L’intenzione liberatoria

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L’intenzione liberatoria

“Il silenzio fra due onde”

di Corrado Pensa

Il Dvedhàvitakka Sutta (MN 19), che si può tradurre “Due tipi di pensiero” o “Due tipi di
intenzioni”, descrive la situazione di Siddhàrtha Gotama poco prima dell’illuminazione. Il Buddha
dice:

O monaci, prima della mia illuminazione, mentre ero ancora un aspirante all’illuminazione, mi
venne in mente questa cosa di dividere i miei pensieri in due categorie, da una parte i pensieri di
desiderio sensoriale, di malevolenza e di violenza, e dall’altra i loro opposti, cioè i pensieri di
rinuncia (nekkhamma) ai desideri sensoriali, i pensieri di non malevolenza e i pensieri di non
violenza.                                                                                          
                                                          
Nella seconda categoria di pensieri, non malevolenza e non violenza significano benevolenza e
compassione.

L’intenzione liberatoria

I commentati osservano che nel sutta la decisione di cui si parla sembra apparire all’improvviso,
mentre in realtà è stata frutto di anni di elaborazione, gli anni della pratica prima di arrivare a
quell’apice di maturità che sfocia nella liberazione.
“Ardente e risoluto dunque misi da una parte i pensieri di desiderio sensoriale, i pensieri di
malevolenza, i pensieri di malvagità e di violenza, e dall’altra parte misi i pensieri di rinuncia,
i pensieri di non malevolenza e i pensieri di non violenza. Fatta questa distinzione dimorai nella
pratica.
“Sollecito”, “ardente” e “risoluto” sono tre aggettivi chi vengono ripetuti in vari sutta
importanti e servono per sottolineare il convergere di virjya, cioè retto sforzo o coltivazione
dell’energia, e di coltivazione della saddhà, la fiducia. Abbiamo perciò un insieme di fiducia,
energia e retto sforzo, e questo insieme viene designato con due aggettivi interessanti: atapi,
ardente, proprio in forza del fervore della fiducia e del retto sforzo, appamàtta, che vuol diie
“dotato di appamadda”, ossia dotato di grande sollecitudine, diligenza, accuratezza.

È noto il valore che il Buddha conferiva alla qualità dell’appamadda, dell’accuratezza, della
“diligenza” nel senso originario della parola, che è “amore”, e dunque amore per la pratica. Il
termine appamadda – come abbiamo già detto in precedenza – esprime quindi la sollecitudine per la
pratica e il cammino interiore. Si tramanda che il Buddha, in punto di morte, raccomandasse ai
monaci di esercitarsi per la propria liberazione con appamadda, ossia con grande e fiduciosa
sollecitudine. Appamadda è paragonato all’orma dell’elefante, che è la più grande tra le orme degli
animali, nella quale le altre orme possono essere contenute: segno di eccellenza e di importanza
particolari.’

Quindi, ritornando al nostro sutta, il Buddha medita, avendo fatto questa distinzione tra le due
classi di pensieri-intenzioni. La parola vitakka significa sia pensiero sia intenzione. Egli si
mette in meditazione con animo risoluto, ardente e appamadda, dotato di appamdda, di amore, di
interesse sollecito per la pratica.

L’Ottuplice Sentiero prevede tre gruppi di fattori: panna, la saggezza, Sila, l’etica, e samadhi,
la meditazione, che sono in rapporto sinergico e si nutrono vicendevolmente.

La saggezza comprende due fattori: retta motivazione e retta comprensione. Se si guarda in che
cosa consiste la retta motivazione o retta intenzione, si vede che ekkhamma, è rinuncia, lasciare
andare ciò che è nocivo, di metta, benevolenza, e di karwià, compassione. Questa è la sostanza della
retta intenzione. Le altre parole, le intenzioni non salutari di attaccamento, avversione e violenza
sono sostituite da quelle salutari di rinuncia, benevolenza e compassione. Tuttavia, per approdare a
questo che è il succo della retta motivazione, occorre la retta comprensione: se infatti non si
comprendono la sofferenza e le sue cause, non si può concludere che sia una buona cosa avere la
retta motivazione così come è stata esposta. Ma se si comincia ad avere una certa comprensione della
sofferenza e delle sue cause, cioè attaccamento, avversione e ignoranza, ciò si tradurrà
naturalmente in coltivazione della retta intenzione.

La retta comprensione è il contrario dell’ignoranza, quindi ne rappresenta la cura; ed è il
fattore più importante, quello che sta all’inizio e al culmine dell’Ottuplice Sentiero. La retta
motivazione, animata dalla retta comprensione, si prende cura di attaccamento e avversione,
alimentando le forze contrarie di rinuncia, benevolenza e compassione.

Per essere approdato a questa visione, il futuro Buddha ovviamente aveva già maturato una retta
comprensione della sofferenza e delle sue cause, e non aveva dubbi su quali fossero le giuste
motivazioni.

Egli dice:
Quando un pensiero di attaccamento o di desiderio sensoriale sorgeva in me, cosi ragionavo: “Questo
pensiero di attaccamento, di desiderio sensoriale è sorto in me. Questo conduce alla mia afflizione,
all’afflizione di altri, all’afflizione di me e degli altri. Ostruisce la saggezza, causa
difficoltà, separa dal nibbàna”. Allorché consideravo: “Questo conduce alla mia propria afflizione”,
questo pensiero si pacificava. Quando consideravo: “Questo pensiero, questa intenzione conduce
all’afflizione di altri”, il pensiero si pacificava in me. Quando pensavo: “Conduce all’afflizione
mia e degli altri”, il pensiero si pacificava e tutte le volte che sorgeva un pensiero di desiderio
sensoriale, lo abbandonavo.
Questo passo rivela evidentemente un alto grado di maturità interiore e una forte capacità
meditativa: la capacità di cogliere con chiara consapevolezza un pensiero o un’intenzione. Siamo,
anzitutto, davanti a una mente nella quale la calma concentrata, o samadhi, è molto presente: se
così non fosse, tanti pensieri si affollerebbero, e distinguerli a uno a uno sarebbe un’impresa
senza speranza. Inoltre – e questo è decisivo – la chiara consapevolezza si accompagna ora al
discernimento, grazie al quale Gotama vede che tale pensiero è, in realtà, un pensiero di
attaccamento. Dunque? egli lo vede, lo riconosce per quello che è, ne comprende immediatamente tutta
la portata distruttiva, si pacifica, e lo lascia andare. È il quadro di una capacità meditativa
molto profonda e completa, dove calma e discernimento sono entrambi ben sviluppati. Non a caso, poco
dopo, Siddhàrtha Gotama raggiungerà l’illuminazione e diventerà il Buddha.

A proposito del desiderio sensoriale, che è stato appena menzionato, osserviamo che in MN 25 e 54
il Buddha formula una serie di similitudini: alcune le illustra egli stesso, altre sono spiegate dai
commentari.3

Il desiderio sensoriale è paragonato a un osso spolpato,-gettato a un cane che rimane
insoddisfatto: il desiderio promette quello che poi non dà, così come un osso spolpato lascia il
cane ancora in preda alla fame. Un’altra similitudine è quella secondo cui il desiderio è come un
pezzo di carne che, dato in pasto a uccelli rapaci, genererà conflitto, poiché tutti desidereranno
il medesimo oggetto.

Perciò il desiderio promette quello che non dà (l’osso spolpato) e diventa motivo di conflitto tra
tutte le persone che hanno lo stesso desiderio (il pezzo di carne).

C’è poi un’altra similitudine che vede il desiderio come una torcia di paglia portata controvento.
Se teniamo una torcia di paglia controvento ci bruciamo. Da una parte il desiderio-torcia fa luce, e
dunque fornisce una qualche gratificazione, dall’altra però ferisce, è un elemento distruttivo e
pericoloso. Questo elemento distruttivo ritorna in altre similitudini molto forti: il desiderio come
testa di serpente, il desiderio come spada e altre immagini simili. Ecco, infine, una similitudine
molto precisa sulla illusorietà del desiderio. Il testo dice:
 
Sogniamo un bel paesaggio, ma poi ci svegliamo e ci accorgiamo che era soltanto un sogno.

Si parla quindi di desiderio che non mantiene le promesse, di desiderio origine di conflitti, di
desiderio intrinsecamente pericoloso (la torcia controventò) e di desiderio come fatto illusorio
(sogno).

In un altro sutta (MN 70) c’è un’immagine più complessa e abbastanza famosa. È l’immagine del
lebbroso che va a cercare sollievo per la sua malattia davanti a una fossa di carboni ardenti. Pare
che nell’antica India fosse un’usanza molto diffusa. Il Buddha dice:

“Una volta che il lebbroso è guarito, quel calore gli è insopportabile, non gli è più di alcun
sollievo e non riesce a capire come mai altre persone vadano a cercare sollievo davanti a quella
fossa di carboni ardenti. Però quando aveva la lebbra, quel calore gli dava sollievo. Adesso che non
ha più la lebbra, quel calore è soltanto qualcosa di insopportabile.”
Se avremo dentro una pace vera, essa ci darà tutto ciò che il desiderio promette soltanto. Il
lebbroso che va in cerca di sollievo esprime una situazione di forte disagio, che spinge a guardare
al desiderio come a una promessa di risoluzione del disagio. Ma, una volta che la situazione di
sofferenza sarà superata (ovvero si è raggiunta la liberazione), non solo il desiderio non avrà più
quell’alone di promessa, ma, nella sua compulsività, verrà percepito esso stesso come disagio.
Nella pratica del Dharma, la contemplazione del desiderio è un’esplorazione da fare con grande
cautela, così come l’esplorazione dell’avversione. Occorre cioè disfarsi il più possibile di
valutazioni e definizioni preconcette, che possano impedire un incontro vero e profondo con la
realtà del desiderio. Se si parte da una definizione negativa del desiderio, come anche da una
definizione positiva, non arriveremo mai a esplorare da vicino la forza, il potere, la qualità, la
natura del desiderio; semplicemente, genereremo pensieri sul desiderio, ma non entreremo veramente
in contatto con la sua realtà.

Il Buddha descrive (MN 19) prima l’esperienza diretta del “pensiero” del desiderio, quindi
l’esperienza del “pensiero” di malevolenza e infine l’esperienza del “pensiero” di violenza. In
tutti e tre i casi propone il medesimo tipo di investigazione: vedere la nocività del “pensiero” e
quindi lasciarlo andare.

A questo punto il Buddha espone una legge:

“Monaci, qualunque cosa un monaco frequentemente pensa e sulla quale si sofferma, ciò diventerà
l’inclinazione della sua mente.”
Da questa legge fondamentale derivano enormi conseguenze. Osserviamo che i verbi usati sono
anuvitakkati e anuvicàrati. Chi ha fatto qualche lettura sulla pratica di samàdhi, di calma
concentrata, ha incontrato sicuramente questi due termini. Vitakka è l’atto di prendere contatto per
esempio con il respiro: e vicara è il mantenimento dell’attenzione, sul respiro o su un altro
oggetto di meditazione.
Qualsiasi cosa uno pensi frequentemente, quindi, diventerà un’inclinazione della sua mente. Si
affaccia la rabbia e si prende contatto con essa, vitakka, e poi vicùra, cioè ci si sofferma su di
essa, alimentandola e rafforzandola. Primo momento: si affaccia la gelosia, vitakka. Secondo
momento: si alimenta e si accresce la gelosia, vicùra. A qualunque cosa uno si rivolga
frequentemente con vitakka e vicùra, cioè con il pensiero-intenzione e poi con l’alimentazione del
pensiero-intenzione questa diventerà un’inclinazione della sua mente.

Anche senza avere esperienza di pratica meditativa, è difficile non cogliere la portata di tale
constatazione. La mente che è stata catturata dal pensiero-intenzione (vitakka) automaticamente si
identifica con esso e lo potenzia (vicùra). Come mai gli stessi due termini, vitakka e vifàra,
ricorrono nelle istruzioni di meditazione? In esse si dice “prima prendi contatto (vitakka) con il
respiro e quindi rimani (vicùra) con il respiro “. Tuttavia, non a caso questo processo è definito
“contro corrente”, infatti qui c’è attenzione deliberata ed è richiesto il retto sforzo in una
prospettiva dunque di guarigione, mentre l’altro processo va “con la corrente” (alla deriva) nella
cieca identificazione e approda a ulteriore sofferenza.

Questo automatico succedersi di afferrare e trattenere le negatività mentali crea perciò forti
inclinazioni negative;. per contrastarle il Buddha insegna a coltivare le inclinazioni opposte.
Infatti, il Buddha prosegue (MN ;9):

“Quando mi veniva un pensiero di nekkhamma, di rinuncia, allora io vedevo la salutarità del
pensiero di rinuncia. Quado mi veniva un pensiero di metta, di benevolenza, io vedevo la salutarità
del pensiero di metta. Quando mi veniva un pensiero di compassione, io vedevo la salutarità del
pensiero di compassione.”

Il Buddha aggiunge un altro elemento di grande interesse per la pratica:

“Quando la mente si stancava, allora ricorrevo al samàdhi.

Ossia quando la mente si stancava dell’investigazione, della consapevolezza mirata su questi
fattori (positivi e negativi), allora il Buddha passava a riposare nella calma concentrata.

“Vedevo il carattere nocivo di queste inclinazioni, vedevo che tutto quello che uno molto
frequentemente- pensa dà l’inclinazione alla sua mente.”

Poi aggiunge:
 
Un pastore, durante la stagione delle piogge, quando le messi sono mature, fa in modo che le
vacche non le calpestino perché egli rischierebbe di essere messo in prigione, rischierebbe di
essere frustato, multato, e quindi con il bastone fa in modo che le vacche non compiano quell’azione
distruttiva. In altri termini, io vidi il pericolo di stati non salutari della mente e vidi la
purificazione che veniva da stati salutari.

L’immagine del pastore che impedisce alle vacche di compiere azioni distruttive si richiama al
retto sforzo. Si tratta cioè di impedire la distruttività dei pensieri negativi, sostenendosi con la
meditazione.

Quindi fa un esempio di nekkhamma, il “pensiero” di rinuncia o lasciare andare:
Questo pensiero di rinuncia è sorto in me. Questo pensiero (o intenzione) non conduce alla mia
afflizione, non conduce all’afflizione di altri, non conduce all’afflizione mia e degli altri. Al
contrario, aiuta la saggezza, non causa difficoltà, conduce al nibbàna. Se penso (vitakka) e mi
soffermo (vicàra) sopra questo pensiero, anche per una notte, anche per un giorno … vedo che non
c’è nulla da temere da questo pensiero.
Ed ecco l’annotazione in chiave di pratica:
•
In virtù del riflettere, dell’investigare, posso stancare il mio corpo, e quando il corpo è
stanco, la mente diventa disturbata, e quando la mente è disturbata si allontana dalla
concentrazione. Pertanto resi ferma la mia mente internamente, la pacificai, e la concentrai,
affinché non potesse essere disturbata.

Nell’opera di uno dei grandi maestri contemporanei della tradizione della foresta in Thailandia,
Ajahn Maha Boowa,4 il cammino meditativo si presenta proprio come una saggia alternanza di fasi di
investigazione e fasi di concentrazione. Nelle fasi concentrative, la mente si riposa e riprende
lena. Quando la mente è ben riposata può investigare ciò che nuoce e ciò che giova, ma a un certo
punto ha bisogno di tornare a riposarsi, perché altrimenti si stanca e – dice Ajahn Maha Boowa –
comincia semplicemente a pensare senza che ci sia più alcun frutto. Allora ha bisogno di nuovo di
ritemprarsi nel raccoglimento. Una volta che è così ritemprata può nuovamente tornare a Investigare.

La stessa annotazione fatta per i pensieri di rinuncia viene ripetuta dal Buddha per i pensieri di
benevolenza:

Non causano afflizione né a me né agli altri e conducono al nibbàna.
E per i pensieri di compassione (MN 19):

“Non nuocciono né a me né agli altri e conducono al nibbàna.”
Conclude con una, “similitudine sulla stagione in cui i raccolti sono già stati portati al sicuro
dentro i villaggi, e allora al pastore basta guardare le sue vacche semplicemente con la
consapevolezza che ci sono. La similitudine intende riferirsi all’essere presenti degli stati
positivi. Mentre per gli stati negativi è necessario fare in modo che non nocciano, per gli stati
positivi è sufficiente esserne consapevoli affinché essi permangano. Quando accade, in questo
processo, di superare una certa soglia, allora diventa possibile una svolta epocale:

Energia infaticabile, insuperabile, era dentro di me, e si stabilì una consapevolezza
irreversibile; il mio corpo era tranquillo e non disturbato, la mia mente unificata.
E comincia la descrizione delle tre fasi dell’illuminazione del Buddha. Nella prima egli vide le
proprie infinite rinascite, nella seconda vide il karma di tutti gli esseri viventii nella terza e
ultima fase fece esperienza della completa estinzione in lui degli inquinanti mentali: la fine di
tutto ciò che è attaccamento, avversione, ignoranza e il sopravvento del contrario, cioè àloka,
luce, e vjjjà, saggezza, al posto di avijjà, ignoranza.

A questo punto risuonano le frasi famose e lapidarie che hanno percorso i secoli, che proclamano
l’illuminazione del Buddha:

È stato fatto quello che doveva essere fatto. Il compito è compiuto, la santa vita è stata
realizzata.

Segue un’altra immagine, sempre in MN 19, ove si parla di un pantano in cui Mara, la
personificazione del male, vuole condurre le mandrie a impantanarsi; ed è il pantano del cammino
errato, della parola errata, della concentrazione errata: cioè l’Ottuplice Sentiero al negativo. Ma
il Buddha, il Tathàgata, il Compiuto, è colui che invece mostra il cammino giusto.

E quindi:
 
Ciò che deve essere fatto per i propri discepoli in virtù della compassione da parte di un maestro
che cerca il loro bene, e ha compassione per essi, questo io ho fatto per voi„ o monaci. Ci sono
queste radici degli alberi, ci sono queste capanne vuote: meditate monaci, non differite la
meditazione, perché ve ne pentirete dopo. Questa è la mia istruzione per voi.

Mi sembra che tutti coloro che sono interessati a questo cammino siano destinatari di questa
esortazione: «Non differite la meditazione*.

Coloro che praticano da tempo si possono rendere conto in qualsiasi momento di vera pratica della
grande legge di cui parla il Buddha, ossia il passaggio dal pensiero-intenzione all’inclinazione. E
più ce ne rendiamo conto, più svilupperemo la motivazione a far sì che la mente inclini in una
direzione salutare e non in quella contraria.

Grazie alla meditazione e alla consapevolezza, veniamo sempre più in contatto con la nostra
abitudine alla distrazione, alla reattività, alla cecità. Ma “incontrare” la nostra cecità, il
nostro vivere a caso, rappresenta una parte molto importante della pratica. Se non incontriamo le
qualità che ci limitano, non potremo occuparcene. Tutto ciò che costituisce la pratica, dai lunghi
ritiri a piccoli “mezzi abili” (come ad esempio rispondere al telefono dopo due o tre respiri
consapevoli, o usare i semafori rossi come momenti di risveglio), si ripropone di affrontare sempre
più spesso il nostro “sonno” per poter andare oltre, e passare dalle intenzioni nocive alle
intenzioni salutari.

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