SentireAscoltare – Capitolo 1 – Il suono e la Vita 2

pubblicato in: AltroBlog 0

SentireAscoltare – Capitolo 1 – Il suono e la Vita 2

di Edoardo Bridda

1.6 L’educazione famigliare
A questo punto l’analisi si sposta necessariamente sulla famiglia. È in questo luogo relazionale che
noi tutti impariamo ad ascoltare, sin da bambini l’universo musicale, distinguendolo dal rumore.
L’interazione fra il sottosistema sociale della famiglia e il nascente sistema psichico del bambino,
rappresenta il luogo sociologico in cui per la prima volta si concretizza l’accoppiamento
strutturale fra sistemi sociali e sistemi di coscienza [34] , dunque il luogo in cui per la prima
volta c’è il tentativo del sistema sociale di “bonificare” il suo ambiente umano: in questo caso, la
famiglia (madre) inizia gradualmente ad accoppiarsi strutturalmente con l’ambiente, rappresentato
dal bambino e dai suoi bisogni specifici. È significativo il fatto che, fino a quando questi bisogni
sono legati alla distinzione vita/non vita (organici) l’accoppiamento strutturale non può sortire
alcun effetto di bonifica, ma nel momento in cui i bisogni del bambino non riguardano più
semplicemente il corpo, e quindi la vita, bensì il sistema psichico, l’accoppiamento col sociale che
detiene il potere può dar luogo all’opera di bonifica e di trasformazione dei bisogni specifici in
bisogni socialmente congrui. Laddove questo significa bisogni adatti alla riproduzione
dell’autopoiesi del sociale (famiglia-società) [35] .

Non appena la relazione sociale madre-bambino raggiunge un grado di sviluppo sufficiente rispetto ai
vincoli strettamente organici, non appena si allenta la necessità intrinseca della distinzione
vita/non vita, è allora che il sociale può cominciare a dispiegare la propria logica di
autoproduzione. Sono le varie culture che decidono cosa è bene e cosa è male, da ora in poi,
nell’allevamento dei bambini. Anche Erickson dà risalto a questo aspetto. Il processo sociale di
fatto taglia le radici naturali a cui il bambino è legato, allontanandolo da esse in direzione di
una loro sostituzione con ciò che meglio si adatta alle esigenze della società. Tuttavia, questo
“taglio”, per quanto arbitrario possa apparire, è stato per molto tempo il frutto di un’intrinseca
“sapienza” o di una programmazione inconsapevole, sulla base della quale le culture hanno portato a
buon fine i loro compiti educativi [36] .

La famiglia, come sistema microsociale preposto dalla società all’educazione dei “nuovi arrivati”,
segue le logiche di confronto variazione e selezione della società stessa, si auto-evolve in base a
proprie regole autoimplicative. Quello che comunemente identifichiamo come musica in
contrapposizione al rumore è un costrutto storicamente determinato proprio per questo, ciò che
magari è musicalità per il bambino (ad esempio la voce stridula della madre, il battere
ripetutamente un giocattolo sul pavimento) non necessariamente lo è per i genitori. Il bambino, che
possiede un suo Sentire musicale, può trovarsi defraudato da un sistema sociale che ha la necessità
di bonificalo in quanto ambiente, e che quindi gli impedirà di mettersi in continuità con il suo
approccio naturale al mondo dei suoni. È per mezzo un processo sociale, che ci ha educati a
organizzare i suoni chiamandoli musica, contrapponendoli/distinguendoli da tutto ciò che musica non
è (il rumore, il caos) che noi, oggi, ascoltiamo; non bisogna dimenticare però che, per ogni
bambino, venire educato ad una grammatica musicale è un sopruso, un trauma.

Un antropologo che fece ascoltare al gruppo primitivo da lui studiato un brano di Beethoven; quei
poveri diavoli, dopo un attimo di silenzio attonito, fuggirono tutti nella foresta [37] .
Il punto è: non esiste né una musica universale, che contiene dentro di sé significati condivisibili
a tutti, né una musica che è meglio di un’altra o una musica che dura in eterno. È esistita, certo,
una “caverna sonora” universale dominata di suoni, ed è esistita assieme ad una voce nutriente, ma
questa esperienza veramente condivisibile all’intero genere umano non è la musica come la ha
concepita – da sempre – la società. Recita Paul in un libro di Kundera:
“Non nego alle sinfonie la loro perfezione. Nego soltanto l’importanza di quella perfezione. Queste
arcisublimi sinfonie non sono che le cattedrali dell’inutile. Sono inaccessibili all’uomo. Sono
inumane. Abbiamo ingigantito il loro significato. Ci hanno fatto sentire inferiori di fronte ad
esse. L’Europa ha ridotto l’Europa a cinquanta opere geniali che non ha mai capito: milioni di
europei che non significano nulla, contro cinquanta nomi che rappresentano tutto! La diseguaglianza
di classe è il male minore, rispetto a questa ingiuriosa diseguaglianza metafisica, che trasforma
gli uni in granelli di sabbia e proietta sugli altri il senso dell’essere!” [38]

Dunque, la musica è l’organizzazione del suono – in forma e contenuti – secondo determinate norme
sociali storicamente determinate; non è l’organizzazione del suono migliore, ma una fra le tante
possibili e, a Noi, interessa che questo suono sia accessibile alla Vita, non soltanto un piacere di
differenziazione della mente nei confronti di altre menti!
Il processo sociale dell’ascoltare non è assoluto. L’uomo impara ad ascoltare la musica per mezzo di
un orecchio culturale, e grazie a questo, è in grado di “toglierla dall’astratto” estrapolarla dalla
contingenza e quindi darle un senso relazionale o dialettico. Il sentire musicale non è spiegabile a
parole, è totalmente incompatibile con le regole di riproduzione della società, il che vuole anche
dire che esso non alimenterà mai la cultura né il plusvalore. Spetta alla famiglia, dunque, educare
il bambino in modo tale da metterlo in continuità con il suo Sentire musicale. L’esperienza di
separazione dalla madre a partire dalla nascita sarà tanto più visibile, e quindi dolorosa e
traumatica, quanto meno l’ambiente è capace di porsi in continuità con i suoi bisogni.
Winnicott sottolinea come un rapporto madre-bambino ‘devoto’, rispettoso del bambino e della sua
specificità, non riguardi tanto i contenuti della comunicazione, non dipenda dalle parole
(linguaggio) che la madre dice al bambino, ma da come lei gliele dice, dal tono dolce e rassicurante
che usa, dal rinforzo di ciò attraverso altre modalità di contatto, come quelle tattili
dell’accarezzare, cullare, ecc.. [39]

Perciò, solo se l’ambiente sociale, di cui la madre fa necessariamente parte, riesce a tenere conto
di questi fattori qualitativamente umani, il sé psichico del bambino si potrà formare
progressivamente a partire da una radice di continuità con il corpo. In caso contrario, avremo
alienazione fin dall’inizio, in quanto, il sé psichico del neonato sarà costretto ad uscire dal bios
in modo traumatico, valere a dire, sarà costretto a cercare altrove la Sapienza che lo legava al
corpo e necessariamente verrà presto educato ad ascoltare i suoni piuttosto che farli vibrare dentro
di sé. Di fatti, l’importanza – la qualità – del suono della parola, del timbro della voce della
madre è, assieme ai gesti che l’accompagnano, il mezzo principale per evitare tutto ciò,
permettendo, nello stesso tempo, al sentire di diventare la base ideativa per l’ascoltare. Perciò,
possiamo anche affermare che il paesaggio sonoro e musicale del bambino assumerà significati diversi
a seconda dalla sensibilità della madre. La mancata sensibilità da parte di quest’ultima farà vivere
al neonato tutta la traumaticità di suoni ambientali, che non hanno, di per sé, nessun carattere
ritmico [40] e, tutto ciò, aggravato da una società sempre più rumorosamente caotica.
Contrariamente, se la madre è, come direbbe Winnicott, devota, cioè si è posta da subito in
continuità con il proprio figlio, allora avremo, diciamo, una membrana filtro fra il neonato e il
suono disorganico ambientale e, in più, un primo e probabile “senso nella melodia” da parte di
quest’ultimo.

Il concetto di melodia è lungi dall’essere espresso senza ambiguità; si potrebbe definire la melodia
come l’andamento percepibile di una voce (o, più tardi, di uno strumento) dall’inizio di un brano
alla fine, compresi i passaggi intermedi. Ma al di la della sommatoria, vuota, o priva di vita, di
tutti gli intervalli, è evidente che tale movimento è un’insieme organico e vivo, dotato di un
afflato e di scorrevolezza, di tensione e di abbandono. Non deve essere necessariamente melodioso o
soave, come richiedono i fanatici dell’opera.
Sachs parla della musica primitiva e non di ninnananne comunque il significato è lo stesso una
melodia non è mai qualcosa di anarchico e arbitrario, ma segue sempre regole precise e quasi
inderogabili. Nel nostro caso la regola è la naturalezza e la sensibilità della madre espressa in
una melodia giocata su toni di voce dolci e rassicuranti.

1.7.La musica sentita e la musica ascoltata
Di solito, noi pensiamo all’uomo non tanto come ad un essere vivente, anche lui sottoposto alle
leggi della realtà biologica, quanto soprattutto come ad un essere sociale, particolarmente sociale.
Si dice anche: ogni singolo uomo è un sistema che è contemporaneamente sistema organico e sistema
psichico. Ma poi si aggiunge che l’essere organico e l’essere psichico dell’uomo sono veri solo se,
in concreto, esistono entrambi nel sistema del sociale. L’uomo è un corpo (un organismo vivente) ed
un’anima concreti solo se corpo e anima sono il risultato di un storia, ossia di una socializzazione
[41]
Nel paragrafo precedente, abbiamo evidenziato come ogni bambino smentisce puntualmente questo punto
di vista, di luogo comune, ben sintetizzato da G. Piazzi. Egli esperisce: sia il ritmo cardiaco, che
associa ad uno stato di tranquillità, sia il tono vocale della madre che lo alimenta
relazionalmente. Il bambino, cioè, non ancora socializzato e senza una storia appresa dall’altro da
sé, dimostra di sapere, ovvero, di avere un ordine di conoscenze che fino, a poco tempo fa, pochi
pensavano potesse avere. Il bambino, in poche parole, è, per dirla con Piazzi, un sistema
biopsichico che possiede intrinsecamente una conoscenza qualitativa straordinaria, e questa qualità
non è appresa dall’esterno – dalla società, dalla madre o dal gruppo – in quanto è nel patrimonio
cromosomico della singola individualità.

Dunque ogni individualità vivente, nella sua natura biologica, sa già “trattare” il suono, o meglio,
per ogni Vita il suono è un mondo straordinariamente ricco di significati, mentre la sua varietà e
qualità sono vissuti come uno straordinario concerto. Non c’è minimamente bisogno di ascoltare la
musica, cioè, di un suono che abbia dietro di sé una storia, in quanto i suoni si sentono e non
occorre educazione in tale direzione.
Ascoltare, quindi, vuole dire quasi sempre semplificare il sentire, ridurlo a quello che noi
chiamiamo musica, o meglio, a quello che il sociale definisce come tale. Purtroppo, è proprio
quest’ultimo che ha “il coltello dalla parte del manico”, e che si prepara ad entrare nella mente di
ogni neonato, il suono è, e sarà: o musica o al massimo mero rumore. Per la società è solo una
questione di imparare ad ascoltare, creare una asimmetria tra ciò che è meritevole di ascolto da ciò
che non lo è.

In particolar modo, sottolinea Manattini, per quel che riguarda il presente,
la nostra società valorizza, perché ne ha bisogno, la precoce autonomizzazione dell’individuo come
autonomizzazione dalle proprie radici naturali di specificità.. ..l’autonomizzazione dalla propria
specificità biologica viene richiesta in nome della svalorizzazione della dipendenza fisica: il
bambino, si dice, deve tagliare in fretta il legame con le proprie radici naturali, perché solo così
potrà acquisire una forma umana autonoma (personalità); in realtà, in questo modo, il bambino è
messo nelle condizioni di dover poi dipendere continuamente dall’esterno.
Tagliare le radici naturali vuole dire, nel nostro caso, detronizzare il sentire in nome
dell’ascoltare, alienare la vita dal senso profondo, che essa trovava dentro di sé, al fine di farla
entrare nei processi socio-culturali. Oggi vuole dire: acquistare, per poter ascoltare, prodotti o
servizi (i concerti) musicali in base ad una educazione musicale, culturale o sottoculturale,
trovare il senso della musica in base alle definizioni che “qualcun altro” le ha dato, e quando
questo qualcuno non ha neanche più la consistenza di un passato oramai lontano. Continuando con
Manattini possiamo aggiungere che
…la dipendenza fisica, se correttamente utilizzata dall’ambiente sociale, è funzionale al
consolidamento dell’autonomia del Sé e poi svanisce con lo sviluppo del bambino, la dipendenza dal
sociale avrà continuamente bisogno di essere alimentata (dalla comunicazione, dal senso), cioè
instaurerà quella che potremmo definire un’autonomia a patto che: il bambino la riempia
continuamente di contenuti sociali, ignorando il suo Sé profondo. In tal modo, l’autonomia del
bambino non sarà un’autonomia effettiva, non riguarderà quindi l’autopoiesi del Sé biopsichico ma,
al contrario, servirà a rafforzare l’autonomia del sociale, la sua autopoiesi [42] .

Oggi, (pensare di) essere liberi – autonomi – di poter ascoltare mille generi diversi, è legato al
bisogno costante di ottenere continue conferme della loro validità, oppure di conoscerne sempre di
nuovi, purché pubblicizzati su un giornale o alla radio o dal gruppo di amici, ecc.. – non riuscendo
mai a coglierne il senso più congeniale al nostro sentire. In chi c’è stata una autonomizzazione in
senso congeniale al sociale, il sentire è stato “inevitabilmente scollegato”. In chi è parte del
processo di autopoiesi del sociale, canzoni una volta imprescindibilmente belle, sembrano dopo pochi
mesi vecchie, inutili, robaccia, oppure, interi generi, prima incontestabili – e dove magari si è
speso parecchi risparmi -, sembrano, ora, che non vanno più di moda, sbagli incredibili. Vengono
spontanee domande tipo: come facevo ad ascoltare questo? Anche chi si fregia di non essere inserito
nelle logiche sociali ha, di fatto, assorbito l’imprinting armonico occidentale, con i propri
arrangiamenti “in maggiore”.

Attivare l’autopoiesi del Sé biopsichico vuole dire “connettere” il Sentire, il Sapere del Corpo,
del Sé profondo, e per fare questo occorre imprescindibilmente togliersi dalle pastoie del sociale
che, dal canto suo, socializza secondo logiche trascendenti. Connettere il Sentire significa
relativizzare l’implicito assunto secondo il quale la tonalità normale è uguale a quella
occidentale. Il Sentire non è la progressione delle sette note insegnateci dai “nostri” luminari di
musica nel medioevo, il sentire non conosce il pentagramma.
Il processo culturale vuole che la musica sia asservita alla relazionalità sociale, quello
capitalistico vuole che essa sia vendibile, entrambi sono processi esterni alla Vita. Più in
generale il sociale fa circolare sintesi coerenti di suoni riducendo la complessità del mondo sonoro
ai propri fini che sono, ad esempio l’unità di gruppo e il profitto. Il distillato di queste
dinamiche storico-economico-culturali ha portato alla forma di organizzazione del suono a noi più
congeniale: la canzone.
Ciò che non deve mai essere relativo è unicamente il processo in presa diretta che lega la Vita di
ognuno di noi al suono, nonché le emozioni che da ciò scaturiscono.

1.3.2 La persona tra l’ascoltare e il sentire
A questo punto è necessario analizzare meglio il soggetto che emerge dal contatto (traumatico) tra
la vita e il sistema sociale moderno. Si è detto che il processo di socializzazione crea le premesse
per l’ascolto, crea cioè una mappatura neurale tale da permettere l’organizzazione, nella nostra
mente, di un senso condivisibile dell’esperienza sonora organizzata, ovvero, la musica. Possiamo
anche aggiungere che, a differenza delle civiltà del passato, il nostro soggetto ascoltante è
caratterizzato dalla dipendenza costante dal sociale e che questa dipendenza è in funzione del
Capitale – le industrie discografiche dello spettacolo e anche della cultura! – che così si
autosostiene (surplus). P. Stauder chiama persona questo particolare “prodotto” della storia.
La persona nasce dall’incontro dell’individuo con la società e rappresenta il prolungamento del
sociale all’interno della realtà biologica dell’uomo. Essa diventa così un’appendice del tutto
estranea alla natura dell’essere vivente; una sorta di un ‘non sé’che impone la sua logica normativa
e determina modi di comportamento adeguati a tale logica [43] .

La persona corrisponde, nelle società occidentali odierne, a quella parte dell’essere umano frutto
dell’acquisizione di contenuti esterni che tendono a sovrapporsi al sé originario
autovalorizzandosi. Come osserva Stauder, essa ha, rispetto alla vita, le caratteristiche
dell’alterità. Essere persone significa avere una consapevolezza, non formata sulla base di una
condizione imprescindibile di essere biologico, sulla certezza di essere vita in contrapposizione
alla non-vita, ma sulla appartenenza ad un ambito esterno ad essa. La persona è il prodotto di una
coscienza che si forma al di fuori dei confini biologici, quindi la persona – che sta nella mente –
è altrove rispetto al bios che è il corpo, cioè, alla materia che vive. Nel nostro caso la persona
ascolta la musica e per fare questo è stata educata a disconnettere il sentire sistematicamente,
ovvero, ad apprendere tutto ciò che è meritevole di attenzione, in senso acustico, dall’esterno. La
persona ripone la propria fiducia nel sociale: la fontana di Duchamp è arte! Crediamo a tutto…
Possiamo osservare questo concetto – con Stauder – in termini più generali.

L’emergere della società moderna pone la questione dell’identità umana in base a questo duplice
significato di individualità, cioè in base ad una riflessione su due modalità diverse di intendere
l’esistenza dell’uomo: una, diretta ad una forma non relazionale e, quindi, non costruita sul
confronto; l’altra, diretta a incoraggiare comportamenti che si adattano a logiche esterne.
Predominerà quest’ultima, perché questa forma di individuazione, come impulso a separarsi e a
distinguersi, è congeniale all’affermarsi stesso di una economia monetaria [44] .
La società moderna rende autonome le persone precocemente per poterle poi vedere duttili, abili,
creative, contingenti, ed in cambio promette libertà, cioè, promette l’autodeterminazione
dell’individuo in ogni campo. Questa libertà se poi la inseriamo nelle logiche capitalistiche che
dominano il nostro sistema sociale (la A di Luhmann) aggiungeranno alla persona anche quel carattere
di accumulazione e quantitativizzazione delle sue esperienze in senso globale. Essere persone,
quindi, diventa distinzione dagli altri, in più o in meno come direbbe G. Piazzi, in base al surplus
di conoscenze, esperienze, know-how, che vanno dal lavoro al tempo libero, ovvero, tutto il tempo
che la persona trascorre da sveglio. Tradotto nella nostra analisi, questo, vuole dire che l’ascolto
della persona è, in primis, la distinzione tra la musica e il mero rumore (prima distinzione
semplificatrice) e in seguito l’apprendimento di una grammatica musicale ufficiale o sottoculturale
(magari avanguardistica) che basa la sua sapienza sull’accumulo di conoscenze ad essa apportate
(distinzioni secondarie di semplificazione).

Su quest’ultimo punto ribadisco che: mentre il sentire musicale della vita non ne vuole sapere delle
etichette – musica classica, pop, rock, post-rock, jazz, jungle, house, techno, ska, reggae, gabber,
samba ecc… -, nonché, delle loro distinzioni interne – classica versus rock, rock versus pop,
avanguardia versus jazz e così via -, la persona basa la sua attenzione quasi esclusivamente su
quest’ultime per valutare un fatto sonoro distinguendo anche tra le forme quali la canzone, la
sonata, la traccia o la suite ecc…
Ma a questo punto è lecito domandarsi sul perché di questa “ingiustizia” perpetuata ai danni della
Vita. Potremmo ricondurre le condizioni, in base alle quali, si è potuto verificare questo
dislivello – tra sentire ed ascoltare – proprio alla discontinuità tra la mente ed il corpo, che
sono emerse tra le righe degli autori sopracitati. Abbiamo sottolineato che la mente ha ricevuto un
imprinting (esterno) che l’ha separata dalla sue origini contestuali (corpo), in modo tale che
questa ha potuto percepire il corpo come estraneo con la conseguenza di poterne disporre. O per
dirla con Stauder ‘se l’uomo è libero di disporre della propria vita, lo è perché è l’unico vero
proprietario di se stesso e lo diventa proprio perché tra la mente e il corpo si apre uno spazio
vuoto. Ed è proprio a causa di questa distanza che l’uomo può entrare in un rapporto di proprietà
con se stesso… e se le cose stanno in questi termini… la persona appare come il prodotto di una
capitalizzazione di esperienze, di sensazioni e di ricordi. Essa si costituisce attraverso un
vissuto come interiorizzazione di fatti che danno valore alla vita individuale’ [45]

Nel nostro caso, lo spazio vuoto è tra il sentire e l’ascoltare. La persona (mente) impara dagli
altri – dal gruppo dalla sottocultura dalla famiglia ecc… – a fare le differenze tra i generi
musicali, in più o in meno, con la possibilità di poter poi cambiare gusti attraverso il passaggio
da un insieme di relazioni ad un altro – contingentemente – ma tutta questa libertà è possibile,
purché, funzionale all’autopoiesi del sociale.
La musica ascoltata, in senso puro è muta, serve al (capitale) sociale per alimentare le sue
dinamiche, cioè, è plusvalore di relazioni, confronti, variazioni, accumulazione di conoscenze e
virtuosità, funzione della vendita dei dischi. Il fatto sonoro, in sostanza è in funzione della
relazione sociale e del Capitale, non del sentire della vita che, come abbiamo detto, è un fatto di
corpo, o meglio, di sé bios.

A questo punto, però, se le cose stessero solo in questo modo, il rapporto tra la musica e l’uomo
sarebbe basato soltanto sulla dialettica: che vedrebbe da una parte un desiderio – la volontà di
acquistare un disco condizionata dal sociale – e, dall’altra una merce oggetto di questo desiderio –
il prodotto musicale materiale rappresentato dal vinile, o dal cd o dalla cassetta -. Nella nostra
società non vi sarebbe nessun senso profondo radicato nel sentire, ovvero, il nostro relazionarci
alla musica non avrebbe senso, se non quello di alimentare un lucroso business discografico pilotato
dall’alto (questa, tra l’altro, è la sintesi più succinta del pensiero di Adorno). Se le cose
stessero in questo modo anche colui che sta scrivendo sarebbe un gran presuntuoso!
In verità, più modestamente, affermiamo che: la musica riesce (anche se non sempre e non per tutti)
ad ostacolare l’autopoiesi del sociale, riesce, diciamo, ad aggirare, per così dire, il sistema
psichico, orientato verso socializzazione, per penetrare nel sentire organico, ed il motivo in base
al quale ci riesce deve essere legato all’attivazione di una autopoiesi del Sé biopsichico, ad una
autonomizzazione del sé, un accesso diretto all’esperienza primaria Vita/non-vita (feto).
Spaccazocchi che definisce la musica (nella mia accezione leggi suono) un’essenza fisica vibrante è
anch’egli in sintonia con quanto qui è emerso. Secondo il musicista, infatti, questa sua natura può
permettere all’uomo di vivere la musica sulla base di una ricca e profonda relazione empatica e
sintonica. Una relazione che sembra essere unica, proprio perché risulta essere in grado di
“toccare” la dimensione biologica e fisica degli esseri umani, ben prima di raggiungere quella
logica e psichica [46] .

Il suono “organizzato” riesce dunque ad attivare l’umano (il sé profondo) anche se, è possibile
percepire il seguente contrasto: la relazione uomo-musica può attivarsi all’interno dell’utile e
dell’inutile, può essere promotrice di bene e di male, può essere per l’uomo stesso stimolatrice di
comportamenti in sintonia con la vita e la non-vita, può programmarsi secondo criteri umani e
disumani. Questo punto è fondamentale per chiarire il fatto che: esistono da una parte: suoni,
ritmi, timbri, e melodie che la Vita percepisce come confortevoli, in quanto produttori di stati di
tranquillità, nel senso che si pongono in filo diretto con il Sentire e con l’autopoiesi del Sé
biopsichico; mentre dall’altra esistono suoni, ritmi, timbri e melodie che turbano questo stato
delle cose. Nel mezzo invece languiscono i suoni cosiddetti ambientali (la caverna sonora).

1.8 Il rapporto madre figlio nel rock
Si può dire che in gran parte della musica rock ci sia quasi un bisogno inconscio di ritornare nel
ventre materno a discapito di ogni melodismo vocale. D’altronde, è anche vero che, tanta parte della
musica psichedelica esalta proprio la melodia sul ritmo. Nei Pink Floyd più pastorali, ad esempio, è
il canto di Waters a dominare il brano, mentre sullo sfondo il ritmo si dilata a tal punto da
divenire un fluttuare di suoni che rimangono sullo sfondo.
J. Kerouac – poeta beat on the road degli anni sessanta – esalta proprio il primo aspetto di questa
dicotomia. Nei suoi racconti le donne rimangono sullo sfondo, mentre i protagonisti sono sempre
rigorosamente maschili. Kerouac, proprio come tante icone del rock, esalta proprio la figura del
ribelle maschile, per cui, la donna rappresenta soltanto un ritorno al sistema, con la sua ipocrisia
o, al più, un oggetto con il quale sfogare gli appetiti sessuali. Tuttavia, la volontà di negare
ogni relazione umana con l’altro sesso non è mai completamente risolta nello scrittore che,
arrivando al nocciolo della questione, afferma:
La sola cosa che bramiamo in tutti i nostri anni, che ci fa sospirare, lamentarci e ci fa sopportare
dolci nausee di ogni tipo è il ricordo di qualche perduta gioia che è stata probabilmente vissuta
nell’utero e può essere solo ripetuta (anche quando è odioso ammetterlo) nella morte [47] .
Nella letteratura di Kerouac possiamo vedere: sia un desiderio incestuoso, che possiamo ricondurre
ad ritorno simbolico nel ventre materno – nel suo pulsare di senso -, sia un desiderio matricida,
ovvero il bisogno di interrompere qualsiasi contatto con la madre – l’aritmia, il caos -. Sembra
quasi che lo scrittore, realizzando la profonda solitudine dovuta a tanti eccessi della vita on the
road, si trovi di fronte ad un bivio: combattere il dominio delle madri, oppure, contemplare
l’idillio della condizione uterina.

In tutta la storia del rock si è visto un continuo altalenare tra queste due scelte, e Jim Morrison
sembra, a mio avviso, colui che meglio ha rappresentato la condizione del ribelle e del dannato, del
matricida e dell’incestuoso. Degne di nota, in questa sede, sono the celebration of the lizard, una
performance dal vivo dove il cantante improvvisa un viaggio mistico, e the end, una canzone che, dal
vivo, si trasforma in un elogio della fine di ogni cosa. Per quanto riguarda il primo brano,
Reynolds e Press ritagliano i punti salienti:
inizia significativamente dopo la morte di sua madre, che sembra lo liberi esistenzialmente.
Successivamente, nel ciclo della canzone, egli si sveglia in una stanza di un motel con un
luccicante serpente sul suo letto… …simbolo del fallo perduto. La morte della madre sembra
immediatamente connettersi con l’accesso del ragazzo al mondo degli uomini. Verso la fine del ciclo
il protagonista Morrison è un maturo re lucertola in uno dei più potenti, pretenziosi, allucinanti
viaggi dell’immaginazione. Jim conduce il suo pubblico fino ad identificarlo come una tribù nomade
con lui a giocare il ruolo di principe [48] .

Nella performance di The End Morrison, ad un certo punto, esordisce con father I want to kill you,
mother… I want to…. fuck you, ovvero padre ti voglio uccidere, madre ti voglio violentare. Come
si è detto per Kerouac, anche per il cantante dei Doors vi è una dialettica che vede: da un lato il
matricidio e dall’altra l’incesto, ovvero, l’iconografia di due stereotipi classici della storia
rock: il ribelle e il mistico. Da una parte, una scuola della strada basata sulla sindrome del White
Negro, ovvero la condizione del bianco che vuole emulare lo sgargiante, bollente machismo nero;
mentre, dall’altra, la scuola dell’amore, quindi, l’idillio della gentilezza, della cortesia e il
ritorno alla comunità.
Prendendo l’esempio più radicale, ben rappresentato nella dialettica tra il punk – ribelle – e
l’hippy – soft-boy -, possiamo vedere la donna come “quel qualcosa” da dove si cerca di fuggire o
come “quel qualcosa” che si cerca di raggiungere, ovvero, tra il desiderio di rompere il cordone
ombelicale e quello di ritornare all’idillio uterino. D’altronde questa dialettica è intrinseca
anche all’interno delle singole sottoculture. Vediamone, anche qui, un esempio emblematico:
Timothy Leary profeta dell’LSD, crebbe idolatrando un padre assente, Capitano Tote Leary, che ha
abbandonato la famiglia. Suo padre era irrequieto, irascibile, un bevitore e pieno di debiti in
continuo conflitto con la realtà domestica. “Quando avevo tredici anni vivevamo insieme e lui non mi
ha mai ostruito con aspettative” ricorda Leary Jr, amorevolmente. Il babbo è rimasto per me il
modello del solitario, un disdegnato dello stile di vita convenzionale [49] .
Mentre sua madre Abigail tentò di educarlo, come un devoto cristiano della middle-class americana,
Timothy Leary si è ribellato e, come tanti suoi coetanei, ha identificato tutto il genere femminile
come conformista e domestico, contrapponendolo alla selvaggia indole maschile. La valenza negativa è
identificata con la donna/madre mentre quella positiva con il maschio/padre ribelle.

L’esempio di Leary è un chiaro riferimento al bisogno di volere rompere il cordone ombelicale o,
all’estremo, uccidere le madri. In questa ottica possiamo vedere negli esperimenti lisergici, i
cosiddetti Acid-Test come un modo per de-familiarizzare il mondo, per de-strutturare la famiglia o
per sentirsi a casa nel mondo. Se l’estetica hippie apparentemente è sinonimo di promiscuità di
ragazzi e ragazze che scoprono nuovi orizzonti tramite questa droga, in verità, essa contiene,
nell’inconscio del suo promotore, una matrice maschilista.
Come è evidente la dialettica ribelle/hippie o soft-boy è anche interna agli stessi movimenti cioè
intrinseca nel rock, così, è altrettanto vero che, in questa iconografia, la donna rimane sempre
oggetto e mai soggetto (ecco perché prima parlavo di “quel qualcosa da…”). Il videoclip di David
Bowie Boys keep swinging mette in scena proprio questa contraddizione
Bowie sottolinea nel suo registro rauco il cameratismo delle liriche indossando diversi tipi di
vestiti femminili. L’idea era quella di sottostare a tutte le categorie di machismo, i giovanotti
erano soltanto degli omosessuali latenti… Comunque l’arguzia sovversiva della canzone conteneva
una più profonda ironia: è un privilegio maschile lo swingare, di sperimentare il glamour femminile,
e adottare ‘l’opzione femminile della soggettività [50] .

Ritornando alla dialettica ribelle/soft-boy possiamo fare un altra comparazione tra due
mode/sottoculture che in Inghilterra si sono susseguite cronologicamente: quella tra i mods e gli
hippies. I mod hanno rappresentato l’apoteosi del rock urbano degli anni sessanta mentre gli hippies
il riflusso economico della generazione successiva. I Mod erano modernisti non solo perché
abbracciavano le nevrosi delle società capitalistiche del tardo ventesimo secolo – ossessione per il
superficiale, per il feticismo delle merci, rapido cambiamento delle mode e consumismo sfrenato – ma
le amplificavano. Lo stile di vita dei mod accentuava l’innaturale ritmo della vita industriale, con
le sue demarcazioni nette tra lavoro e tempo libero. L’hippie, che cronologicamente segue il mod, di
contro, celebra l’allontanamento dalla società, preferisce il pastoralismo, il misticismo e il
comunitarismo e desidera ricongiungersi attraverso i sensi a Madre Natura. Se il mod vuole rompere i
legami con la madre e le pareti domestiche attraverso uno stile di vita di maniere nella società,
l’hippie sembra l’eterno cocco di mamma che vuole restare ancorato all’esperienza degli anni
migliori dell’infanzia [51]. Se il mod attraverso le pillole sopprime la sessualità con il
narcisismo; l’hippie scopre il contatto mistico con il mondo attraverso l’LSD. Se il mod vive
l’urbano e lo auspica per tutto il territorio, l’hippie sceglie di abbandonare la città per la
campagna. Se il mod scegliesse ipoteticamente la sua arte nel futurismo italiano, l’hippie
preferirebbe la poesia populista di Walt Whitman. Se il mod è in definitiva maschio, l’hippie è
femmina anche se tutti e due paradossalmente sono ruoli giocati da ragazzi. La dialettica
ribelle/hippie non si è esaurita negli anni sessanta, dopo i mod sono arrivati i punk a celebrare
l’urbano mentre dopo gli hippie si è sviluppata una neo-psichedelia (Shoegazer, Dreampop). Ai nostri
giorni ritroviamo gli Oasis a prendere in mano le redini dei ribelli del r’n’r, mentre i cultori
dell’house music alla ricerca dell’esperienza uterina per mezzo del suono di un basso roboante (non
a caso Ibiza è stata la capitale degli hippies e poi del latin-house).

Un’utile tabella, riportata nel lavoro di Reynolds e Press, riassume le principali opposizioni
binarie tra maschile e femminile nella cultura occidentale che ben si adattano all’iconografia del
rock:

Maschio Femmina
Mente Corpo
Cultura Natura
Attività Passività
Intelletto Sentimento
Storia Eternità

Mentre un’altra riassume i contrasti tra lo stereotipo del maschio ribelle e l’hippie o “cocco di
mamma” soft boy:

Ribelle Soft boy
Eretto Fiacco
Visione del Tunnel Visionarietà appannamento
Anfetamine/Allucinogeni Marijuana, Ecstasy
Preciso Confuso
Manifesto Pensoso
La strada aperta Santuario
Urbano Pastorale
Proto fascista Apatia Zen
Combat Rock Spento

Come si può facilmente notare, la donna è oggetto di corpo e di natura, mentre l’uomo è soggetto
“mentale” e attivo. Non vi è relazione tra i due sessi basata sulla complementarità dei ruoli, ma
osservazione di un sesso (quello maschile) con le categorie dell’altro mediato dalla simbologia che
esso di volta in volta assume. Per Kerouac le donne o sono puttane o sono sante, per cui, sia
nell’uno come nell’altro caso, sono sempre un qualcosa di astratto – un costrutto della mente – una
categoria del pensiero per cui una donna, che è sempre un qualcuno di specificamente altro rispetto
all’uomo, non è mai in sé e per sé. All’interno della dialettica del ribelle/soft-boy vi è la
presunzione maschile di voler: o liberarsi di ogni riferimento femminile o di fare proprie alcune
delle caratteristiche della simbologia del femminile e, in particolar modo, in questo secondo caso,
non verranno mai presi a prestito tutti quegli aspetti problematici della condizione esistenziale
dell’altro sesso.

Per cui il rock del ribelle sarà incentrato sul ritmo pulsante e viscerale, che, inconsciamente,
rimanda all’imprinting dell’esperienza uterina, mentre il rock del soft-boy, sarà incentrato sulla
melodia che rimanda al ricordo delle dolci ninnananne cantate dalla madre o delle sue cure affettive
durante l’infanzia. Da una parte abbiamo, il probabile disadattamento del futuro ribelle, dovuto ad
una sua iniziale condizione di neonato che ha dovuto uscire da sé a causa di una madre ben poco
devota in senso Winnicottiano (che non lo ha posto in continuità con la vita), dall’altra c’è – nel
soft boy – la presunzione di una certa continuità iniziale nell’infanzia che si è scontrata, ad un
certo punto della crescita, con la società alienante e alienata, con la conseguente fuga, alla
ricerca di un ritorno attraverso l’uso delle droghe.

In entrambi i casi vi è una probabile discontinuità iniziale: il segno che una società sempre più
alienata, di cui la madre è rappresentante primario, impedisce alla Vita di trovare un ambiente che
la metta in condizione di formarsi in continuità con se stessa. Di fatto, anche l’hippie che vede
nella propria infanzia un luogo mitico dove ritornare con l’aiuto di sostanze stupefacenti ha subito
un’alienazione e sta mitizzando una realtà che non è mai esistia in questo modo, anzi.
ogni singola vita è in possesso di uno specifico patrimonio di sapere che lo identifica come
individualità biopsichica, come quello che G. Piazzi chiama Sé Bios. Da un lato, infatti, il bambino
ha in sé la capacità di segnalare con precisione i suoi bisogni, dall’altro la madre è in grado di
cogliere istintivamente questi segnali: entrambi, madre e bambino, sembrano avere in sé stessi un
sapere accumulato che li rende automaticamente capaci di corrispondersi reciprocamente [52] .
Affinché vi sia continuità tra il corpo e la mente – tra bios e logos – è opportuno. quindi, un
ambiente adeguato (la madre). Anche se ogni bambino ha dentro di sé un Sapere ancestrale, che lo
mette in grado di conservare la propria vita, è necessario un apporto esterno efficace, come dice
Winnicott, i geni non bastano.

L’hippie, che ricorre a sostanze esterne per rincorrere una felicità vissuta nell’infanzia, di
fatto, non ha realmente vissuto la continuità soprascritta o l’ha rimossa. Ha fatto di
quell’esperienza un cliché, come direbbe Erik Fromm, l’ha stereotipata apprendendola dall’esterno.
Quell’hippie è entrato nell’autopoiesi del sociale (controculturale).
Il bambino ha già dentro di sé l’affinità alla Vita. La distinzione primaria vita/non-vita di G.
Piazzi vuole dire proprio questo: ogni individuo ha dentro di sé tutto ciò che gli serve per vivere,
un qualcosa di innato. L’hippie ricorre alla sostanza esterna per cercare qualcosa che è dentro di
lui in un modo specifico. La sua alienazione può essere ricondotta a quella palese del ribelle.
Ritornando al rock, il minimo comune denominatore rimane la confusione della figura maschile che, di
volta in volta, indossa i panni o di misogino, matricida, solitario e ribelle senza causa, o di
effeminato, confuso, incestuoso, idilliaco e drogato.
D’altro canto questo non vuole significare che il rock sia patologico o inconcludente, anzi, proprio
la condizione di alienazione è stata paradossalmente una espressione della Vita. Se questo può
sembrare assurdo guardano a tanti anni passati di storia rock – con i suoi martiri e il flagello
della droga – possiamo replicare che il suo iter non è altro che una ricerca – con i suoi sbagli e i
suoi eccessi – di nuove forme ed espressioni del sé in una realtà che è sempre meno comunità e
sempre più società.

Oggi, aggiungerei, nel fluttuare dei generi e delle possibilità di ascolto, emerge con forza la
funzione della ricerca di un sentire musicale profondo. Le differenze tra arte e non-arte, tra bello
e brutto, sono venute meno e la mancanza di un centro forte che le attivi non fa altro che
alimentare questo processo. La comunità rock è tramontata perciò la ricerca del proprio sé musicale
trova un canale sempre più aperto. Anche l’incremento di gruppi misti, con le donne a scambiarsi gli
strumenti con gli uomini, può essere visto come un segno in questa direzione, tanti eccessi passati
sembrano, anche da questo punto di vista, venire meno. Lo stesso si può dire dell’avvicinamento del
rock all’elettronica in senso ambientale che si basa sulla ripetitività delle cadenze, sulla sua
variazione e sulla causalità. Attenzione però: l’espressione musicale giovanile di oggi è più libera
ma vi è anche molta paura e stupore per tutto ciò. Nel terzo capitolo vedremo il perché.

da www.neuroingegneria.com

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *