SentireAscoltare – Capitolo 1 – Il suono e la Vita 1

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SentireAscoltare – Capitolo 1 – Il suono e la Vita 1

di Edoardo Bridda

1.1 Il sé dell’orecchio
Troppo spesso i giovani, coinvolti nel mondo della musica rock, sottovalutano la straordinaria
capacità del nostro orecchio di saper apprezzare la bontà dei prodotti musicali che gli
sottoponiamo. Opinione comune è, infatti, che l’apparato uditivo sia un organo asservito alla mera
ricezione delle informazioni, un imbuto dove entrano i dati crudi che successivamente la mente
elabora
In verità il processo del sentire investe un’attività ben più complessa ed importante per l’uomo.
L’orecchio è in grado, non solo di tenerci in equilibrio (vestibolo) e di metterci in contatto col
mondo, ma anche di operare delle selezioni all’interno del mondo dei suoni (nervo Cocleare). Queste
selezioni sono di natura qualitativa oltre che quantitativa. In altre parole non si tratta solo di
una restrizione di campo ma anche la preferenza per certe modulazioni sonore piuttosto che altre e,
cosa fondamentale, questo tipo di selezioni sono operate fin dal principio della Vita. Si pensi che
al quinto mese di vita l’organo uditivo è già formato nel feto. La Vita possiede, già prima della
nascita, tutto l’occorrente per funzionare correttamente a più livelli. È come se ognuno di noi
avesse avuto fretta di mettersi in contatto qualitativo con il suono, ancor prima di mettere in moto
gli altri sensi e, in particolar modo, ancor prima della formazione di un sé psichico
auto-cosciente.
L’orecchio ha un’ontogenesi significativamente rapida che fa supporre una strategia evolutiva più
profonda di quella che lo vede un mezzo biologico per ottenere un fine psichico di elaborazione
mentale. Il corpo in sé, o meglio, il sé del corpo, ha una sua intrinseca sapienza in materia di
musica e questo risulta ancor più chiaro se consideriamo anche che il nostro organo uditivo è anche
il frutto di un millenario percorso evolutivo. Esso ha cioè una sua filogenesi, ovvero, un Sapere
che si è progressivamente raffinato e tramandato nel corso di un lungo processo adattivo.
La filogenesi, in sostanza, ha portato la nostra capacità di relazionarci al mondo in un modo sempre
più raffinato attraverso conquiste fondamentali ottenute nei secoli. Esse sono principalmente il
Vestibolo, presente fin dalla nostro stadio acquatico, e la Coclea.

Il vestibolo labirintico è noto soprattutto per la rilevazione dei movimenti del nostro corpo: è,
infatti, attraverso di esso che il nostro equilibrio si è progressivamente integrato predisponendoci
alla verticalità, che è il nostro tratto più caratteristico. Ma c’è di più, al labirinto vestibolare
compete soprattutto la rilevazione di tutto ciò che si riferisce alla mobilità: dai movimenti, ai
ritmi, alle cadenze; in altre parole, la ricezione dei suoni in massa e, in secondo caso, in masse
ritmiche. È per procedere all’analisi del contenuto di queste masse, così ricche di informazioni,
che gli è stata annessa la coclea (evoluzione filogenetica). La coclea è un raffinato canale
elicoidale che rappresenta perciò una straordinaria conquista evolutiva. Essa analizza fin nei più
minimi dettagli le vibrazioni che generano i fenomeni sonori; filtra in modo quasi istantaneo i
rumori interni provenienti dal nostro stesso corpo (masticazione, digestione, respirazione etc..) ed
esterni, provenienti cioè dall’ambiente circostante; ma la sua Sapienza è rappresentata da una
selezione particolare, operata in funzione di una relazionalità prenatale particolare. Il feto
seleziona vibrazioni esclusive, prodotte dalla corporeità/fisicità della madre: il ritmo cardiaco e
la sua voce; il ché rileva, dunque, una fondamentale affinità della Vita nei confronti della Vita.
La coclea fa parte di una straordinaria strategia: la riduzione in complessità del mondo sonoro in
funzione di uno sviluppo bio-psichico sano, basato sulla relazionalità pre-verbale. Il feto è in
definitiva incline alla assimilazione di suoni che possiamo definire umani: associa il battito
regolare del cuore materno ad uno stato di quiete, mentre trae l’apporto affettivo globale
attraverso la sua voce. Analizzeremo questi aspetti nei due paragrafi seguenti.

1.2 La musica per il feto: il ritmo
Prima che l’uomo, attraverso la sua capacità simbolica, riesca a farsi le sue prime idee sulle cose
rendendole duttili, mobili, creative – contingenti – vi è di fatto un ritmo essenziale che scandisce
la vita: il battito cardiaco. Il feto, dunque, esperisce il ritmo quando la Vita è ancora un
tutt’uno con le sue radici contestuali. Quando la vita è distinzione dalla non-vita [1], quando il
sé dell’individuo è bios cioè corpo, materia e non sé psichico. Nell’accezione di Giuliano Piazzi:
La vita, , è ogni singolarità vivente intesa nella sua esperienza d’unità materiale che è biologica.
La vita è la materia che si separa dal suo stesso stato di materia chimica, o che non è più materia
ordinata secondo pure regole del mondo fisico chimico… …e così c’è una forma, un nuovo ordine,
una condensazione significativa (antientropica) della materia.. [2] Un’espressione di questo nuovo ordine si configura nel feto, che già al quarto mese di vita fa la
sua prima esperienza del ritmo. Il battito cardiaco diviene, da questo un certo punto in poi, il
primo regolatore dell’esistenza umana; il ritmo si configura quindi come una disposizione della vita
stessa. Filosoficamente possiamo anche intenderlo come un toc ed un silenzio, un bisogno ed una
frustrazione, una presenza e una assenza. In sostanza, l’ordine della materia che vive si dispone in
modo da far ritornare un qualcosa che è temporaneamente scomparso. Il suono del cuore trova la sua
norma intrinseca nella ripetizione di un battito che diciamo si auto-evolve da sé, con un suo
ordine, diciamo, autoimplicativo.

Diverse evidenze andrebbero qui analizzate per certificare quanto è emerso in proposito del
condizionamento sonoro fetale e neonatale, una in particolare è fondamentale in questa sede: la
ricerca condotta dallo psichiatra nord-americano L. Salk. Salk aveva notato che in molte opere
d’arte raffiguranti un bambino tenuto in braccio da una donna, in quattro casi su cinque il bambino
era tenuto sul lato sinistro. D’altra parte egli aveva anche notato che molte madri che portavano i
bambini in una clinica specializzata per bambini prematuri mostravano una tendenza contraria. Deciso
a vederci chiaro, scelse un gruppo di 115 madri che avevano sperimentato una separazione prolungata
dai loro figli dopo la nascita. Per separazione prolungata intese convenzionalmente un periodo di 24
ore. Questo gruppo fu assunto come gruppo sperimentale. Come gruppo di controllo scelse a caso 286
madri fra quelle che si rivolgevano alla clinica pediatrica per normali controlli dei bambini. Il
procedimento era il seguente: lo sperimentatore prendeva il bambino e lo presentava direttamente
sulla linea mediana del corpo della madre, osservava quindi in quale parte del corpo la madre teneva
il bambino. Egli trovò che il 77% delle madri del gruppo di controllo, che non avevano sperimentato
un periodo di separazione dopo il parto, tenevano il bambino sul lato sinistro. Al contrario le
madri del gruppo sperimentale non mostravano preferenze significative per il lato: il 53 lo teneva
sul sinistro, il 47% sul destro. Domande approfondite, fatte ad ogni madre ad ogni esperimento,
condussero Salk a concludere che era proprio la separazione dopo il parto e non il parto prematuro
che influenzava la risposta della madre; inoltre il periodo critico per l’instaurarsi della
preferenza per il lato sinistro era compreso nelle prime 24 ore successive alla nascita del bambino.
Ritornando alle vecchie osservazioni sulle opere d’arte, Salk si rese conto che, quando una madre
tiene un bambino sul lato sinistro, lo mette vicino cuore. Il battito cardiaco è il primo importante
e regolare suono che il bambino sente prima della nascita. Salk arriva alla conclusione che durante
il periodo uterino, il bambino forse associa il battito cardiaco del cuore con lo stato di
tranquillità, o forse c’è un imprinting del ritmo del battito cardiaco cosicché più avanti nella
vita suoni simili hanno una connessione funzionale con la prima esperienza [3] .

Approfondendo le ricerche in questo campo, lo psichiatra pubblicò in Canada, nel 1960, anche uno
studio sulle influenze del battito cardiaco sullo stato mentale del lattante. Nel 1961, nel corso
del terzo congresso mondiale di psichiatria, lo specialista illustrò le conseguenze negative di
ritmi cardiaci turbati dallo stress della vita sociale; misurando la risonanza psicologica che ne
risultava, lo specialista mostrò le rischiose conseguenze di tali alterazioni, che modificavano
significativamente il ritmo cardiaco tranquillo e normale, al quale ogni feto dovrebbe essere
sottoposto [4] . Il ritmo cardiaco ha una propria funzione specifica quindi, avvolge il bambino, che
è in grado di sentirlo ma non di ascoltarlo, di intenderlo sensorialmente, ma non di comprenderlo
coscientemente,
Da qui si evince che questa sonorità, nella propria forma ritmica, approda prima della parola,
produce effetti terapeutici nel bambino ancor prima che la società lo educhi ad ascoltare e, quindi,
ad avere consapevolezza che essa è il battito di un muscolo involontario, di un mero ritmo cardiaco.
La cadenza cardiaca ha un senso profondo, proprio perché è vissuta sensorialmente e non
razionalmente.
Nel primitivo habitat il bambino vive costantemente immerso, come avvolto da suoni, da ritmi di
fondo: il battito cardiaco della madre, i movimenti respiratori con le loro vibrazioni. Queste due
sonorità sono state un background costante, come una trama di base, la cui assoluta costanza,
ripetitività, ritmicità possono essere considerate un elemento straordinario di benessere, un senso
di sicurezza e di contenimento. [5]

Sembra che la Vita, in secoli di evoluzione, abbia trovato un modo di filtrare i suoni,
selezionandone alcuni piuttosto che altri ed operando così delle distinzioni qualitative. Il feto
intende, dunque, il contrasto tra il ritmo cardiaco e l’interferenza. Stuart Miller, psichiatra,
avalla questa ipotesi, è sicuro della sensibilità del neonato a certe stimolazioni sonore esterne al
feto, anche se il bambino non sa distinguere ciò che è il proprio sé da quello di sua madre. Egli
intende ciò che differisce tra il vibrare “di senso”, che rimbomba nel ventre materno, cioè un suono
prodotto dalla Vita per la Vita, da suoni di sottofondo – rumore – che, diciamo, sono altro da sé,
elementi di non-vita. Il ritmo ha senso, poiché è, essenzialmente, un ritmo umano, produce effetti
terapeutici nella Vita, che ha distinto il suono che le interessava dal rumore bianco proveniente
dall’esterno.
Carlo Sini si spinge oltre queste osservazioni affermando che il bambino percepisce già nel ventre
materno il battito cardiaco del cuore della madre e ne fa, diciamo, esperienza. Ad un certo punto,
sostiene il filosofo, il bambino, prima confuso con la madre, attraverso i tracciati cerebrali
mostra di percepire il ritmo del cuore materno, il suo pulsare. Egli sente una differenza,
un’alternanza, in una parola un ritmo, e tutto ciò a partire dal “due”. Secondo Sini l’esperienza
del ritmo non può avvenire al primo battito, ma solo nel momento del suo riconoscimento, dunque non
prima del secondo:
…l’esperienza si può mettere in moto solo con un secondo, non con un primo. È solo nel momento in
cui avverto il toc che comincio a esperire che la traccia è tracciata; ma lo avverto, appunto, come
il secondo di un altro; lo avverto nel momento in cui dico: eccolo il toc! Senti come batte bene il
cuore della mamma [6] .

L’esperienza del mondo inizia, quindi, non quando si percepisce una cosa ma piuttosto quando si
esperisce la distinzione vita/non-vita . Il tempo stesso che noi scandiamo con l’orologio scaturisce
dall’iniziale imprinting del ritmo cardiaco . Il bambino già a partire, per così dire, dal secondo
battito sente il battere/levare del cuore, la presenza/assenza del battito; si prepara a strutturare
quell’esperienza percettivo-motoria che lo porterà a relazionarsi con l’ambiente cioè a formare il
proprio sé della mente (sé psichico).
A. Tomatis fondatore della audiopsicofonologia, nonché il più esperto conoscitore del rapporto
suono-vita, convalida la validità di queste teorie. Attraverso “l’orecchio elettronico”, uno
strumento di sua invenzione in grado di riprodurre i suoni così come il feto li percepisce, il
ricercatore ha potuto dare luogo alla “reviviscenza”, ovvero, il ritorno alla memoria del vissuto
intrauterino tramite l’ascolto del bagno sonoro primordiale.

Ho potuto verificare che facendo passare un soggetto (bambino o adulto) dalle condizioni dell’udito
acquatico, che è l’udito del feto immerso nel liquido amniotico, a quelle dell’udito aereo (il
nostro ambiente naturale) si realizzava una vera nascita attraverso il suono. Il soggetto poteva
rivivere la propria nascita e memorizzare le precedenti tappe del proprio sviluppo. Si registravano
reazioni psicologiche profonde.(…)
Anche a una indagine superficiale sulle abitudini comportamentali dell’uomo, ci si sorprende nel
constatare quanto le strutture arcaiche, più radicate nel profondo dell’anima, corrispondano ad
acquisizioni di questo vissuto nella <>. Numerosi simboli che traducono reminiscenze archetipiche
hanno origine in questa dimora primordiale, in questo involucro che ha racchiuso ogni uomo [7] .
Dunque vi è una memoria del ritmo inscritta nei tracciati psichici della Vita ma questo non è il
solo aspetto dell’audizione fetale, fondamentale risulterà, infatti, l’imprinting della voce
materna.

1.3 La relazione madre-bambino: la Voce
La percezione della voce materna è forse l’aspetto che più interessa la crescita psico-fisica del
nascituro. André Thomas ne ha dimostrato l’esistenza nel feto con un test tanto semplice quanto
efficace. L’esperimento in questione consisteva nel mettere un neonato su un tavolo entro 10 giorni
seguenti il parto [8] , mentre tutt’attorno si posizionavano un gruppo di adulti, fra cui i
genitori. Uno alla volta gli spettatori dovevano pronunciare il nome del bambino fino al momento in
cui era la madre a parlare, a quel punto il corpo del neonato si inclinava per cadere dalla parte
dove si trova lei [9] .
È altrettanto dimostrato quanto l’esperienza della voce della madre sia indispensabile alla
successiva struttura verbale del neonato, dunque, essa è anche la base sulla quale ogni singola
individualità potrà essere in grado relazionarsi con gli altri e con se stessa.
Esiste realmente l’effetto di risonanza di un’attitudine innata che vibra al suono della voce
materna che parla al feto, in questo particolare periodo vi è indubbiamente una comunione di una
tale intensità che supera il semplice contatto pelle a pelle. Se esistesse solo questo contatto il
piccolo farebbe presto a separarsi dalla madre avendo con lei unicamente una dipendenza nutrizionale
[10] .
Negli esseri umani, diversamente dagli animali, dove tutto indica la scissione di questo rapporto a
due, vi è una dimensione relazionale profonda. Questa relazionalità, tuttavia, è più difficile da
comprendere, in quanto non può istaurarsi in presenza dell’altro se non man mano che appare l’io
sono, l’io diverso da te, espresso in modo così caratteristico dal bambino desideroso di raggiungere
la propria autonomia [11] .

All’inizio, sebbene vi sia chiusura verso l’esterno, ovvero, la Vita percepisce soltanto la propria
distinzione primaria vita/non-vita; tuttavia è già presente, tra la madre e il proprio bambino, una
tensione bi-polare. Il che significa che il feto possiede già i mezzi per fare delle esperienze
significative per il proprio sviluppo psico-fisico; egli, dunque, è già in grado, a modo suo, di
reagire agli stimoli affettivi che gli sopraggiungono. La madre, dal canto suo,
…nutre il feto in ogni maniera possibile. Soprattutto lo nutre di suoni. Si rivela al feto
attraverso tutti i rumori organici, viscerali e specialmente la sua voce. Il bambino è immerso in
questo ambiente sonoro. Dalla voce materna, in particolare, ricava tutta la sostanza affettiva. È
anche in questa maniera che assorbe il supporto della lingua materna.. .. s’instaura la
comunicazione audiovocale primordiale. Quando il circuito si stabilisce perfettamente, l’embrione
attinge da questo dialogo permanente un senso di sicurezza che gli garantisce crescita armoniosa
[12] .
La devozione della madre nei confronti del nascituro è quindi fondamentale fin dall’inizio, e questo
perché la Vita ha saputo individuare un’affinità nei confronti della Vita, attraverso la
metabolizzazione/memorizzazione di una modulazione umana particolare. È intervenuta nel corso dei
millenni una strategia evolutiva che ha permesso la trasmissione preferenziale di questa cadenza,
anche se questo ha, inevitabilmente lasciato sullo sfondo altri insiemi di suoni. Più in
particolare:
…mentre tutti i rumori, che manifestano la vita neurovegetativa della madre si propagano
attraverso i tessuti, scontrandosi contro la parete uterina per agire poi attraverso il liquido
amniotico; la voce della madre, con tutta probabilità, raggiunge la cavità uterina e l’orecchio del
feto attraverso la trasmissione ossea, lungo la sua colonna vertebrale che agisce come filtro… … il
dialogo si instaura sulla curva stessa delle frequenze specifiche della trasmissione ossea… La voce
della madre sarà modulata come se, su un continuum di suoni, si sovrapponesse un discontinuo
provocato dallo svolgimento sillabico. Anche la catena parlata sarà percepita come l’alfabeto Morse
che si stampa su un nastro continuo [13] .

Quindi, proprio come il ritmo cardiaco presentava una presenza e una assenza, cioè la distinzione
Vita/non-vita, anche la modulazione vocale in questione, si evidenzia tra due polarità, proprio come
i trattini del codice Morse su di un foglio bianco. Inoltre, vi è anche un’ulteriore preferenza per
i “pacchetti” di suoni esperiti, l’udito fetale è, infatti, orientato verso i suoni acuti e non
quelli gravi e, in particolare modo, solo attorno ai 2000 hertz esso comincerebbe a funzionare.
Anche questo fa parte di uno opportuno disegno umano. Favorire la percezione dei suoni gravi è, di
fatto, funzionale alla distillazione acustica dei borborigmi dell’intestino materno, che sovrasta e
circonda l’utero, dei flussi e riflussi respiratori della madre e dei martellamenti incessanti e
lancinanti dei suoi battiti cardiaci, nonché degli stessi rumori provocati dal lattante nel liquido
amniotico [14] . Un riprova di quanto qui si afferma è data dai bambini che abbisognano di una
riattivazione dell’udito: i suoni gravi facilmente producono sonnolenza se non l’ipnosi, mentre
quelli acuti sono di stimolo a un risveglio dell’attenzione. Dunque, le cadenze cardiache, esaminate
nel paragrafo precedente, sono, assicura Tomatis, sensazioni sonore immagazzinate e filtrate dal
feto e quindi percepite solamente in termini di ritmi [15] grazie al vestibolo. Il feto non sente i
suoni come li percepiamo noi; se ‘l’ambientazione acustica richiama un po’ quella della savana
africana all’ora del crepuscolo.. e .. i suoni assomigliano a richiami lontani, echi, furtivi
fruscii, sciacquii sommessi [16]’ , il suo è un sentire è di tipo “acquatico”. Infatti, afferma lo
specialista, in principio, l’orecchio deve poter funzionare in un ambiente liquido. Acusticamente,
le parti esterna, media, e interna sono adatte, prima della nascita, a percepire le frequenze
trasmesse attraverso l’acqua.. .. dopo la nascita, solo l’orecchio interno rimane invariato. Invece
i primi due stadi, l’orecchio esterno e l’orecchio medio, devono adattarsi all’aria circostante.. ..
nel corso dei giorni che seguono il parto, il bambino rimane, dal punto di vista dell’esperienza
acustica, in uno stato di transizione [17] .

In questa fase il bambino cercherà di espellere il liquido amniotico dall’orecchio medio e, a causa
di questo, perderà la percezione degli acuti, entrando in uno stato di sordità. Il neonato avrà
bisogno di trasferire tutta la sua energia sull’aumento del potere di adattamento del suo orecchio.
Dopo qualche settimana, se questo apprendistato avrà successo, il neonato potrà sentire di nuovo e,
grazie al ritmo e all’inflessione, riuscirà a riconoscere la voce della madre. Ecco quindi spiegato,
da un punto di vita ontologico, l’esperimento di André Thomas. In sostanza, non esistono altre
situazioni, paragonabili a quella del legame madre-bambino che si attiva attraverso il suono ritmico
umano.

1.4 Dal Biologico al Sociale
In ogni passaggio, dall’embrione al feto, dal vestibolo alla coclea, la Vita ha selezionato, in modo
sempre più raffinato, un parte di quello che poteva percepire, e, così facendo, ha ridotto la
complessità per suo unico vantaggio; dunque, ha stabilito un ordine proprio, dando più importanza
qualitativa all’inflessione della voce materna e ai ritmi cardiaci, rispetto ad altri lasciati sullo
sfondo (la caverna sonora). Come abbiamo esposto, la Vita impone il proprio ordine sulla non-vita e,
per fare questo, strumentalizza il suono ad essa più congeniale in funzione della propria
evoluzione. La Vita seleziona, dunque, la propria musica, impone non il proprio gusto, ma il suo
naturale sentire verso suoni ritmici ed umani organizzati, appunto, in forma e contenuti di Vita.
Per il feto la sinfonia esperita è sentita 24 ore al giorno; in figura risaltano la Voce e il Ritmo,
mentre sullo sfondo si distende tutto il resto. La cadenza ritmica, nonché l’inflessione materna,
sono gli unici fattori che al feto interessano, tutto ciò che riguarda l’aspetto formale
dell’organizzazione sonora lo lasciano indifferente. Non è certo importante il modo con cui la madre
comunica qualcosa al neonato ma il come lo fa, con quanta devozione riesce a relazionarsi con lui. I
dettagli dell’esecuzione non sono importanti, l’importante è metterci quell’ingrediente affettivo
che è fondamentale alla Vita.

Ma allora perché ogni singola individualità presa a sé avrebbe una organizzazione sonora così
distinta rispetto a quella che la società propone ai suoi membri? Quel che risulta lampante nel
discorso fin qui svolto è che la musica della Vita e per la Vita, non è affatto quella che la
società ha creato per il suo ambiente (noi). Fin ora ci siamo concentrati nell’individuare il Sapere
della vita che opera delle selezioni in modo innato, rispetto al proprio universo sonoro
circostante, ora dobbiamo necessariamente evidenziare come ogni singola individualità non sia
un’isola separata dal suo contesto sociale; l’esigenza della relazione con il mondo è infatti
fondamentale per lo sviluppo psicofisico di ognuno di noi. I fatti dimostrano che nel momento in cui
il bambino cessa di dipendere biologicamente dalle cure materne cercherà in ogni modo di affermare
quell’“io sono”, che non è altro che la sua esigenza di individualità. Ma quell’affermare di
esistere è inevitabilmente un “io sono diverso da te”. È proprio questa transizione verso un insieme
delle relazioni altre, rispetto a quelle intraprese con la madre con la quale la Vita aveva
instaurato un legame unitario e virtuoso nel feto, che è doveroso concentrarci. G. Piazzi,
sociologo, afferma che il predisporsi di questa fase di passaggio si verifica in astratto ‘quando
due individualità biologiche, predisposte in quanto tali a confrontarsi solo con la non-vita, ed a
costruirsi come tali in questo confronto, vengono messe a confronto e in relazione fra loro’. Questo
passaggio è tutt’altro che lineare e meccanico per la singola individualità.

Questa esperienza rappresenta un evento inedito, del tutto nuovo perché l’individualità biologica
deve uscire da se stessa, cioè è costretta a formarsi e svilupparsi non più soltanto e tanto sulla
distinzione vita/non-vita, quanto piuttosto sulla distinzione da un’altra individualità, da un’altra
vita… … L’alterità, così, non è più quel fattore (non-vita) che contribuisce a mettere in
evidenza una norma (biologica) già presente all’interno dell’individuo, ma è il luogo in cui si
affermano le distinzioni nei confronti degli altri [18]
Il sociale rappresenta, dunque, la possibilità di uscire dalla singolarità, dalla sua specificità e
unicità, intesa, quest’ultima, come insieme di informazioni genetiche, che così sono e non possono
essere altrimenti, che non possono, in nessun modo, essere scambiate con altro. Il sociale, in
sostanza, permette il passaggio dalla specificità e unicità della Vita – il suo sentire di “senso” –
alla interscambiabilità e generalizzazione della Vita (di gruppo, di famiglia, di classe, di ceto
ecc.). Il costo che esso richiede ad ogni bambino è elevato ed il ricavo dipenderà unicamente dal
rispetto che il sociale avrà nei suoi confronti.
Il sé (l’individualità) biopsichico – quando viene osservato nella sua dignità originaria e
completa, indipendente – non è capace né di confronti né di giudizi di merito. Non conosce le regole
che impongono all’essere di essere in più o in meno. Non le sopporta. Ne soffre. Non sono queste le
sue regole. Non è questo lo scopo per cui si nasce e per cui ciascuno di noi nasce. Il sé
biopsichico nasce e sa come si fa a rendere più sicura la nascita solo perché sa come si fa ad
essere distinzione dalla morte e come si può replicare tale distinzione [19]

Il passaggio dal biologico al sociale è un trauma. Il sociale, infatti, è un processo che crea le
premesse per cui si rende possibile la scambiabilità e l’interscambiabilità di ciò che di per sé non
può essere scambiato (la Vita nella sua specificità di programma genetico). Il sociale è, in
definitiva, un’antimateria astratta e fluida che si concretizza nella forma di società.
La società, quindi, è colei che, di volta in volta, ha assoggettato gli individui ai suoi contenuti
alle sue regole alle sue modalità. Il sociale è un fatto emergente.. che ..può avere successo
evolutivo solo in un caso. Quando cioè ‘il bios e la psiche, che sono nel singolo individuo,
vengono, di volta in volta, resi contingenti. Alienati nella loro presupposta qualità di origine’.
Il sociale è un cimitero di orecchi dunque, aliena il sentire e lo rende contingente, cioè, lo
“generalizza” per rendere possibile la relazionalità tra gli individui. Per ottenere questo
risultato ha bisogno di svuotare quella qualità d’origine in ognuno di noi (Sapere) per riempirla
dei “suoi” significati. Il sociale ha la pretesa di insegnare “lui” alla Vita ciò che è meglio o ciò
che è peggio per lei; e la Vita, dal canto suo, è anche disposta a starci purché l’ambiente sociale
materno le si relazioni in modo devoto, altrimenti avremo quegli effetti alienanti che
successivamente analizzeremo.

La società non è malvagia, non vi è stata nessuna macchinazione contro l’uomo da parte di forze
ultraterrene, piuttosto, le strutture sociali operano le loro selezioni e i loro adattamenti
rispetto al loro ambiente (noi), proprio come la Vita, in un primo momento, aveva stabilito un
ordine proprio nei confronti della non-vita, distinguendosi anche in modo netto da essa.
Dalla chimica alla vita e dalla vita alle unioni monetarie complesse l’evoluzione ci guadagna, Ma
poi, c’è sempre qualche contenuto nei valori dell’ambiente che ci rimette. O qualche opportunità –
anch’essa evolutiva – che va perduta. Il bios emerge e mantiene il proprio ordine. Per fare questo,
però il bios deve imporre agli elementi da cui proviene le forme che lui vuole. Perciò li sfrutta.
Li toglie da sé. Li banalizza li semplifica. La stessa procedura succede a causa dei sistemi che si
dice siano più evoluti. Succede nei confronti della vita stessa e dei singoli individui [20] .
La condizione evolutiva significa che al sociale (la società ad un tempo x e in uno spazio y) è
necessario bonificare (con successo) il proprio ambiente e questo significa educarci ai suoi codici
normativi. È inevitabile che questo passaggio aliena la Vita dal bios a favore del logos e parte
della qualità del sentire (o tutta) si perda “dentro” per far acquistare al “fuori”. Per relazionare
le persone, il sociale deve organizzare, sintetizzare, non potrebbe mantenere tutta la complessità
(che c’è in ognuno di noi come sé bios) senza perderci lui in successo evolutivo!

La madre in questo cammino gioca un ruolo cruciale: è lei che in primo luogo cresce il bambino
soddisfacendo prima solo i suoi bisogni biologici e poi anche quelli relazionali. La commistione
nella forma di una continuità tra questi due canali è fondamentale per una crescita bio-psichica
sana in ognuno di noi, certo che quando la relazionalità non sarà più a due ma a molti tante cose
potranno ancora cambiare. Per disconnettere parti di sentire qualitativo c’è sempre tempo… anche
perché pian piano, nell’evoluzione della singola individualità, attraverso il sociale s’impara ad
ascoltare. Si automatizza cioè un processo “altro” al bios che andrà a sovrapporsi ad esso o nel
miglior dei casi a sinergizzarsi con esso.
L’ascoltare musica ci rende in grado di fare distinzioni tra assonanze e dissonanze rispetto ad una
scala di note prestabilite, di avere un senso dell’armonia distinguendola dalla disarmonia, di
contare il tempo in quarti, la nostra società ha coltivato molto bene ciò che è sublime da ciò che è
volgare. Questo significa che per noi occidentali c’è stata una razionalizzazione anche del discorso
musicale oltre che quello socio-organizzativo tout court. Nella nostra analisi, è evidente che
questo processo non può non togliere quella qualità originaria di sentire alla Vita: il bambino come
vedremo non riesce a distinguere due note vicine l’una all’altra ma molti di noi ancora battono il
tempo con il piede.

1.5 La Sinestesia
A questo punto bisogna aggiungere un altro tassello alle nostre considerazioni sull’esperienza
sonora del bambino: è importante rispondere, in questa sede, sulla ragione per la quale il suono
organizzato dal sociale ricopra oggi un ruolo così preminente nelle arti. Si potrebbe già affermare
che l’esperienza sonora fetale è già una delle spiegazioni, tuttavia ci potrebbe essere anche una
correlazione che mette in gioco l’esperienza sinestesica del bambino, ovvero la sua percezione
simultanea di più caratteristiche ambientali: sonore, visive, tattili e olfattive.
Come riportato da Stern, verso la fine degli anni settanta molti esperimenti portarono alla luce
profondi dubbi circa il modo in cui i bambini imparano, cioè collegano le esperienze. In sostanza il
problema cruciale riguardava l’unità della percezione: ‘come facciamo a sapere che una data cosa che
vediamo, udiamo e tocchiamo è fatto della stessa cosa? In che modo coordiniamo l’informazione che ci
proviene da diverse modalità percettive ma che scaturisce da una singola fonte esterna?’
Da numerosi esperimenti risultava che i bambini possedevano delle capacità innate di trasferimento
delle informazioni da un canale all’altro, ovvero, queste capacità dette transmodali, erano
intrinseche alla struttura del sistema percettivo e non apprese tramite il ripetersi
dell’esperienza.
Uno studio, in particolare, è interessante in questa sede. Lewcowic e Turkewiz (1980), servendosi
della frequenza cardiaca come misura di reazione in un paradigma di abituazione, hanno ‘chiesto’a
dei bambini di tre settimane quali livelli di intensità della luce (luminescenza della luce bianca)
corrispondessero meglio a certi livelli di intensità del suono (decibel di rumore bianco). Il
bambino veniva prima abituato a un livello del suono e, successivamente, venivano compiuti ripetuti
tentativi di disabituazione con vari livelli d’intensità della luce.

In sintesi, commenta Stern, è risultato che i bambini scoprivano che certi livelli assoluti
d’intensità del suono corrispondevano a specifici livelli assoluti d’intensità della luce. Inoltre,
gli accoppiamenti dei livelli di intensità fra una modalità e l’altra effettuati dai bambini di tre
settimane coincidevano con quelli dei soggetti adulti. Proprio come nell’esperimento trattato nel
primo paragrafo dove si è dimostrato che, attraverso i tracciati cerebrali, il feto esperiva il
battito cardiaco, a tre settimane di vita ogni bambino è in grado di effettuare un accoppiamento
transmodale audio-visivo, ed inoltre, come risulta da uno studio citato da Stern sulla traduzione
dell’informazione temporale da una modalità percettiva all’altra, possiamo confermare anche quanto
ha sostenuto Carlo Sini, cioè che il bambino è in grado di percepire le caratteristiche temporali
dell’ambiente, in altre parole, il ritmo. È sempre più chiaro che, sin dalle fasi più precoci, la
vita è estremamente ricettiva e sensibile alle caratteristiche dell’ambiente. D. Stern ribadisce:
Sembra dunque che i bambini possiedano una capacità generale innata, che possiamo chiamare
percezione amodale, di ricevere l’informazione in una modalità sensoriale e tradurla in qualche modo
in un’altra modalità sensoriale. Come lo facciano, non sappiamo. Probabilmente l’informazione non
viene recepita in una particolare modalità sensoriale, ma trascende la modalità o il canale e si
presenta in qualche sconosciuta forma sopramodale. Non si tratta dunque di un semplice problema di
traduzione da una modalità all’altra. È più probabile che si tratti di una codificazione in una
rappresentazione amodale tuttora misteriosa, che può essere poi riconosciuta in ciascuna modalità
sensoriale. I bambini sembrano sperimentare il mondo come un’unità percettuale, in cui sono in grado
di percepire in ogni modalità sensoriale le qualità amodali di ogni forma di comportamento umano
espressivo; sono capaci di rappresentare astrattamente queste qualità e poi di trasferirle in altre
modalità [21] .
Il neonato, in buona sostanza, è dotato di capacità largamente innate. Esiste, in altre parole,
all’interno del suo Essere un Sapere capace di guidare l’interazione con l’ambiente esterno che
interviene sin dalle primissime fasi dopo la nascita. Questo Sapere che è di tipo relazionale
significa che c’è innata nel neonato una sensibilità della Vita nei confronti della Vita. L’origine
di questo Sapere, secondo J. K. Stettbacher, è una ‘memoria costituita dalle esperienze accumulate
nell’organismo da numerosi sistemi biologici (anche preumani)’ [22] .

È un Sapere di tipo ontogenetico, frutto della memoria del singolo essere umano, ma non solo di
esso, secondo il Nostro, è anche di tipo filogenetico cioè il frutto della somma delle esperienze
accumulate nell’arco della storia della nostra specie. Il neonato fin dalle primissime fasi della
sua vita possiede delle capacità innate – un sé bios per dirla con G. Piazzi – ovvero un Sapere che
gli permette di operare un trasferimento transmodale, ossia di riconoscere una corrispondenza, per
esempio, tra il tatto e la vista, e successivamente un collegamento audio-visivo ovvero tra un suono
e la persona/strumento che lo ha emesso. E tutto ciò sembra potersi ricondurre ad un Sapere
(memoria) ancestrale derivante dalla storia della nostra specie.
Gli esperimenti analizzati da Stern, nel suo libro, dunque, hanno portato all’evidenza che ‘alcune
proprietà delle persone e delle cose, quali la forma, il livello di intensità, il movimento, il
numero e il ritmo, vengano sperimentate direttamente come qualità percettive amodali globali [23] .
Tuttavia, lo psichiatra si spinge oltre e, citando Heinz Werner, che ritiene che le qualità amodali
siano esperite direttamente dal bambino, afferma che queste qualità riguardino, più che la
percezione, gli affetti. Stern a questo punto parla di affetti vitali, cioè, concentra la sua
analisi sul sentire emozionale del bambino.

La danza e la musica sono esempi per eccellenza dell’espressività degli affetti vitali. La danza
rivela a chi ascolta e guarda una molteplicità di affetti vitali con variazioni, senza far ricorso
ad alcuna trama né a segnali affettivi delle categorie tradizionali. Il coreografo molto spesso
cerca di esprimere un modo di provare sentimenti, non un particolare contenuto [24] .
Il neonato, secondo Stern, può trovarsi nella situazione di uno spettatore che assiste a un balletto
o ad un concerto di musica: è probabile che egli percepisca direttamente gli atti (come un adulto) e
cominci a raggrupparli per categorie a seconda degli affetti vitali che essi esprimono. Il modo in
cui il genitore agisce esprime un affetto vitale, indipendentemente dal fatto che l’atto stesso sia
dettato (o parzialmente ispirato) da una affetto tradizionale. In altre parole, non è importante che
cosa viene detto al neonato, ma il tono con cui viene detto, non è essenziale il cullare il bambino
ma il modo in cui lo si fa.
Come la danza per l’adulto, il mondo sociale esperito dal bambino, prima di essere un mondo di atti
formali, è soprattutto un mondo di affetti vitali. Lo stesso accade per il mondo fisico della
percezione amodale, che non è un mondo di cose viste, ascoltate o toccate, ma è soprattutto un mondo
di qualità che si possono astrarre, quali la forma, il numero, il livello di intensità e così via
[25] .

M. Mereleau Ponty, appartenente alla scuola fenomenologica, parla di una esperienza sensoriale del
bambino, che precede ogni categorizzazione operata successivamente dal Sé psichico. Siamo anche qui
sulla stessa frequenza di D. Stern, ovvero, prima che il bambino impari a farsi delle idee sulle
cose – la capacità simbolica – egli le sente.
È il corpo a dare un senso non solo all’oggetto naturale, ma anche a oggetti culturali come le
parole. Se a un soggetto si presenta una parola in uno spazio di tempo troppo breve perché egli
possa decifrarla, la parola caldo, per esempio, induce una specie d’esperienza del calore che
circonda la parola stessa, come di un alone significativo. La parola duro suscita una specie di
rigidità della schiena e del collo, e solo secondariamente si proietta nel campo visivo e assume una
figura di segno o vocabolo [26] .

Il ragionamento di Ponty è significativo. Il bambino riesce, tramite una percezione transmodale, a
tradurre il suono di una parola in uno stato d’animo preciso, sentendo o esperendo affetti vitali,
egli non ne capisce il significato, ma il timbro [27] , e la sua memoria filogenetica gli permetterà
anche di essere maggiormente sensibile a quello che più lo convince. Inoltre, sostiene il
fenomenologo [28] , ogni esperienza sensoriale non può che essere spaziale, è per se stessa
costituiva di uno spazio. L’esperienza dei ciechi dalla nascita, in possesso di forme di spazialità
non visiva, è un esempio evidente. Il tatto non è spaziale nello stesso modo del vedere, ma ha una
sua spazialità, tant’è vero che il cieco operato trova il mondo diverso da quanto s’aspettava, così
come noi, quando conosciamo un uomo, lo troviamo sempre diverso da ciò che sapevamo di lui [29] . Il
cieco non conosce nuovi dettagli, ma conosce il mondo in modo diverso, perché toccare non è vedere .
Nonostante ciò, anche prima egli aveva conosciuto qualcosa, una qualche forma di spazialità. Così è
anche per il canale uditivo.
La musica non è nello spazio visivo, ma la corrode, lo investe, lo sposta, e quegli ascoltatori
troppo composti, che assumono l’aria di giudici e scambiano parole e sorrisi, senza accorgersi che
sotto loro il terreno si scuote, sono, poco dopo, come un equipaggio sballottato dalla tempesta [30] .
Il suono possiede una sua spazialità differente da quella visiva e tattile, come dimostra molta
musica sia contemporanea che tradizionale. Possiamo evitare di guardare un’immagine, toccare un
oggetto, ma è difficile, essendo udenti, non ascoltare un suono, rifuggirlo, se non allontanandosene
o privandoci dell’udito. Il suono fa vibrare l’aria circostante.
Ponty tiene a precisare che se l’esperienza sensoriale è in relazione ad un singolo canale, la
percezione naturale, che egli chiama sinestesica, si effettua con il nostro corpo tutto insieme e
sbocca in un mondo intersensoriale [31] . Secondo il Nostro, nella percezione naturale non è
possibile limitare l’esperienza ad un solo registro sensoriale, perché essa si riversa
spontaneamente verso tutti gli altri. Nelle sue stesse parole: la percezione sinestesica è la regola
e, se non ce ne accorgiamo, è perché il sapere scientifico rimuove l’esperienza, perché abbiamo
disimparato a vedere, udire, e in generale, a sentire, per dedurre dalla nostra organizzazione
corporea e dal mondo quale la concepisce il fisico ciò che dobbiamo vedere, udire, sentire [32] .
Maurizio Spaccazocchi aggiunge che: per la Vita, la musica non esiste come entità propria e autonoma
ma come vita sonora integrata e inscindibile dall’umano vivere. In certe culture primitive non
esiste la parola o un temine corrispondente a quello che noi, come espressione di una cultura
“evoluta”, indichiamo con musica [33] .
Dunque, il bambino, nella sua posizione sinestesica, non ascolta suoni astratti: li vive/sente in un
tutto che è il suo mondo! Ricorda, ad esempio, da quale strumento ha sentito un particolare timbro,
sa che quella voce specifica appartiene a sua madre. Egli, in definitiva, possiede questa conoscenza
perché ha registrato affettivamente tutto ciò, naturalmente.

da www.neuroingegneria.com

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