativi di elaborazione
formale del discorso musicale. L’alternanza tema-variazioni, ad esempio, o quella figura/sfondo,
costituiscono strutture formali elementari da cui provengono le risorse di molte delle forme più
complesse e articolate che conosciamo. Il bambino che è soggetto, secondo Imberty, ad una
iperaudizione melodica, dà più importanza alla melodia che all’accompagnamento, la figura prevale
sullo sfondo. Le capacità analitiche e sintetiche nell’audizione musicale arriveranno
successivamente, perciò è importante in questo capitolo sottolineare quali elementi comuni
sottostanno ad ogni esperienza musicale, ovvero, costituiscono il suo strato più elementare e più
originario di senso. Da questo punto di vista le dualità sopra accennate sembrano essere proprie del
bambino in modo immediato [55] e perciò ci serviranno da guida, come una bussola nel paesaggio
sonoro, permettendoci di capire anche come la razionalizzazione operata dalla cultura occidentale
sulle sue rappresentazioni sonore sia, talvolta, notevolmente astratta e, in alcuni casi,
terribilmente logorroica.

Non è un caso che l’occidente sia l’unica cultura ad avere una grammatica musicale così fortemente
strutturata, tanto che le capacità di ricezione delle sfumature sonore, in chi è avviato ad una
scuola di musica, necessitano spesso di anni di allenamento per funzionare correttamente. Questa
pratica tutta occidentale di iniziazione all’istruzione musicale ha talvolta occultato un sentire
musicale originario. I bambini, come vedremo, colgono i suoni appartenenti alla meccanica dello
strumento (la frizione dell’arco sulle corde del violino, il rumore delle chiavi o del fiato se è un
flauto che suona o del pedale se si tratta di un pianoforte), suoni che un orecchio “colto” non
coglie più, perché seleziona altri elementi (melodia, armonia, ritmo) e lascia cadere questi come
spuri; per il bambino invece tutto fa parte del prodotto da sentire.

2.2 Il suono/silenzio
Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico
interviene nel momento decisivo dell’azione. Nell’istante in cui un dio manifesta la volontà di dare
vita a se stesso o a un altro dio, di far apparire il cielo e la terra oppure l’uomo, egli emette un
suono [56] .
Non c’è dubbio che la dualità rumore/silenzio, in particolar modo, interessi l’intera storia della
specie umana. Teologi, filosofi, e storici si sono occupati di questo tema riconducendo sempre
l’attività umana al suono, senza negare che proprio il suono è tale in relazione al silenzio su cui
si staglia. Se il suono è la vita, esso si oppone con forza al silenzio, ma è anche vero che
quest’ultimo è la base su cui esso si stratifica.
Il silenzio costituisce uno strumento espressivo fondamentale perché è grazie ad esso e su di esso
che il suono prende corpo. Anzi può costituire esso stesso un mezzo elettivo di comunicazione e di
espressione. Ascoltando il fischio dei merli Palomar giunge addirittura a chiedersi “e se fosse
nella pausa e non nel fischio che i merli si parlano? Parlarsi tacendo o fischiando è sempre
possibile; il problema è capirsi” [57] .

Dunque, quel bene prezioso che è il silenzio è essenzialmente l’altra faccia della medaglia
costituita dal suono. Non solo nella comunicazione, ma più in generale è un elemento indispensabile
nella percezione sensoriale. L’intervallo tra un battito cardiaco ed un’altro non è proprio un
silenzio assoluto nel feto ma è una pausa di senso, anzi, è proprio questa pausa che da senso al
ritmo [58] , questa è senz’altro una disposizione della Vita.
D’altronde la relazione suono/silenzio si declina in modo diverso in tutti quei suoni che sono altro
da sé rispetto al ritmo biologico della vita. A seconda delle condizioni storiche e dei luoghi
geografici (ambienti) questa dualità acquista sfumature e caratteristiche diverse nella psiche
umana. Abbiamo visto che il bambino possiede già delle capacità innate, che gli permettono di
acquisire e trarre giovamento da suoni specifici quali il tono di voce della madre. Ora la nostra
analisi ci porta necessariamente ad osservare tutti quegli elementi che, diciamo, stanno sullo
sfondo (suoni/rumori di sottofondo) . Tutte queste espressioni acustiche sono di fatto al di fuori
del sé del bambino ed hanno la caratteristica di essere per la maggior parte casuali, non-ritmiche.
Con un po’ di fantasia possiamo immaginare come poteva essere l’universo sonoro della terra nel
periodo precambriano, oltre 600 milioni di anni fa. La terra era in fase di assestamento e la sua
superficie era sconvolta dalle esplosioni dei vulcani; dal franare delle rocce; dai rumori delle
cascate, dalle onde del mare, dal vento, della pioggia e dei tuoni. Era un mondo di suoni
disorganizzati, casuali… [59] .

I suoni ambientali, a causa del loro carattere casuale, non hanno nessuna armonia con l’universo
sonoro di senso che sintetizziamo nel ritmo cardiaco originario, e se vi è supposta armonia questa è
precaria e contingente. L’uomo ha imitato i suoni e i rumori della natura e della vita, li ha
strutturati ed ha composto della musica anche al fine di un godimento estetico oltre che
comunicativo, tuttavia egli non è mai stato in grado di strutturare tutti i suoni a suo piacimento,
di ordinare tutto dal caos. Il sistema sonoro, nel quale l’uomo è avvolto fin dall’inizio della sua
specie, ha sempre seguito – e segue – logiche inumane, è spettato all’uomo nel suo continuo
adattamento al suo ambiente trovare un ordine da questo caos. Un ordine sempre parziale e mai
risolutivo.
Lo sfondo del nostro pianeta non è mai stato omogeneo, si è evoluto parallelamente all’evolversi
della vita e si è pian piano arricchito di nuovi rumori, di nuovi suoni, di nuovi ritmi. È nata una
sinfonia della vita che muta continuamente il suo stile, i suoi temi, i suoi ritmi, e riflette la
vita dell’uomo: i suoi desideri e le sue speranze, i suoi divertimenti e le sue angosce. Il rumore
di fondo della vita è lo specchio del suo grado di evoluzione (o involuzione) [60] .
Persino oggi in cui l’uomo è in grado di registrare e di riprodurre ogni rumore e suono della natura
attraverso specifiche apparecchiature (e quindi di controllare e manipolare i rumori a lui
sgraditi), egli si trova (e sempre più) a dover fare i conti con lo stress provocato da suoni che,
di fatto, sono il frutto delle sue creazioni e delle sue conquiste evolutive. Basti pensare che già
Giulio Cesare nel 44 a. c. aveva emanato una (la prima) ordinanza anti-rumore!

Non bisogna dimenticare che il nostro paesaggio sonoro si è profondamente modificato in seguito alla
rivoluzione industriale che ha portato ad una maggiore presenza di suoni e rumori artificiali. Oggi
il rumore di sottofondo è presente quasi ovunque e modifica inevitabilmente il senso della nostra
esperienza del silenzio e, per converso, del suo rapporto, il suono o rumore.
Non è un caso che molti musicisti d’avanguardia contemporanei articolino la loro musica più sui
silenzi che sui suoni, forse come afferma J. Cage, nel suo libro intitolato appunto Silenzio, il
loro intento è di recuperare un qualcosa che è in via di estinzione.
Tuttavia i suoni ambientali, di adesso come di allora, sono altro da sé rispetto alla vita intesa
come vita/non-vita e lo sono sempre stati. Le esperienze che più sono radicate nel sé bio-psichico
dell’uomo, come abbiamo detto, sono il ritmo cardiaco e un particolare tono di voce materno (che è
anch’esso ritmico), tutto il resto è contingenza. Le isole di ordine che noi chiamiamo musica sono
costrutti dell’uomo che, nel suo relazionarsi all’ambiente, ha estrapolato suoni e rumori dalla
natura giustificandoli in qualche modo. D’altronde, come sottolinea Robert Wyatt in un’intervista,
le chitarre acustiche o elettriche, che dir si voglia, non crescono sugli alberi…
Riprendendo il discorso sulla dualità rumore/silenzio da un’altra angolazione, possiamo aggiungere
che essa segue un po’le stesse logiche della dualità figura/sfondo. Quest’ultima, secondo Schafer, è

…il prodotto di una rete di abitudini culturali e percettive, in cui l’esperienza tende a essere
organizzata secondo linee prospettiche che comprendano un primo piano, uno sfondo e un lontano
orizzonte [61] …

è un’abitudine che è profondamente radicata nella nostra cultura musicale occidentale, aggiungono
Bottero e Padovani, fondata come si sa, sulle regolarità logiche dell’armonia. Spesso nella musica
rock è la chitarra sostenuta dalla batteria a fare la bella “figura”, mentre il basso rimane sullo
sfondo, questi due primi strumenti, infatti, producono il “rumore virtuoso”, mentre l’ultimo è
relegato ad un silenzioso gregariato.
In altre parole suono e silenzio, a seconda del periodo storico-geografico e dello stile musicale,
possono essere visti come lo sfondo l’uno dell’altro. Prendiamo due esempi contemporanei. Se sembra
scontato che il basso in un brano Hard Rock sia relegato in uno sfondo è perché siamo stati educati
al culto della chitarra, per cui, anche quando il basso si sente e “fa bene il suo lavoro” siamo
distratti dalla “rumorosa” performance chitarristica. Se sembra assurdo che un musicista
d’avanguardia contemporanea basi tutta la sua arte sui silenzi – su note appena accennate -, è
perché per noi il silenzio è, diciamo, un bene senza valore.
Il denominatore comune di entrambi gli output sonori è che noi udiamo in base ai condizionati del
nostro orecchio culturale, come direbbe G. Porzionato. Infatti, anche se entrambi i generi
rappresentano un qualcosa per qualcuno, il rock è tutto intento a difendere il rumore dal silenzio
(rumore = vita silenzio = morte), mentre la musica d’avanguardia si concentra nel conservare il
silenzio dal pericolo del rumore (rumore = disagio psichico silenzio = pace,sé bios).
Un pubblico, residente in una grande metropoli, difendendosi dalla socioacusia [62] osserverà il
rumore con le categorie del silenzio, ovvero, disporrà sullo sfondo il rumore ed esalterà la figura
del silenzio, mentre un pubblico desideroso di appropriarsi della città (di viverla) invertirà
questo rapporto, cioè, esalterà il rumore contro il silenzio.

Tuttavia, entrambe le dicotomie, se prese da sole, sono incomplete e possono essere fuorvianti nella
nostra analisi. La musica, anche se profondamente diversa tra un genere e un altro, come da un paese
all’altro, anche costituita da un semplice ritmo o dal solo canto di monosillabi, parla senza
intermediari. Se la sentiamo sensorialmente, invece, di ascoltarla, possiamo accedere al suo
significato più originario. Il discorso sul bambino è fondamentale proprio per questo, egli può
trovare giovamento sia dai silenzi sia dai suoni purché questi fatti sonori stimolino la sua
creatività e il suo bisogno di relazionarsi al mondo della vita. La sua sensibilità nei confronti
della vita lo dispongano affettivamente vicino a quei suoni che più si riconducono all’imprinting
primario che, come abbiamo detto, è costituito dal ritmo e dalla voce materna (in continuità con il
sé bios). La dualità suono/silenzio è già una disposizione a monte della vita, si riconduce
direttamente al battito del cuore è una disposizione della vita intesa come vita/non-vita. Per il
bambino suono e silenzio sono esperienze già radicate nel suo sé bios come alternanza tra una ‘toc’e
un silenzio. D’altro canto anche la voce della madre gode di un ritmo costituito dal variare del suo
tono di voce.

2.2 Forte/piano
Un altro costrutto della relazione tra il sé bio-psichico del bambino e il proprio ambiente da un
punto di vista sonoro è l’intensità [63] . Anch’essa, nella sua dualità forte/piano, costituisce uno
dei modi originari di percepire e rapportarci a ciò che ci circonda. Anche qui la primaria
discriminazione è tra due polarità. Il bambino è in grado di percepire l’intensità sonora di una
sorgente, di fare delle differenze tra uno stesso suono in sottofondo (piano) e un suono in primo
piano (forte) tuttavia la sua analisi è prettamente orientata in senso binario.
Questo vuol dire che, per lui, sono poco immediati i concetti di gradazione di intensità che sono
alla base della grammatica musicale occidentale. È curioso notare che, quando fu elaborata la
concezione meccanicistica dell’universo, parallelamente iniziarono a prendere corpo tutti i sistemi
di misurazione delle durate, delle altezze e delle intensità. Non bisogna dimenticare (o dare per
scontato) che le altezze dei suoni, che sono in relazione al numero delle vibrazioni prodotte da un
corpo, sono praticamente infinite. È solo nella nostra cultura che è prevalso il bisogno di ordinare
questa grande varietà. Le altezze infatti sono state divise in toni e ogni tono in nove parti
(comma). Tuttavia poiché con questa suddivisione la differenza di intonazione fra due semitoni
creava difficoltà pratiche, si giunse ad un compromesso formale. L’ottava (da do di prima ottava al
do di seconda ottava) venne suddivisa in dodici semitoni uguali, identificando così il semitono
cromatico con quello diatonico (do diesis = re bemolle). Questa suddivisione artificiosa, nominata
temperamento equabile, è il risultato a cui si giunse nel XVII secolo, con gli strumenti a tastiera
quali il pianoforte che rese possibile servirsi dello stesso tasto per il diesis e il bemolle [64] .

Si può già capire tutta la controversa questione, che ha coinvolto decine di antropologi ed
etnomusicologi, nella loro difficoltà di relazionarsi alle musiche non contaminate dalla
razionalizzazione occidentale. Sachs infatti è chiaro su questo punto.

Nel descrivere la musica non occidentale, sia orientale che primitiva, occorre astenersi
rigorosamente dall’impiego scorretto di concetti non pertinenti, derivati dalla musica occidentale.
La terminologia che si impara nelle scuole di musica si riferisce infatti a una musica dotata di
struttura armonica, e qualora fosse inopportunamente applicata alla descrizione di una musica non
armonica e non occidentale, potrebbe condurre a distorsioni ed errori. È del tutto ingiustificato
quello di chi etichetta le melodie non occidentali con termini come “maggiore” o “minore”, a seconda
che la nota da lui ritenuta la terza sia a una distanza maggiore o minore dalla presunta “tonica”…
… I profani poi, hanno l’abitudine ancor più deleteria di quella di definire le melodie maggiori o
minori, l’abitudine, cioè, di attribuire alle stesse melodie sentimenti prefabbricati, secondo la
credenza occidentale, del tutto infondata, che maggiore debba significare gioia e minore tristezza.
Non c’è da meravigliarsi se di fronte a simili abusi di Affektenlehre, di pseudoestetica e di
valutazione della musica, si ha l’impressione che più di nove decimi dell’umanità siano affetti da
una malinconia profonda [65] .

Senza addentrarci maggiormente nelle questioni etnomusicologiche, possiamo facilmente intuire quanto
specifico sia il nostro linguaggio musicale e quanto deleterio possa essere l’approccio ad altre
culture con i nostri metri di giudizio. Le società occidentali, a causa del loro carattere
razionale, hanno progressivamente imbrigliato la musica in strutture armoniche, illudendosi che
questo processo portasse ad una forma melodica sempre più perfetta in assoluto, invece, come
sottolineano Bottero e Padovani, hanno “semplicemente” spostato l’originaria dualità forte/piano
rendendola dinamica, ordinando, cioè, l’accento ritmico nelle battute con un’informe distribuzione
sugli accenti e le altezze.
Nel sé psichico del bambino queste sfumature non sono presenti. Egli infatti non registra il tono
della voce della madre in una scaletta misurata per cui, ad esempio, c’è il tono alto, quello
medio-alto, quello medio ecc., come sappiamo, la traccia mentale avviene in base agli affetti vitali
non alla matematica. In sostanza è la bonifica operata dall’ambiente – la famiglia, la scuola di
musica – che metterà il neonato in condizione di ricevere l’imprinting di questo specifico modo
(occidentale) di organizzare l’output musicale.
Nella struttura percettiva del bambino, la distinzione piano/forte, semplice e binaria arriva prima
e solo successivamente si acquisiscono le varie gradazioni di intensità.

2.3 Il timbro
Un altro costrutto fondamentale nella percezione del bambino e nella sua ricerca creativa è il
timbro. Esso rappresenta quella qualità che ci permette di distinguere la fonte del suono prodotto,
il ché ha a che fare con la forma e la materia della fonte sonora. Acusticamente fa riferimento al
fenomeno degli armonici:
La frequenza caratteristica di una nota è soltanto quella fondamentale di una serie di altre note
che sono simultaneamente presenti sulla nota base: queste note sono chiamate armonici (o suoni
parziali o ipertoni). La ragione per cui gli armonici non sono distintamente udibili, è che la loro
intensità è minore di quella della nota fondamentale. Ma essi sono importanti perché determinano il
timbro di una nota e al tempo stesso danno chiarezza e smalto al suono. Èciò che ci permette di fare
distinzione fra il timbro, ad esempio, di un oboe e di un coro è la diversa intensità dei vari
armonici presenti sulle note fondamentali che essi producono [66] .
Il timbro di un suono è il risultato di una serie di eventi molto complessa osserva G. Porzionato:
gli innumerevoli oggetti materiali, naturali e artificiali, producono, una volta toccati o percossi,
infinite varianti sonore. Se noi suoniamo un do centrale in un pianoforte otterremo la nota
fondamentale (il do) a cui si sommeranno una serie di altri suoni in un certo rapporto con la nostra
nota. Se aggiungiamo a questo fatto le caratteristiche dello strumento che suona; le impurità e i
rumori che sono sempre presenti nei suoni strumentali (e vocali); infine il tipo di stimolo che
produce il suono: dito (arpa), martelletto (pianoforte), archetto (violino), possiamo notare come il
timbro sia un elemento complesso del fatto sonoro.

Tuttavia, nella nostra analisi, il timbro ha a che fare con il toccare, un gesto fondamentale per il
bambino nelle sue prime esplorazioni. Le sensazioni tattili costituiscono uno dei primi modi
attraverso cui, noi, in quanto sé bio-psichico, ci rapportiamo al mondo. Con la mano che tocca si fa
l’esperienza degli oggetti, delle cose, nella loro innumerevole varietà e molteplicità.
Toccando gli oggetti, percotendoli, gettandoli, gettandoli a terra, il bambino scopre i loro suoni:
sordi, cupi, brillanti, aspri ecc. Ciò che ne viene fuori è il prodotto di un incontro tra
l’oggetto, fatto di un certo materiale (pietra, legno, metallo ecc.), e il suo specifico modo di
utilizzarlo, di percuoterlo, accarezzarlo o sfiorarlo.
Sappiamo da Stern che il bambino possiede una conoscenza innata, un Sapere che gli permette di
operare un trasferimento transmodale, ossia di riconoscere una corrispondenza, in questo caso tra la
percezione tattile e quella uditiva, tra l’oggetto mosso in un qualche modo e il timbro da esso
scaturito. Tuttavia egli sembra esperire il mondo come unità percettuale. In altre parole, tutto ciò
significa che il bambino si relaziona naturalmente al mondo dei timbri che si legano
indissolubilmente agli oggetti, anzi visto che egli è molto interessato ai diversi modi di suonare i
materiali a sua disposizione registrerà probabilmente nella sua mente quelli che lo hanno
maggiormente colpito [67] .

2.4 L’acuto/grave
Anche la discriminazione delle altezze, da cui si è sviluppato l’elemento melodico della musica, è
un aspetto importante della relazione tra corpo e mondo. Anche in questo caso la segmentazione
parcellizzata delle note degli intervalli, frutto di una lunga ed elaborata evoluzione culturale, è
preceduta nel bambino dalla distinzione acuto/grave, dove l’acuto richiama l’alto (il suono acuto si
definisce anche alto), cioè una posizione elevata dello spazio, mentre il grave richiama il basso.
Le note acute, infatti, riprodotte con la voce, il nostro primo strumento, risuonano di più in
testa, mentre quelle gravi nel petto e nello stomaco. La presa di coscienza di questo fenomeno è il
primo passo verso una consapevolezza della propria voce e del proprio corpo nonché dei suoi rapporti
sensoriali con il mondo esterno. I fisici ricordano come le altezze dei suoni dipendano dal numero
di vibrazioni che un corpo che vibra produce in un determinato tempo. Quanto maggiore è il numero
delle vibrazioni, tanto più il suono è acuto. Nella nostra analisi tuttavia non interessa il suono
come fatto oggettivo, ma piuttosto come fenomeno, cioè come un elemento della relazione tra il
soggetto – sé bio-psichico – e il proprio ambiente. Nella dualità acuto/grave è interessante notare
come questa venga immediatamente intuita nel bambino tanto da emergere nelle sue interpretazioni
motorie e nel movimento che accompagna la musica. Sappiamo inoltre, da Bottero e Padovani, che il
bambino non percepisce le singole note quanto gli intervalli [68] che le separano, ovvero, le loro
relazioni.
Si potrebbe addirittura dire che a “rigor di termini, nessuna melodia ha toni o note: in quanto
forma di movimento musicale, essa ha una serie di intervalli (o anche di salti), laddove le note
sono semplicemente delle fermate, o dei punti terminali [69] .

Un intervallo interessante è quello di terza minore discendente che ha dominato sia in Europa sia
nell’Africa nera e, nel caso italiano, connota in modo quasi esclusivo le conte e le filastrocche
infantili. Con esso il bambino – secondo Bottero e Padovani – ha una familiarità tale da
permettergli di riconoscerlo e di riprodurlo senza alcuna difficoltà e da qui emerge la possibilità
per lui di giungere presto a discriminare, in modo preciso, altezze dei suoni in filastrocche e
canzoncine già apprese in modo imitativo.
In sostanza la percezione delle altezze dei suoni è soprattutto percezione di rapporti (intervalli).
Questa percezione è tanto più immediata, quanto più è presente nell’esperienza musicale del bambino
(ad esempio la terza minore) o quanto più risponde a determinate regolarità percettive (ad esempio
l’ottava) mentre per lui l’intervallo più piccolo della nostra scala costruita con sistema
temperato, il semitono, a causa della vicinanza dei due suoni, nella nostra cultura musicale,
presenta una certa difficoltà di discriminazione percettiva.

Tuttavia questa analisi merita una precisazione che richiama necessariamente in gioco le categorie
di consonanza/dissonanza. Gli intervalli consonanti sono tutti quelli che, in un determinato periodo
storico, sono stati considerati come gradevoli, mentre quelli dissonanti, al contrario, quelli
ritenuti sgradevoli o addirittura aberranti. Se il bambino possiede una famigliarità maggiore con un
intervallo di terza minore, non significa che, c’è una consonanza innata legata a questo intervallo.
G. Porzionato ci tiene a precisare che lungo tutta la storia della musica occidentale queste
categorie percettive sono radicalmente cambiate nel giro di pochi secoli. Lo psicobiologo riscontra
che:
…nella teoria musicale occidentale si sono inizialmente considerati consonanti solo gli accordi di
ottava, quinta e quarta (do-do, do-sol, do-fa). I teorici medioevali si resero sempre maggiormente
conto che la consonanza era più un problema di percezione soggettiva che di rapporti matematici fra
suoni. Fatto sta che all’inizio del trecento un teorico inglese, certo Walter Odington, definì la
terza maggiore come consonante (Hughes, 1954, p. 390). La terza e la sesta vennero però ritenute
consonanze imperfette, fino a quando Gioseffo Zarlino, alla metà del cinquecento, le elevò al rango
di consonanze perfette… Con lo sviluppo del cromatismo prima e dell’atonalismo poi, le categorie
hanno subito la stessa sorte dei paletti di confine di molti Stati [70] .

La consonanza/dissonanza degli intervalli dipende quindi dall’imprinting del nostro orecchio
culturale che, come abbiamo detto, è il prodotto dell’interazione fra l’individuo e le stimolazioni
acustiche specifiche di un determinato ambiente fisico e socio-culturale.
Ciò che magari è consonante per il bambino, non lo è per i genitori o per il maestro di musica che
hanno appreso dalla società ciò che è gradevole in senso musicale da ciò che invece è rumore
fastidioso o irritante. Per quel che concerne la musica giovanile questo dato di fatto è ancor più
lampante, mi trovo solidale con Attali, che giusto a proposito, ha colto in pieno la relatività
della categoria sopraccitata forse più vera oggi che venti anni fa.
Bisogna imparare a giudicare la società in base ai rumori, alla sua arte ed alla sua festa,
piuttosto che in base alle statistiche. Ascoltando i rumori si potrà capire meglio dove ci trascina
la follia degli uomini e delle cifre, e quali speranze sono ancora possibili [71]

2.5 Il battere/levare
Il ritmo, come sottolineano anche Bottero e Padovani, ‘è quella dimensione di fondo dell’esperienza
che caratterizza, come presenza dell’alternanza, come relazione, gli strati più elementari di senso
su cui si fonda il linguaggio musicale [72]’ .

Il termine ritmo, più comunemente e in senso specifico, viene associato a uno solo degli elementi
della musica, grazie al quale, è possibile riconoscere una successione di movimenti che si alternano
secondo accenti forti e deboli. Anche in questo caso, non c’è prima di tutto il tempo che, poi
grazie al ritmo, articolato secondo una successione regolare, viene misurato, ma è viceversa
l’originario fenomeno dell’alternanza battere/levare a strutturare il tempo come tempo misurato e
spazializzato. Lo dimostra il naturale comportamento del bambino, per il quale la percezione e la
riproduzione di ritmi anche complessi non costituiscono un particolare problema, come invece accade
quando gli si impone la successione forzata degli accenti distribuiti in misure e battute. Nella
tradizione occidentale l’esigenza dell’ordine, della misura, ha comunque prevalso, come categoria
espressiva, condizionando inevitabilmente la didattica. Considerando il tempo come una successione
ordinata di istanti, come qualcosa di oggettivo e spaziale, una categoria estetica è stata resa
universale alle spese dell’esperienza originaria del ritmo, su cui si struttura ogni successione
ordinata. Ben lungi dall’essere abbandonata, in questo secolo, la questione dell’ordine è rimasta
centrale anche nella musica contemporanea, la quale, distrutte le geometrie della musica tonale
fondate sulle regole dell’armonia classica, non ha fatto che riproporre una musica ispirata a canoni
matematici ancor più esasperati. D’altronde la musica fatta a tavolino, prima che con il corpo, ha
sempre affascinato l’occidente fin dai pitagorici e, contro questa tradizione, definita apollinea,
ha polemizzato Nietzsche, rivendicando la centralità dell’elemento corporeo, dionisiaco, della
musica nella mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra. C’è, secondo il filosofo,
il simbolismo del corpo che rivela quel mondo dionisiaco, che la coscienza apollinea, nostalgica
delle architetture ordinate e delle perfette regolarità astratte, non poteva che rifuggire [73] . Al
di là della polemica nietscheana, la questione relativa ai rapporti fra l’aspetto corporale e
mentale della musica si presenta come ben più complessa. In realtà non c’è da una parte la musica
praticata e dall’altra la musica solo pensata, astratta. In occidente l’astrazione, l’esasperazione
del codice è stata una scelta stilistica che, ha finito per condizionare la musica praticata, così
come gli stilemi, appartenenti alle musiche etniche e popolari, figli di culture prevalentemente
orali, hanno spesso ispirato e alimentato la musica colta. Gli esempi in proposito si sprecano. Oggi
gran parte della musica praticata, anche non classicheggiante, è scritta secondo precise regole
armoniche [74] .

Nello stesso tempo, è noto come molti compositori della tradizione colta, da Stravinskij a Bartok,
da Musorgskij a Smetana abbiano utilizzato forme e stili delle più diverse tradizioni popolari.
Questa contaminazione di stili e forme della tradizione popolare con quella colta e viceversa, da un
luogo all’altro, è tipica della musica più che di altre arti. Grazie alle sue radici
corporeo-emotive, pressoché universali nella loro elementarità, essa si è potuta trasmettere tra i
popoli e le sue culture con molta più facilità della tradizione letteraria o delle stesse arti
visive. Questa grande mobilità verticale e orizzontale è figlia della specificità della musica, del
suo essere linguaggio “muto”, più vicino alla percezione naturale e, come tale, in grado di aprire
finestre di dialogo tra le culture anche indipendentemente dalle differenze religiose, letterarie, e
culturali in genere, che spesso le separano. Inutile dire che questa disponibilità alla
contaminazione è uno “starter” di socialità di apertura verso l’altro e il diverso. La musica, più
delle lingue, non conosce confini, è il primo e più elementare terreno di dialogo tra diversi e,
come tale, può essere vista come il collante tra le due civiltà – quella nera e quella bianca – che
hanno dato il là alla rivoluzione del rock. Purtroppo di tale universalità della musica sono poco
consapevoli i grandi poteri economici che, sempre più globalizzanti, hanno visto nell’universalismo
del linguaggio musicale una grande occasione di profitti: un compact disc può essere venduto, così
com’è, in tutto il mondo, mentre un libro deve necessariamente passare attraverso le traduzioni. Con
la quasi totale anglicizzazione della musica giovanile è stato superato l’ultimo ostacolo
linguistico per un mercato totale della musica.

Ritorniamo però alla questione del ritmo nella musica. Si diceva sopra che nella tradizione
occidentale figlia della scrittura, ha prevalso l’esigenza di ordinare il ritmo prima in durate e
poi in misure o battute. Ciò limitò la possibilità di uso del ritmo come strumento espressivo a
favore di altri elementi come l’armonia e la dinamica, considerati più consoni alle scelte e ai
gusti di una civiltà che, dell’ordine e del numero aveva fatto una scelta di priorità. È nato così
il sistema moderno di notazione, con cui vengono indicate in modo sempre più preciso le altezze e le
durate dei suoni. Delle altezze si è già detto prima. Per indicare le durate nella tradizione
occidentale è stata utilizzata una scala di valori che riconducono alle potenze di due: la
semibreve, unità di misura, è divisibile in due minime, quattro semiminime, otto crome, sedici
semicrome, trentadue biscrome, sessantaquattro semibiscrome. Nello stesso modo sono state
classificate le durate delle pause o dei silenzi. Il ritmo, poi, nella sua suddivisione secondo
accenti forti e deboli, è stato distribuito in misure o battute a suddivisione binaria o ternaria.
Ogni battuta è stata separata da un’altra mediante una linea verticale (stanghetta). Ci sono misure
o battute a due tempi (2/2, 2/4, 2/8) a tre tempi (3/2, 3/4, 3/8) a quattro tempi (4/2, 4/4, 4/8).
Tutte le misure che non rientrano in questa classificazione (le misure composte come 6/4, 9/4, 12/4,
rientrano ancora nella regolarità) sono definite irregolari (ad esempio 5/4, 7/4, 7/8). Era naturale
che in questa grande regolarità con cui i ritmi furono ordinati si presentasse il rischio di
produrre battiti troppo uniformi anche per l’orecchio occidentale. Si tentò di ovviare a questa
difficoltà o con la sincope e il contrattempo.

Tutte queste architetture matematiche costituiscono le premesse dei modi di divisione da cui si
sviluppò il cosiddetto solfeggio. Inizialmente il solfeggio si sviluppò come canto di una melodia
utilizzando i nomi delle note, che nei Paesi latini, a differenza di quelli anglosassoni e della
Germania, continuano sempre a essere indicate come do-re-mi-fa-sol-la-si. Il solfeggio parlato
(scomposizione dei movimenti di ogni battuta con la mano) prese piede nell’Ottocento come esercizio
preparatorio al solfeggio cantato. Tale esercizio, attraverso le scuole di musica e i conservatori,
fu poi introdotto nella scuola non appena si giunse a introdurre nei programmi l’insegnamento di
elementi di musica e canto.
In buona sostanza un fatto corporeo (e originario) diviene una operazione astratta, aritmetica.
L’interiorizzazione corporea dell’elemento ritmico si fonda sull’originaria alternanza degli accenti
e come tale non è una ‘necessità di una pratica di iniziazione, come tale, difficile e selettiva,
per poter accedere a saperi simbolici, quelli cui si dedicano alcuni ceti al fine di mettere in
evidenza la loro diversità rispetto alla massa [75]’ .

Il ritmo del battere e levare è dentro ogni singolo specifico individuo, non è una categoria
astratta da apprendere dall’esterno. Per questo il ritmo va sentito e non ascoltato, è un fatto
corporeo e non mentale. Attiva meccanismi motori naturali appunto perché questi sono un retaggio
arcaico di frammenti di memoria filogenetica. Se tutto questo sembra relativo o privo di significato
è perché il nostro orecchio culturale (parte integrante della mente) ha ricevuto un imprinting tale
da non permettere più un accesso immediato al sé-bios.
Il ritmo esiste dentro di noi come fatto inalienabile, e perciò, come concorda Sachs, ha un’origine
extramusicale che non può essere altrimenti. Il ritmo non è una qualità intrinseca della musica, né
della poesia, ma soltanto nel movimento del corpo, continua l’antropologo citando il sociologo ed
economista Karl Bucher.

Tuttavia il ritmo (come d’altronde la musica) non è sempre stato “lì pronto per essere suonato” esso
nasce dall’uomo come esigenza psicofisica che si sviluppa lentamente. Dal punto di vista fisiologico
consiste nell’impulso a rendere uguali e regolari movimenti quali camminare, danzare, correre,
mentre dal punto di vista psicologico consiste nella spontaneità e nello slancio di quest’atto.
Secondo il Nostro questo spiegherebbe l’origine del bisogno, che spesso avvertiamo in modo
irresistibile di conferire una stessa uniformità ad ogni serie di atti e movimenti. Infatti, anche
nelle tribù più primitive, l’antropologo notava la tendenza ad unità regolari di tempo anche se non
nel senso di un ticchettio di un metronomo. Comunque dal muto movimento del corpo, al corpo come
fondamento della musica il passo fu breve:
‘I muscoli non accompagnano più silenziosamente i movimenti, ma ora sono usati per produrre un
rumore, e successivamente, per accrescere mediante il rumore l’uniformità e l’efficacia della
melodia [76]’ . È proprio da questa prassi che l’umanità è passata a un movimento corporeo sonoro e
udibile, che fosse il percuotere le natiche il torace o i fianchi, battere il piede in terra o
battere le mani attività, quest’ultime due, ancora ben presenti nella nostra società. Ed inoltre a
un livello superiore ‘la percussione degli arti o del corpo si presta a prolungamenti e a strumenti
sostitutivi naturali o artificiali che intensificano il risultato. Le innumerevoli nacchere, e
raganelle, di batacchi e tavolette, di bastoni per battere il tempo e di sonagli ricavati dalle
zucche, costituiscono appunto dei prolungamenti delle mani, dei piedi, o del tronco [77]’ .

Riprendendo il discorso iniziato al capitolo 1.1 possiamo concludere affermando che nelle comunità
primitive:
1. Il ritmo scaturisce dall’esperienza di un’alternanza compiuta dalla Vita intesa come
Vita/non-vita.
2. La mente in continuità con il corpo si adatterà naturalmente al ritmo e lo disporrà a fondamento
della musica in quanto rappresentazione altamente spontanea della Vita.
3. La comunità (tema del prossimo capitolo), intesa come sistema emergente di relazione tra menti,
varierà e selezionerà la forma e la durata del ritmo nonché gli strumenti che meglio lo amplificano.

2.6 Parola suono, movimento
Sulla base delle riflessioni di D. Stern e Mereleau-Ponty, sopra riportate, è emerso che il bambino
percepisce il mondo come unità percettuale e questa è la sua percezione naturale come essere umano.

Il corpo quindi è un sistema sinestesico
…è l’immagine coagulata dell’esistenza. Si può dire di vedere un suono o di ascoltare un colore
perché ogni sensazione fa vibrare tutto l’essere sensoriale. In questo contesto il movimento non
inteso come movimento oggettivo nello spazio, ma come progetto di movimento, come propensione del
corpo verso il mondo e le cose, costituisce il fondamento dell’unità sensoriale… … il corpo è
unità antepredicativa in cui s’intrecciano esperienza visiva, uditiva, motoria e linguistica [78] .
La multisensorialità si fonda sulla trasversalità di alcune categorie percettive, come appunto il
ritmo. L’elemento ritmico è presente nel suono della parola, nel movimento corporeo, nelle forme
visive e architettoniche. È un’esperienza originaria e multisensoriale, la parola e il movimento
sono coordinati secondo un certo ritmo e non è un caso che tra le più antiche forme espressive ci
sia la danza in cui il ritmo e il movimento del corpo si fondono in modo indissolubile. Naturalmente
il ritmo della musica e della danza sono qualcosa di più che il riflesso di quel ritmo naturale che,
sfruttando la ritmicità muscolare, ha alimentato le tecniche del mondo umanizzato (il ritmo del
lavoro manuale). Il ritmo della parola (come del resto delle arti) apre lo spazio al simbolico,
cioè, riguarda il mondo delle idee sulle cose e non l’ottimizzazione dei tempi (un’evidente bonifica
del sociale moderno).
Nella parola, infatti non c’è solo la componente del significato ma anche quella del senso,
puramente sonora, a cui il bambino, nella sua intenzionalità originaria, è molto attento [79].

da www.neuroingegneria.com

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